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26 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#2


Attesissimo e graditissimo ritorno sul podio di colui che per un intero lustro (2000-2005) guidò l’Orchestra milanese: Riccardo Chailly, che però si è portato dietro la Filarmonica scaligera per eseguire la Prima Sinfonia, in un programma già presentato a Ferrara proprio domenica scorsa e che sarà replicato domenica prossima a Rimini (come si vede, la Romagna si fa un baffo delle alluvioni e dei criminali ritardi del Governo!)

L’antipasto della serata è un’opera che forse non è nemmeno (tutta farina del sacco) di Mahler: un Preludio Sinfonico di contestata attribuzione, e del quale molti esperti tendono ad assegnare la paternità ad un compositore che il Mahler 16enne per la verità idolatrava. Parliamo di Anton Bruckner, del quale Mahler era tifoso al punto da trascriverne per pianoforte la sterminata Terza Sinfonia proprio mentre la stessa faceva una fine invereconda alla prima esecuzione.

Il brano in questione è stato suonato nell’arrangiamento/ricostruzione di Albrecht Gūrsching. Sono poco più di sei minuti di musica accattivante, piuttosto arcigna (DO minore!) ma tutto sommato godibile che forse, chissà, ci racconta qualcosa sui primi vagiti di Mahler. 

Ma il piatto forte era Il Titano, pretenzioso sottotitolo che Mahler affibbiò a quello che lui stesso definì poema sinfonico, ispirato appunto al romanzo di Jean Paul. Che alla prima di Budapest fece la stessa fine – un autentico disastro, con tumulti di folla inferocita - della Terza di Bruckner a Vienna! Ma il nostro, nonché ritirarsi in buon ordine e chiedere scusa, rilanciò alla grande, cassando un ingiudicabile movimento con trombetta obbligata (Blumine) ed elevando il suo pretenzioso poema sinfonico nientemeno che al rango di Sinfonia in quattro movimenti!

Beh, oggi possiamo tranquillamente sostenere che i progenitori del buzzurro Orban di musica non capissero proprio nulla… o per caso non siamo noi di bocca troppo buona, ormai assuefatta a tutto?

Sia come sia, l’esecuzione è stata, ma proprio a dir nulla, stre-pi-to-sa! Ovviamente a partire dall’interpretazione di Chailly, che ha letteralmente cesellato, ma proprio una-per-una, le 1707 (+ ritornelli) battute della partitura, cavandone ogni recondito segreto.

Va da sé che poi sono gli strumentisti a suonare, e ieri (credo complice l’acustica della sala, meno dispersiva di quella dell’enorme bomboniera del Piermarini) davvero hanno fatto giungere alle nostre orecchie suoni di purezza e trasparenza assoluta (archi), Naturlaute come immagino li intendesse Mahler (legni) e abbaglianti luminosità (ottoni), il tutto supportato alla grande (ove richiesto) da arpa e percussioni.

Insomma, anche chi ascoltava quest’opera per la 176ma volta alla fine ha dato in escandescenze, tributando a tutti interminabili ovazioni da stadio.

19 maggio, 2023

Chailly e l’enorme Ottava di Mahler

Questa sera la Scala ha ospitato la seconda delle tre serate dedicate alla cosiddetta Sinfonia dei Mille di Gustav Mahler: sul podio della Filarmonica il Direttore musicale, oggi autentica autorità in merito a questo tipo di repertorio (non è un caso che l’ultima comparsa dell’Ottava a Milano, nell’ottobre di quasi 10 anni fa con laVerdi, ebbe proprio lui da protagonista).

Nell’occasione di questi concerti è stata anche inaugurata una nuova scatola sonora (pannelli che racchiudono lati e fondo del palco) che ha consentito di spostare ancor più verso il fondo-scena il coro, garantendo quindi il minimo sindacale di spazio per l’enorme compagine strumentale-corale reclamata da questa sesquipedale partitura. In effetti il colpo d’occhio dei cori su una specie di gradinata da stadio era impressionante, e a proposito di cori, a quelli della Scala (principale, diretto da Malazzi, e Voci bianche di Casoni) si è aggiunto quello della Fenice, diretto da Alfonso Caiani.

E i cori sono stati i grandi protagonisti della serata, che invece mi è parsa di livello non eccelso nei solisti, escluso il grande Volle: Merbeth e Pastirchak (arrivate come Volle quasi all’ultimo momento) appena sufficienti, Vogt le note le canta tutte benissimo, ma la voce è adatta a Marianus come a Siegfried (!?!) 

Orchestra sui suoi standard (qualche svirgolata di trombette & C è perdonabile, in tanto mare).

Successo calorosissimo per tutti, e sacrosanto, chè il solo affrontare e domare questo mostro merita incondizionato elogio.

17 ottobre, 2020

Alla Scala l’ipertrofico ma umano Mahler di Mehta

Ancora Zubin Mehta sul podio scaligero per la seconda delle tre esecuzioni della mastodontica Terza di Mahler. La quale tenne a battesimo, nell’ormai lontano 1982, sotto la bacchetta del suo fondatore Claudio Abbado, la neonata Filarmonica della Scala, allora sponsorizzata da Mediaset (precisamente dal colto Confalonieri, non già dal musicista da strapazzo Berlusconi...) che irradiò in diretta il concerto su Canale5. Beh, erano tempi in cui la cultura ancora trovava un minimo di spazio e attenzione anche nel mondo del business, che oggi si dedica caso mai a guidare con TV e giornali la macchina della politica.

La quale, applicando le prosaiche regole del business, toglie risorse alla cultura, considerata centro di costo e non di profitto. E, sempre seguendo questo principio, consente ogni deroga alle regole di distanziamento in bar, ristoranti e luoghi pubblici consimili, riempie i mezzi di trasporto all’80% (in realtà anche al 120%...) mentre impone a teatri e sale cinematografiche - dove per definizione si sta seduti e composti a godersi lo spettacolo - assurde limitazioni di capienza (10-20% al massimo). Così è bastata la recente impennata di contagi (preoccupante, ma certo non imputabile ai teatri) per tarpare le ali alla nascente stagione scaligera, il cui annuncio, programmato per ieri mattina, è stato rinviato sine-die stante la minaccia di nuovi lock-down. Non solo, ma anche gli spettacoli già programmati dal 20 ottobre in avanti sono sub-judice e rischiano l’annullamento. Invece: fermare campionati e coppe? Dico, scherziamo?
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Bene (anzi... malissimo) torniamo a Mahler-Mehta. Il venerabile Direttore indiano ha approcciato questa Terza con la stessa serenità da grande-vecchio che aveva mostrato con Strauss, ma anche con Verdi: non è il Mahler sesquipedale che troppo spesso ci viene propinato (anche sulla base di ragioni non proprio peregrine, come ho già ricordato tempo fa) ma un Mahler al quale è come fossero stati aggiunti 10 anni di età, rispetto a quella che aveva nel 1894-96 quando compose la sinfonia. Meno sanguigno, meno velleitario, ma forse più... umano, ecco.

Brave le coriste e le voci bianche di Casoni nel loro bimm-bamm; discreta la Daniela Sindram (per me meglio in Arnim-Brentano che in Nietzsche...); emozionante la tromba - pareva arrivare dall’aldilà - del postiglione Francesco Tamiati, tutti lungamente applauditi dopo questa autentica maratona.

Ma il trionfatore è stato ovviamente lui, il grande vecchio Zubin, che fatica a reggersi sulle gambe, ma che ha la testa a posto più di tanti giovani!

01 ottobre, 2020

Mehta illustra Strauss alla Scala

Ieri sera il venerabile Zubin Mehta ha offerto la seconda delle tre serate del concerto straussiano di questa stagione d’autunno della Scala. In programma due opere che sono quasi un testa-coda (anzi: un coda-testa, data la sequenza di presentazione) della produzione del compositore bavarese.

Non posso immaginare cosa abbia guidato Mehta nella scelta (e sequenza esecutiva) dei due titoli... a me piace vederci lo Strauss che - a 84 anni - si accomiata dal mondo, mano nella mano con Pauline (Im Abendrot); e poi, come in un flashback a 50 anni prima, lo Strauss 34enne che aveva prefigurato - con le ultime note di Ein Heldenleben - proprio la conclusione della sua avventura artistica. Sì, perchè il poema sinfonico si chiude con la visione del pensionamento dell’eroe vittorioso in compagnia della sua musa. Inoltre, così come nel Tondichtung si rinverdiscono le memorie delle precedenti imprese dell’eroe, nel Lied da vonEichendorff Strauss guarda ancor più indietro (60 anni) all’idealista morente che, nell’aldilà, raggiunge la pienezza del suo ideale.   
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Ormai abbiamo fatto il callo alla (purtroppo infelice, ma le regole anti-Covid così vogliono) disposizione dell’orchestra, confinata nel fondo dell’orrida caverna del palcoscenico del Piermarini, e davvero non si vede l’ora che le cose tornino verso la normalità... ma temo ahinoi che ciò resti solo una pia illusione.

Tocca alla bella nordica Camilla Nylund (i suoi 52 anni li porta davvero bene!) di proporci in apertura le stupefacenti note dei Vier letzte Lieder, sui quali mi sono un pò dilungato quasi tre anni orsono.

Lei è una delle principali specialiste del repertorio (soprattutto operistico) wagneriano e straussiano e anche qui non ha smentito la sua fama. Voce ben impostata, acuti sempre fermi e morbidi, grande espressività. Un poco carente sulle note gravi (il REb del terzo Lied lo ha carpito a stento); a proposito di Beim Schlafengehen anche lei (come praticamente tutte) non ha nemmeno provato a percorrere in apnea l’interminabile legato sul tausendfach, prendendo fiato a metà percorso. Subito prima, mirabile l’assolo di violino di Laura Marzadori, la terza spalla dei Filarmonici (ma terza solo per l’anagrafe, chè qui e poi ancor più nel massacrante passaggio solistico del poema sinfonico ha dimostrato di non temere confronti con alcuno).  

Mehta ha avuto qualche problema con i fogli della partitura: all’attacco del secondo e del terzo Lied lo si è visto sfogliare avanti e indietro le pagine, quasi a cercare il bandolo della matassa, e anche la Camilla lo ha guardato con stupore misto a preoccupazione. Poi lui si è rifatto con il poema sinfonico, lasciando direttamente la partitura in camerino!
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A seguire appunto l’autobiografico Ein Heldenleben, un vero e proprio romanzo dove Strauss sembra condensare non soltanto i (circa) 15 anni di carriera artistica che aveva alle spalle nel 1898, ma addirittura prefigurare il futuro, fino al... tramonto (!) Ecco una mia sommaria analisi dei sei capitoli del romanzo, pubblicata qui parecchi anni fa...

Mehta ha tenuto un approccio assai sostenuto, tempi sempre comodi e niente enfasi o gratuiti fracassi, nemmeno nella scena della battaglia (qui però c’è lo zampino della forzata disposizione dell’orchestra, dove soprattutto i fiati faticano a farsi sentire in sala). Devo supporre che il Maestro abbia interpretato l’opera dello Strauss giovane eroe spavaldo con lo spirito dello Strauss disincantato del 1948? Chissà...

Alla fine gli applausi sono fioccati copiosi per tutti, con speciale menzione per il corno di Danilo Stagni (protagonista con la Marzadori dei passaggi solistici, ma in precedenza anche della la chiusa di September, che è sempre cosa... sbudellante). Ripetute chiamate per Mehta, che esce facendosi sorreggere dalla bella e bionda Laura.

C’è ancora una replica... chi può non si perda l’occasione.

12 settembre, 2019

MITO-2019 - Chung-Romanovsky agli Arcimboldi


Ieri sera il vasto anfiteatro degli Arcimboldi - riempito più di un uovo! - ha ospitato la Filarmonica scaligera per un concerto tutto russo. Sul podio il redivivo orientale-estremo Myung-Whun Chung e alla tastiera l’orientale-semplice (ma svezzato qui da noi, nel bolognese) Alexander Romanovsky.

É curioso ricordare il diverso atteggiamento tenuto (ai suoi tempi) verso i due brani in programma da tale Gustav Mahler. Il quale, nel 1911 a New York, si adoperò allo spasimo per ribadire il successo al nuovissimo Terzo concerto di Rachmaninov con la NY Philharmonic, un paio di mesi dopo la prima eseguita dalla NY Symphony con Damrosch sul podio. Lo stesso Autore (e interprete) rimase stupefatto dal rigore e dal perfezionismo di Mahler, che non esitò a strapazzare gli orchestrali, costringendoli ad un super-lavoro nelle prove per raggiungere l’eccellenza nell’esecuzione.

Ecco invece come lo stesso Mahler, nell’estate di 10 anni avanti, a Vienna, aveva descritto a Guido Adler la Patetica ciajkovskiana:

Si tratta di un lavoro superficiale e senza profondità. Anche il colore dovrebbe darci qualcosa di più di se stesso, altrimenti rimane un mero ornamento e polvere negli occhi! Osservandolo da vicino, non ne resta poi gran cosa. Questi arpeggi, che vanno dal grave all’acuto, queste concatenazioni armoniche insignificanti non possono dissimulare il vuoto e l’assenza di invenzione.

Apperò!
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Dopo il consueto pistolotto (in senso non salviniano!) della maestrina Gaia Varon, che è incorsa in un tipico lapsus da lateral-thinking (attribuendo l’idea di appiccicare alla Sesta il titolo di Patetica a Modest... ehm, Musorgski) il 35enne ukraino si è quindi cimentato con il famigerato Rach3, da lui caricato di tutto il possibile tardo-decadente-romanticismo, che da sempre suscita nel pubblico e nei critici ampie divisioni, fra ammiratori estasiati e detrattori nauseati. Ma il ragazzo (non sembra cambiato molto dal lontano 2001 quando si impose al Premio Busoni) ha una tal carica espressiva, coniugata con una innata modestia (temprata dagli anni duri che lui e famiglia passarono dopo l’emigrazione) da garantirsi un successo clamoroso e ripetute chiamate, alle quali risponde dapprima con un altro Rachmaninov e poi con un Bach... adulterato!      
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Chiusura quindi in grande con la Patetica, dove Chung ha avuto modo di smentire ampiamente il velenoso giudizio di Mahler, mettendo in risalto di questa ormai inflazionata partitura il carattere di sguardo-all’indietro (come sarà, ma guarda un po’ la nemesi, la Nona mahleriana) a ripercorrere una vita artistica accidentata e costellata di grandezze - lo spontaneo applauso arrivato alla fine dell’Allegro molto vivace ne è stato testimone - e di miserie, destinata inesorabilmente a chiudersi nel silenzio, dopo le ultime battute della triade di SI minore esalate dagli archi bassi, sull’indicazione Molto ritenuto (e non... Morendo, come la simpatica Gaia ha inventato, anche qui parlando di Mahler!)   

Pubblico entusiasta e prodigo di battimani e ovazioni per Direttore e Professori.

22 giugno, 2018

Un ragazzino sul podio scaligero per l’addio di Mahler


Herbert Blomstedt, 91 anni fra 20 giorni, è salito questa sera sul podio del Piermarini per dirigervi la Nona mahleriana (repliche sabato e domenica, che suggerisco ai distratti di far carte false pur di non perdersele...)

Forse nessuno può interpretare lo spirito e l’interno programma dell’ultimo lascito di Mahler meglio di chi è sopravvissuto di 40 anni (per ora... non mettiamo limiti alla provvidenza) rispetto all’età che aveva l’Autore alla sua morte. Perchè questo venerabile svedese (nato peraltro nel Massachussets poco prima della crisi del ’29) ne ha potuto metabolizzare al massimo i contenuti e i tesori nascosti: consiglio a tutti di ascoltare questa sua intervista su Mahler (con divagazioni su Bruckner e Sibelius... dove il nostro ne ha per molti, persino per uno dei suoi maestri, Lenny Bernstein) che è rivelatrice del suo approccio, oltre che delle circostanze che lo avvicinarono - proprio all’età in cui Mahler aveva da poco completato la Nona - al compositore boemo.

L’allampanato Herbert dimostra si e no due terzi della sua età, da come si muove fuori dal podio. Sopra il quale invece riduce i movimenti all’essenziale: niente bacchetta, ma le lunghissime dita fanno delle sue mani due affilate spade che fendono l’aria dettando tempo e attacchi con infallibile precisione. Il suo sarà pure un gesto antiquato, ma anche un profano capisce se ciò che si suona è in 4 o in 3, perbacco!

Quanto alla lettura di questo autentico testamento in musica (per me paragonabile ad altri testamenti, dalla bachiana Die Kunst der Fuge, passando per il Requiem mozartiano, la beethoveniana Große Fuge, la Nona di Bruckner...) essa ha la nordica freddezza di chi cerca la verità nelle note e non nella biografia dell’Autore. Ma è la stessa freddezza del ghiaccio secco che, posto repentinamente a contatto con la pelle, te la brucia più che se fosse un tizzone ardente.

Difficile descrivere o esprimere ciò che si prova di fronte a musica che è un vero distillato di suoni che paiono provenire da spazi siderali (l’aldilà?) o che torturano la tonalità fino quasi a stravolgerla, ma senza mai rinnegarla. L’addio alla vita e/o l’addio ad una musica che dopo tre secoli sembrava (apparentemente) arrivata al capolinea? Ciascuno può sentirci cose diverse e tutte plausibili, Blomstedt probabilmente si schiera con la seconda interpretazione (lui del resto ammette di nascere con Bach) ma il risultato della sua lettura si colloca sulle più alte vette dell’interpretazione musicale.

Un altro nordico, Salonen, allora ben più giovane di Blomstedt, aveva diretto qui nel Piermarini la stessa opera più di 8 anni fa, lasciandomi un ricordo indelebile, pari a quello legato alla visita di Abbado a Firenze a fine 2011. Ecco, tra le diverse ascoltate dal vivo, mi piace accomunare queste tre interpretazioni, ciascuna con le sue diversità e peculiarità, ma tutte approdate ad un unico risultato: l’indicibile emozione che si prova ascoltando questi suoni.

Inutile dire del grandioso trionfo che il pubblico ha decretato per Direttore e strumentisti. Ripeto: chi appena può, non perda una delle due prossime repliche.

26 gennaio, 2018

Chailly: inferno e paradiso


A proposito di giudizi su interpretazioni ed interpreti, ma anche a proposito di tifoserie, claque e affini, ecco un esempio davvero paradigmatico. Mi è offerto dall’esecuzione della Quarta ciajkovskiana (di cui ho riferito da poco a proposito del concerto de laVerdi con Emelyanychev) della Filarmonica scaligera, lo scorso 22, con Chailly sul podio (dico subito: non ho assistito a quel concerto, nè ho potuto seguirlo per radio).

Leggete cosa ne scrive un’importante (forse la più importante) rivista online italiana di musica:

Nella seconda parte della serata, il numeroso pubblico – entusiasta per Grosvernor – ha potuto assistere ad una memorabile esecuzione della Quarta Sinfonia di Čajkovskij. Chailly in più occasioni ha mostrato una predilezione personale per il lavoro sottolineandone la pregnanza drammatica e appassionata: una inclinazione sentimentale confermata da una lettura che è stata il frutto di un rinnovato studio della nuova edizione critica della partitura da parte del maestro. Da una lettera del compositore alla confidente e generosa mecenate baronessa Nadezda von Meck possiamo delineare con chiarezza il dettagliato programma che sta alla base della Sinfonia e sintetizzabile nella lotta dell’uomo contro il destino.
L’approccio di Chailly - maturato negli anni - si è mostrato fortemente dolente e meditato nei toni (primi due movimenti) e, in generale, poco propenso alle fascinose concessioni esteriori (terzo e quarto tempo). Dopo il coinvolgente turbinio emotivo del mastodontico Andante maestoso (che da solo dura circa la metà della Sinfonia), il direttore ha ben delineato - aspetto solitamente trascurato – la struttura asimmetrica dell’Andantino in modo di canzona accrescendone così quel colore malinconico tipico della sera (riprendendo le note esplicative del compositore) "quando siedi solo, stanco del lavoro, prendi un libro, ma ti cade dalle mani e i ricordi si affastellano”. Con un gusto teatrale sempre controllato, Chailly ha contrapposto all’introspezione del movimento precedente l’acceso virtuosismo dell’orchestra dello Scherzo e il rondò dell’Allegro con fuoco conclusivo. Alla conclusione meritata ovazione per tutti i protagonisti della serata.

Due giorni dopo Chailly e Filarmonica hanno ripetuto il concerto a Londra, nel prestigioso Barbican. Ecco come recensisce, in particolare, la sinfonia una commentatrice britannica:    

So to Tchaikovsky’s Fourth. Oh no, not again? Well, that crunching noise you can hear is the sound of a critic eating her words. Hear an interpretation like this one and you see why this work is played so often: it’s fabulous. In Chailly’s hands the first movement emerged as an overwhelming emotional statement, marvellously paced and structured, heart and logic fusing to spectacular effect. With musical drama like this, who needs opera? (...) An encore from Verdi himself – the Overture to I vespri siciliani – sent us home hoping for a return visit from the Milanese as soon as possible.

Ecco invece qualche parere di loggionisti scaligeri:

Molto godibile Grieg. Il resto da dimenticare
...
Orripilante quarta, piatta, scialba, noiosissima e con un orribile suono
...
durante la Quarta ero quasi in pena

___

Ora, non è escluso che i commentatori paludati abbiano un filino calcato la mano con gli elogi: succede spesso e volentieri, per carità. Ma che la Quarta di Ciajkovski suonata dalla Filarmonica con Chailly diventi oggetto orripilante, è un parere sinceramente bizzarro (o anche qui è questione di claque?)

21 settembre, 2017

MITO – Chiusura a Milano con Chailly


Riccardo Chailly e la Filarmonica scaligera hanno chiuso ier sera all’Arcimboldi la sessione milanese del MITO (questa sera si ripeteranno per chiudere la manifestazione, sotto la Mole) con un concerto di musiche novecentesche, seguendo un percorso a ritroso che partendo dal ’67 ci ha fatto risalire al ’45 e da qui al ’16 (poi al ’24). Percorso che l’onnipresente Gaia Varon ha presentato in senso contrario, sottolineando le grandi diversità formali e sostanziali fra le opere dei tre autori in programma. L’anfiteatro della Bicocca presentava parecchi vuoti... ma è talmente enorme che riempirlo è impresa davvero ardua.  

Ha aperto la serata Lontano di György Ligeti, che qui si può ascoltare diretto da uno dei più strenui ammiratori del musicista ungherese nato in Transilvania, Claudio Abbado con i Wiener nel 1988.
Musica che sembra provenire dallo spazio siderale (è in effetti parente di quella che Kubrick impiegò nel celebre 2001, a Space Odissey) a partire dalla quinta vuota (LAb-REb) dei due violoncelli soli sulla quale flauti, clarinetti e fagotti in sequenza (seguiti poi da corni, viole, oboe, tromba, violini...) tutti in pppp e/o con sordina, fanno nascere la prima delle tre ondate sonore che – separate da due intermezzi – richiamano visioni ancestrali, oniriche, come di galassie che si vanno formando per continua espansione ed arricchimento (grazie alla cosiddetta micropolifonia che ne costituisce il tessuto sonoro) salvo poi magari finire risucchiate da qualche buco nero... ultimo dei quali evocato dal diminuendo-morendo-niente dei due clarinetti e clarinetto basso.   

Musica unica e irripetibile, uscita dalla mente di un essere umano la cui esistenza aveva attraversato i tempi più bui del ‘900, passando dai campi di lavoro del ’44 (e da quelli di concentramento – Mauthausen e Auschwitz - che ospitarono fratello e genitori) all’Ungheria del ’56. Forse oggi non ci fa più quell’effetto di sconvolgente novità, ma resta un’esperienza di ascolto davvero emozionante, che i Filarmonici e il loro Direttore hanno saputo rinnovare con grande efficacia.
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Julian Rachlin ci ha poi proposto quello che è in pratica il canto del cigno di Béla Bartók, il Concerto per viola, composto nel 1945 - su commissione del famoso William Primrose - a poche settimane dalla morte e rimasto purtroppo allo stato di abbozzo (la linea del solista e scarne-scarse indicazioni di strumentazione) poi completato dal fido allievo Tibor Serly. Su una pagina del manoscritto si trova anche l’indicazione dei tempi di esecuzione del Concerto: 20’15” (10’20” + 5’10”+ 4’45”):


Qui un’ormai storica interpretazione del grande Yehudi Menhuin. Pezzo di grande modernità, a dispetto della struttura assolutamente classica dei tre movimenti, la cui verve non è per nulla offuscata dalla miseria delle condizioni materiali in cui versava l’Autore quando vergava queste note sui righi. Rachlin l’ha interpretata da par suo, ben spalleggiato dall’orchestra, che evidentemente Serly (dovendola... inventare) ha tenuto su un profilo di... non ingerenza sulle linee bartokiane della viola. Applausi e ripetute chiamate per il 43enne lituano, che si sottrae a un bis uscendo per l’ultima volta... a mani vuote!
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Dopo la pausa, i due più eseguiti poemi della trilogia romana di Ottorino Respighi: Fontane e Pini di Roma. Debussy-iano il primo, Strauss-iano il secondo, si potrebbe arguire con massima semplificazione, due output certamente influenzati dall’atmosfera del post-tardo-romanticismo ed estranei alle novità (digeribili – Stravinski – o meno – Schönberg&C) di quel primo quarto del secolo scorso.

L’Orchestra li suona assai di frequente e non si smentisce, guidata con polso sicuro e gesto energico da Chailly. Così c’è modo anche per un encore, altro cavallo di battaglia degli scaligeri (qui mentre lo provano in quella che per anni fu la casa del Direttore!)

27 giugno, 2017

Il ritorno in Scala del venerabile Bernard

 

Dopo 16 mesi dalla sua prima visita in assoluto ha fatto ritorno al Piermarini un grande vecchio (88 suonati!): Bernard Haitink. Per guidare strumenti e voci scaligere in un altro monumento della nostra civiltà musicale: dopo quel Requiem brahmsiano, è stata la volta della colossale Missa beethoveniana. Eccone una sua abbastanza recente interpretazione con i radiofonici-bavaresi, della quale è superstite qui il basso-baritono Hanno Müller-Brachmann. Con lui il tenore Peter Sonn, recente apprezzato David nei Meistersinger e le due voci femminili di Camilla Tilling e Gerhild Romberger.

Haitink ha una lunga consuetudine con la Missa: solo sul tubo lo si può ascoltare (sempre con i bavaresi) nel 2003 e prima ancora (1997) con la BBC ai PROMS (per inciso, la Missa è ospite assai frequente in quella kermesse estiva, che evidentemente non è poi così... leggera come si potrebbe credere). 

Teatro abbastanza affollato per questa terza e ultima tornata del concerto: alla fine del quale ci sono stati grandi applausi per tutti, ma soprattutto per lui, questo vecchietto arzillo e schivo che in 90 minuti avrà usato il trespolo collocato su podio sì e no per 90 secondi, per il resto dirigendo ben ritto sulle gambe e con la proverbiale sobrietà di gesto.

Sui suoi tempi (sempre assai... sostenuti) si potrebbe discutere, come sul livello (buono ma non eccelso) delle voci soliste (splendido invero il coro di Casoni) ma il piacere che si prova ascoltando queste note fa sciogliere ogni appunto critico. L’emozione al Benedictus (col magico violino di Francesco Manara) e al conclusivo Agnus Dei è sempre indicibile: una decina di secondi di doveroso silenzio assoluto ha preceduto l’applauso liberatorio. 

Ripetute chiamate per i solisti e per Haitink, che uscendo sempre si fermava davanti ai tre gradini che portano fuori dal palco: l’ultima volta è stato Pereira a rispingerlo letteralmente verso il podio, per prendersi una strameritata ovazione, a questa Missa e ad una carriera gloriosa quanto sobriamente vissuta. Chissà se anche per lui in Scala non ci sarà due senza tre!

23 febbraio, 2016

Prêtre saluta la Scala dopo 10 lustri

 

Era il 1966 quando Georges Prêtre debuttò alla Scala con Faust, titolo quanto mai drammatico e straziante. Sapete come l’ha salutata ieri sera, la sua Scala, a 50 anni di distanza e a quasi 92 anni? Con un forsennato can-can!

 

Ecco una persona che, vedendo ormai lo striscione del traguardo – quello dell’ultima corsa - mostra ancora un amore fanciullesco per la vita più spensierata!

 

Fa tenerezza, il vecchio Georges: maschera sorridente, ma come paiono sorridere i teschi (eh sì!); camminata incerta, come le sue autentiche, impertinenti invenzioni in Barcarolle e Boléro, per andare (senza bastone, abbandonato prima di scenderli) dai gradini di uscita al proscenio e viceversa; uno sgabello foderato di rosso ai margini del palco dove sostare per qualche attimo fra una chiamata e l’altra, fra un brano e l’altro; niente leggio (le partiture evidentemente zampillano dai suoi occhi...); niente podio, ma soltanto una sedia, pudicamente schermata al pubblico, dove si accuccia ma dalla quale si alza a scatti (come fa subito per l’imperiosa Egmont) per sottolineare con l’energia di un ventenne i passaggi salienti di ciò che si suona; la bacchetta lasciata in consegna alla Eriko dopo la sinfonia della Forza (protervia e dolcezza mirabilmente coniugate) e poi rifiutata quasi sdegnosamente per dirigere a mani nude la sua adorata Barcarolle.  

 

Recensire un concerto come quello di ieri non avrebbe senso (o forse sì, ma solo per la quota Buchbinder, solidissima prestazione nel terzo beethoveniano e funambolica parafrasi del lisztiano Rigoletto, una specie di bis fatto dopo l’intervallo, a palcoscenico deserto) poichè non di concerto trattavasi, ma di un reciproco abbraccio (l’ultimo, diciamolo pure senza infingimenti) fra questo venerabile personaggio e un pubblico e un’orchestra che gli devono moltissimo. Tenerissima l’immagine del vegliardo che alla fine, scalati con l’aiuto di Buchbinder i due gradini dell’ingresso in scena, si è girato verso la sala per salutare ancora una volta il suo pubblico in delirio.  


Mille fois merci, Georges!


26 giugno, 2014

Barenboim alla Scala si fa in due per DonGnocchi


Fra una recita e l’altra del… guthiano Così, Daniel Barenboim - del quale si può dire tutto il male, salvo che manchi di umana, sociale e cristiana (!) carità - ha trovato, insieme ai professori della Filarmonica, il modo e il tempo per dedicarsi ad opere di bene: un concerto a beneficio della benemerita Fondazione DonGnocchi.

Concerto che lo ha visto – in un teatro abbastanza gremito - contemporaneamente come Direttore e Interprete. Sul secondo fronte era alla tastiera per suonare il K595, composto circa un anno dopo (inizio 1791) la terza fatica dapontiana. È l’ultimo dei concerti per pianoforte e orchestra e – salvo poche venature d’ombra - sprizza serenità e gioia di vivere da ogni battuta: e pensare che Mozart non arriverà a vedere il 1792…
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Composto per una circostanza particolare e per essere eseguito in una sala d’albergo, ha un organico ridotto all’osso: solo 7 fiati (niente clarinetti e trombe) più gli archi. Numerose sono le auto-citazioni che vi compaiono, come quella di un inciso (che appare a battuta 5) proveniente dal finale della sinfonia Haffner, che a sua volta lo aveva mutuato dal Ratto:


A battuta 13 ecco un motivo che ci ricorda il Finale della Jupiter: sono i violini secondi ad esporlo, armonizzati per terze dai violini primi:


Il tema del Larghetto è una reminiscenza della Sinfonia Linz (finale) e una sua iniziale cellula viene anche riproposta, con diversa scansione ritmica, dal solista nell'Allegro conclusivo:

Il cui tema principale Mozart impiegherà quasi contemporaneamente in una canzone:


Una curiosità, per così dire, editoriale, riguarda un passaggio dell’Allegro iniziale, che nelle partiture storicamente esistenti sul mercato fin dopo la metà del secolo scorso manca di 7 battute (dopo la 46). Si tratta di un passaggio che compare più tardi nello sviluppo e poi proprio alla fine del movimento: pare che nell’esposizione manchi dal manoscritto di Mozart, sostituito però da un appunto che verosimilmente serviva da richiamo. Le sette battute sono state reintegrate nell’edizione critica della NMA (1960) cui oggi (quasi) tutti gli interpreti fanno riferimento:


Si possono ascoltare in questa esecuzione proprio di Barenboim con i Wiener, da 1‘38“ a 1‘52“ del filmato. Una delle mosche bianche che ancora impiega l’edizione non emendata è  Jenö Jandó, qui con András Ligeti da 1’28”.
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Dopo una falsa partenza, dovuta ad intemperanze di qualche cafone in platea prontamente redarguito, l’approccio di Barenboim è assai leggero, quasi compassato: personalmente un poco di freschezza in più non mi sarebbe dispiaciuta, magari nell’Allegro finale. Comunque è sempre un piacere ascoltare questo autentico gioiello della produzione del Teofilo.

E anche il pubblico mostra di apprezzare, con ripetute chiamate del Maestro, che non può esimersi dall’offrirci un bis: le beethoveniane Sei variazioni sull’aria Nel cor più non mi sento da La molinara di Paisiello (qui il grande Kempff).   
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Ecco infine l’inflazionata Quinta di Ciajkovski. Nel primo movimento Barenboim ci vede proprio la marcia pesante del destino che arriva minaccioso, poi l’orizzonte si apre nell’Andante cantabile (grazie al corno di Danilo Stagni) e la Valse è suonata come un minuetto settecentesco. Finale enfatico e retorico quanto basta, e forse più, con i grandiosi fracassi che contraddistinguono l’ostinato prevalere della volontà sul destino cinico e baro. Gran trionfo con innumerevoli chiamate.

12 marzo, 2013

Noseda porta in Scala le due anime di Rachmaninov


Evidentemente per non dimenticare quella lingua (da lui appresa durante gli anni di gavetta c/o Gergiev) il mio concittadino Gianandrea Noseda ha scelto un programma tutto russo per il suo ritorno in Scala.

È un russo non… sovietico, trattandosi del traditore (smile!) Rachmaninov, di cui si eseguono il concerto più famoso e la sinfonia più sfigata. Per la verità il programma è un pochino diverso e più scarno di quello che il sito-web del Direttore presenta ancor oggi (con L’isola dei morti e il quarto, anziché secondo, concerto).

Meglio… informata è la pianista medesima, che è la 26enne Kathia Buniatishvili (la desinenza del suo cognome basta ed avanza per identificarla come conterranea di tale… Stalin!) che si cimenta con uno dei concerti - il secondo - più eseguiti (non necessariamente più nobili) del repertorio pianistico.

Ma per inquadrare il Rachmaninov che Noseda ci propone sarà però opportuno invertire la sequenza della locandina, e partire dalle vicende che accompagnarono la malnata Prima sinfonia. Scopriremo come le due opere eseguite oggi stiano su due opposti versanti della produzione del russo, il cui indirizzo estetico mutò drasticamente nei tre anni che le separano.  

La sinfonia, composizione di un Rachmaninov 22enne (siamo ancora nell’ottocento, pur se verso la fine) subì un fiasco totale alla prima esecuzione del 1897 a Leningrado (era il 15 marzo, mai sfidare le idi… d’altronde lui era nato al pesce d’aprile). Disastro probabilmente dovuto a tutt’altro tipo di fiasco, quello di vodka che il direttore Glazunov aveva ingurgitato prima di salire sul podio (smile! però ad altri direttori, tipo Barbirolli, pare che una buona dose d’alcol in corpo facesse effetti musicalmente strabilianti…)

Tutto ciò fu causa di una tremenda frustrazione e depressione, che portò Rachmaninov praticamente sull’orlo della pazzia, dalla quale depressione fu guarito grazie ad una robusta cura a base di ipnosi praticatagli da uno psichiatra russo specializzatosi a Parigi (tale Nikolai Dahl) cui il compositore dedicò per riconoscenza proprio il concerto – la sua prima opera post-choc - che ha aperto qui la serata.

E così la sinfonia venne del tutto abbandonata da Rachmaninov, che se ne disinteressò per il resto della sua vita, al punto tale da lasciarla in un cassetto a Mosca, al momento di emigrare in occidente, e mandarne così perduta la partitura. Solo a metà del secolo scorso (1945, due anni dopo la morte del compositore in California) questa fu ricostruita dalle singole parti strumentali ritrovate al Conservatorio di Leningrado, ed eseguita a Mosca dove, cosa apparentemente inconcepibile in un mondo staliniano che opprimeva e umiliava i patrioti Prokofiev e Shostakovich, ottenne un successo strepitoso!

A me la vendetta, sono io che ricambierò (Paolo, Lettera ai Romani): profetiche parole vergate da Rachmaninov in calce alla partitura! Ma che forse erano dirette più prosaicamente a tale Anna Lodyzhenskya, la dedicataria della sinfonia, una bella gitana moglie di un suo amico, colpevole di non avergliela data (!?)

Tanto per inquadrare l’opera nel contesto storico, essa è più o meno coeva delle prime sinfonie di Mahler e dei poemi sinfonici di Strauss; è di poco più giovane della Patetica e della sinfonia Dal nuovo mondo. Personalmente la trovo piuttosto velleitaria, ma per nulla affettata e dolciastra come molte delle composizioni successive di Rachmaninov, che fra l’altro le sono debitrici di varie idee musicali. È invece un’opera interessante, assolutamente innovativa, per non dire di più, rispetto al pur adorato Ciajkovski; ostica da digerire anche per noi che abbiamo le orecchie allenate ed assuefatte al noise del novecento, e quindi figuriamoci per gente di più di un secolo fa.

E proprio in queste sue positive qualità sta l’aspetto più singolare e inquietante di tutta la vicenda legata al suo originario fallimento: l’aver convinto (o magari spinto a livello inconscio) Rachmaninov ad abbandonare – ahilui e ahinoi - la strada dell’innovazione per rifluire istintivamente (o furbescamente?) nella bambagia di un’anacronistica tradizione tardo-ciajkovskiana (che anni dopo in USA gli consentirà di fare palate di proseliti e soprattutto di… dollari!) Più o meno il contrario di ciò che succederà sul piano artistico (non certo economico!) ad un altro fuoruscito dalla Russia, Igor Stravinski, anche lui svezzatosi alla mammella di Ciajkovski, ma poi trasformatosi in un radicale (a suo modo) innovatore.
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Tutti i quattro movimenti della sinfonia sono introdotti da una cellula motivica (un veloce gruppetto) che vi ricompare qua e là e che si incaricherà anche di chiuderla:

Invece il motivo ispiratore della sinfonia, dove viene impiegato in modo abbastanza intelligente, è il Dies Irae, che diventerà purtroppo negli anni successivi una insopportabile manìa del compositore. Lo intravediamo già nell’introduzione (Grave) di 7 battute, dove il RE (tonalità d’impianto, in minore) in realtà si muove come dominante di SOL minore: l’introduzione si chiude infatti con un accordo di SOL, addirittura maggiore, che degrada subito a minore, anticipando chiaramente il motto della sesta mahleriana (!) Già questa apparentemente gratuita trovata testimonia di un approccio originale e innovativo nei confronti di una forma che con Brahms pareva aver esaurito tutte le sue potenzialità.

La discesa da SI a SIb (che ha determinato la virata da maggiore a minore) continua nei fiati fino al LA, dominante del RE minore sul quale viene esposto dal clarinetto il primo tema (Allegro ma non troppo) la cui derivazione dal canto gregoriano è palese, quanto la rassomiglianza con il motivo dell’Allegro vivace del finale della quinta di Ciajkovski:


Segue un controsoggetto in SIb, esposto da viole, celli e bassi:

Poi il tema principale riprende con gran vigore e crescendo, per acquetarsi in prossimità dell’entrata del secondo tema (siamo ovviamente nel regno della forma-sonata) Moderato, in SOL minore e SIb maggiore, esposto inizialmente dai violini:


Un tema dal sapore gitano (come la dedicataria dell’opera…) che sfocia in un controsoggetto lamentoso, in 7/4 negli oboi, prima di una enfatica e pesante reiterazione del secondo tema, in SIb maggiore, che chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è aperto da una velocissima quartina di biscrome che riporta l’atmosfera un semitono sotto, sul LA, dominante del RE minore in cui viene ripresentato il primo tema, in Allegro vivace e in un interessante contrappunto, prima nei soli archi, poi arricchito dai fiati. Il secondo tema si fa udire, piuttosto storpiato, negli strumentini, modulando sul MI minore, dove si adagia momentaneamente anche il primo tema. Il quale viene ancora poderosamente sviluppato, fino a rimodulare a RE minore in vista della ricapitolazione.  

La quale canonicamente ripropone il primo tema nella tonalità d’impianto, poi il controsoggetto in SIb e poi ancora il secondo tema e relativo controsoggetto portati nella tonalità del primo (RE). Una transizione porta poi alla Coda, improntata al primo tema, che ora scopertamente presenta la sua origine chiesastica.

Pur con qualche aspetto di immaturità e acerbezza, si tratta di un movimento assai bene strutturato, che coniuga lodevolmente il rispetto delle regole classiche con il tentativo di innovarle dall’interno.

Segue l’Allegro animato, con funzione di Scherzo. Già le primissime battute ci riportano i due chiodi fissi della sinfonia: la cellula iniziale e il Dies Irae, qui esposto inizialmente in FA maggiore, per terze, dai primi violini:

I fagotti rispondono con un motivo sincopato discendente, contrappuntato da un richiamo dei corni:

Questi motivi sostengono l’intero movimento, il primo comparendo in tonalità diverse e spesso in inversione, l’altro manifestandosi qua e là in archi e strumentini. Veloci terzine fanno da sottofondo agitando l’atmosfera, e sottolineando folate ascendenti negli archi, dove il Dies Irae compie anche diverse spettrali irruzioni.

Una sezione centrale, una specie di abbozzo di trio, è affidata a due violini soli, che intonano, sulla struttura della cellula iniziale, una melodia di sapore prettamente gitano. Riprende lo Scherzo in tutto il suo vigore, ma sempre caratterizzato dalla leggerezza delle terzine di archi e strumentini.

Per finire i violini presentano il Dies Irae, ora in chiaro (RE minore) seguito dalla cellula iniziale, prima delle 6 battute conclusive, siglate dal clarinetto sul REb (sesta minore, perdendosi) che sfocia nel DO, dominante del FA maggiore con cui gli archi in pizzicato pppp chiudono il movimento. Che va lodato per la mirabile capacità che Rachmaninov mostra a livello di intelligente manipolazione dei semplici motivi di base.

Ecco poi il delicatissimo Larghetto, immancabilmente aperto dalla cellula iniziale che introduce – qui assai languidamente - il dolce tema in SIb esposto dal clarinetto:

Tema che si sviluppa subito in una lunga melodia, che verrà poi ripresa e variata anche da oboe, flauto e archi, che le imprimono anche inflessioni gitane.

Una sezione centrale, sostenuta da cupi accordi sincopati dei corni, con successivi pesanti interventi di tromboni e tuba e dall’agitarsi degli archi, porta un’improvvisa oscurità, che però si dirada presto per far posto al sereno, col ritorno del tema principale nei due violini e violoncelli solisti; tema che riprende la sua ampia dimensione - contrappuntato nei corni da un austero motivo che richiama con discrezione il solito Dies Irae - prima di sfumare in una cadenza in SIb maggiore, per terze, dei clarinetti, sul pizzicato degli archi.

Il finale è un classico Allegro con fuoco. La struttura è riconducibile ad un’introduzione, all’esposizione di un gruppo di due temi in RE (maggiore e minore) e di un secondo gruppo di due temi in LA maggiore; segue una sezione centrale (DO#) prima della ricapitolazione, dove torna il secondo dei temi del primo gruppo e il secondo gruppo di temi. Chiude il tutto una lenta transizione all’enfatica coda.

È sempre la cellula iniziale ad aprire il movimento introducendo, dopo tre schianti dell’orchestra, una fanfara delle trombe ritmata dal tamburino, trombe che arpeggiano per terze sulla triade di RE maggiore. Archi e legni espongono in questa tonalità un primo tema, di vaga rassomiglianza ciajkovskiana, ancora una volta derivato dal Dies Irae, tutto scandito da crome alternate a pause, con andamento irregolarmente sincopato, mentre i fiati e il tamburino continuano a scandirne il ritmo marziale:

Chiusa l’esposizione del tema, torna la cellula iniziale, che introduce un nuovo soggetto, negli archi con i corni a interloquire con le prime tre note del Dies Irae; si oscilla fra maggiore e minore, finchè un crescendo dei legni non porta alla plateale esposizione del Dies Irae da parte del contrabbasso-tuba:

Ora i violini presentano un secondo tema (Con anima) canonicamente sulla dominante LA maggiore; un’atmosfera che tornerà nel finale della seconda sinfonia, una lunga melodia dal sapore zingaresco:

La contrappuntano poi i corni, con portamento invero maestoso, prima che un nuovo soggetto, ancora mutuato dal Dies Irae (in tempo Più vivo) faccia la sua comparsa negli archi e si sviluppi in modo concitato ed enfatico - in cui si riconosce nelle trombe un inciso (terza minore discendente-ascendente) che troveremo nella Coda - fino a chiudere la sezione con poderosi accordi di LA maggiore dell’intera orchestra.

Gli archi bassi tengono quel LA per altre tre battute, dopodichè (in 3/4) inizia un lungo Allegro mosso (che poi diviene Più vivo) in tonalità DO# minore-maggiore. Ne è protagonista inizialmente l’oboe, poi è tutta l’orchestra a svilupparlo con inflessioni zingaresche e atmosfere un po’ decadenti, che richiamano certo Ciajkovski sdolcinato. Questa è forse la parte meno robusta della sinfonia, almeno a mio parere.

L’Allegro con fuoco riprende ora il sopravvento per la ripresa dei temi principali: si parte dall’introduzione, ora assai ampliata, poi è il secondo motivo del primo gruppo di temi a fare capolino, virando temporaneamente dal RE al SOL, su cui riudiamo nella tuba il Dies Irae; segue il secondo gruppo di temi, trasposto in RE (in piena obbedienza alle classiche regole) col Dies Irae che imperversa, fino alla chiusura su un terrificante accordo di RE minore seguito da un perentorio colpo di tam-tam.

Ora subentra un ampio Largo, che riprende invariabilmente il motivo del Dies Irae (qui in SI minore) e lo sviluppa in modo enfatico, con salite e successive discese cromatiche (a mo’ del wagneriano tema del Sonno) e prepara l’arrivo della coda (Con moto).

Essa è occupata da ben nove reiterazioni, in tutti gli archi e con enfasi incredibile, di un motivo costituito inizialmente da una terza minore discendente-ascendente (RE-SI-RE) già udita in precedenza, seguita dal gruppetto comparso fin dall’inizio della sinfonia. Alla quinta reiterazione l’intervallo discendente-ascendente diventa una terza maggiore (RE-SIb-RE) e il tam-tam fa sentire, per quattro volte, il suo metallico fracasso; alla sesta ripetizione (e poi per le restanti tre) l’intervallo è di quarta (RE-LA-RE, tonica-dominante-tonica). L’ultima reiterazione del motivo, invece del gruppetto, si limita ad esporre, in fff, due crome dell’accordo perfetto di RE maggiore, nell’intera orchestra.
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Ora, pur non risparmiando qualche critica agli aspetti meno convincenti della sinfonia, devo dire che la trovo personalmente rimarchevole, per essere praticamente la prima esperienza del genere di un giovane di 22 anni. Pur nel rispetto sostanziale dei canoni classici (struttura dell’opera e dei singoli movimenti) essa mostra grandi qualità innovative, che solo raramente sfociano in velleitarismo o presunzione.

Ed è un vero peccato che il clamoroso (e del tutto immeritato) insuccesso dell’opera abbia poi materialmente compromesso l’intera produzione successiva dell’autore che, viceversa, avrebbe verosimilmente potuto rivaleggiare, in quanto a progressismo, con i connazionali Prokofiev, Shostakovich e (sull’altro fronte) Stravinski.
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Noseda, che diresse tre anni orsono la prima esecuzione a Chicago della Sinfonia con la CSO e che ieri l’ha fatta risuonare per la prima volta dentro il Piermarini, ne ha interpretato lodevolmente lo spirito, mettendone in risalto le migliori qualità, caso mai eccedendo fin troppo nei contrasti e nei chiaroscuri.

Difficile immaginare perché – contrariamente alle indicazioni in partitura - nella sezione centrale del secondo movimento, abbia fatto suonare soltanto uno dei due primi violini, e analogamente, nella ripresa del terzo movimento, abbia fatto suonare solo un violino e un violoncello, invece di due coppie…

L’orchestra ha comunque risposto bene, in tutte le sezioni, mostrando un buon affiatamento col maestro: tutti accolti da calorosi applausi.
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Torniamo ora al Secondo concerto, che apriva la serata. Come detto, quest’opera, composta precisamente a cavallo del secolo, segnò la riscossa – fisica, morale e musicale (ma a modo suo piuttosto regressiva) – del compositore, dopo il penoso stato di depressione legato al flop della sua Prima Sinfonia.  

Qui purtroppo la fanno da padroni: un’ispirazione prosaica, zuccherosità e affettazione in quantità industriale, cedimenti continui al patetico, o al kitsch. Insomma: roba da romanzi di Harmony… E non sarà un caso se da subito e fino ai giorni nostri il concerto sia diventato oggetto di abbondanti saccheggi da parte di autori di colonne sonore di film, sigle di trasmissioni tv o canzonette.

La simpatica Kathia Buniatishvili ce la mette ovviamente tutta per valorizzare la mappazza, compreso qualche rubato (del suo amato Chopin) nel centrale Adagio sostenuto, ma ahilei aggiungere del cioccolato ad una melassa finisce per renderla ancor più indigeribile! E anche Noseda non va purtroppo indenne da colpe, per il volume esagerato con cui tiene l’orchestra, che spesso e volentieri riduce il pianoforte a strumento muto. Comunque gli applausi non mancano: voglio pensare indirizzati agli esecutori per la loro abnegazione, e non all’autore per la qualità della sua opera…  

Meno male che la bella Kathia (presentatasi con un lungo nero che le lasciava scoperto anche il fondo schiena, smile!) ci riconcilia con la musica… seria (ri-smile!) regalandoci una versione abarth della proibitiva trascrizione de La valse (qui un suo indimenticabile precursore).