Evidentemente per non dimenticare quella lingua (da lui appresa durante gli anni di gavetta c/o Gergiev) il mio concittadino Gianandrea Noseda ha scelto un programma tutto russo per il suo ritorno in Scala.
È un russo
non… sovietico, trattandosi del traditore (smile!)
Rachmaninov, di cui si eseguono il
concerto più famoso e la sinfonia più sfigata. Per la verità il programma è un
pochino diverso e più scarno di quello che il sito-web del Direttore presenta ancor oggi (con L’isola dei
morti e il quarto, anziché secondo, concerto).
Meglio…
informata è la pianista medesima, che è la 26enne Kathia Buniatishvili (la desinenza del suo cognome basta ed avanza per identificarla come
conterranea di tale… Stalin!) che si
cimenta con uno dei concerti - il secondo - più eseguiti (non
necessariamente più nobili) del repertorio pianistico.
Ma per
inquadrare il Rachmaninov che Noseda ci propone sarà però opportuno invertire
la sequenza della locandina, e partire dalle vicende che accompagnarono la
malnata Prima sinfonia. Scopriremo come le due opere eseguite oggi stiano su due opposti
versanti della produzione del russo, il cui indirizzo estetico mutò
drasticamente nei tre anni che le separano.
La
sinfonia, composizione di un Rachmaninov 22enne (siamo ancora nell’ottocento,
pur se verso la fine) subì un fiasco totale alla prima esecuzione del 1897 a
Leningrado (era il 15 marzo, mai sfidare le idi…
d’altronde lui era nato al pesce d’aprile).
Disastro probabilmente dovuto a tutt’altro tipo di fiasco, quello di vodka che
il direttore Glazunov aveva ingurgitato
prima di salire sul podio (smile! però
ad altri direttori, tipo Barbirolli, pare che una buona dose d’alcol in corpo
facesse effetti musicalmente strabilianti…)
Tutto ciò
fu causa di una tremenda frustrazione e depressione, che portò Rachmaninov praticamente
sull’orlo della pazzia, dalla quale depressione fu guarito grazie ad una
robusta cura a base di ipnosi praticatagli da uno psichiatra russo
specializzatosi a Parigi (tale Nikolai Dahl) cui il
compositore dedicò per riconoscenza proprio il concerto – la sua prima opera post-choc - che ha aperto qui la serata.
E così la
sinfonia venne del tutto abbandonata da Rachmaninov, che se ne disinteressò per
il resto della sua vita, al punto tale da lasciarla in un cassetto a Mosca, al
momento di emigrare in occidente, e mandarne così perduta la partitura. Solo a
metà del secolo scorso (1945, due anni dopo la morte del compositore in
California) questa fu ricostruita dalle singole parti strumentali ritrovate al
Conservatorio di Leningrado, ed eseguita a Mosca dove, cosa apparentemente inconcepibile
in un mondo staliniano che opprimeva e umiliava i patrioti Prokofiev e Shostakovich, ottenne un successo strepitoso!
A
me la vendetta, sono io che ricambierò (Paolo, Lettera ai Romani): profetiche parole vergate da
Rachmaninov in calce alla partitura! Ma che forse erano dirette più
prosaicamente a tale Anna Lodyzhenskya, la dedicataria della sinfonia, una
bella gitana moglie di un suo amico, colpevole di non avergliela data (!?)
Tanto per
inquadrare l’opera nel contesto storico, essa è più o meno coeva delle prime
sinfonie di Mahler e dei poemi
sinfonici di Strauss; è di poco più
giovane della Patetica e della
sinfonia Dal nuovo mondo.
Personalmente la trovo piuttosto velleitaria, ma per nulla affettata e
dolciastra come molte delle composizioni successive di Rachmaninov, che fra
l’altro le sono debitrici di varie idee musicali. È invece un’opera
interessante, assolutamente innovativa, per non dire di più, rispetto al pur
adorato Ciajkovski; ostica da digerire anche per noi che abbiamo le orecchie
allenate ed assuefatte al noise del
novecento, e quindi figuriamoci per gente di più di un secolo fa.
E proprio in
queste sue positive qualità sta l’aspetto più singolare e inquietante di tutta
la vicenda legata al suo originario fallimento: l’aver convinto (o magari spinto
a livello inconscio) Rachmaninov ad abbandonare – ahilui e ahinoi - la strada
dell’innovazione per rifluire istintivamente (o furbescamente?) nella bambagia
di un’anacronistica tradizione tardo-ciajkovskiana (che anni dopo in USA gli consentirà
di fare palate di proseliti e soprattutto di… dollari!) Più o meno il contrario
di ciò che succederà sul piano artistico (non certo economico!) ad un altro fuoruscito dalla Russia, Igor Stravinski, anche lui svezzatosi alla
mammella di Ciajkovski, ma poi trasformatosi in un radicale (a suo modo) innovatore.
___
Tutti
i quattro movimenti della sinfonia sono introdotti da una cellula motivica (un
veloce gruppetto) che vi ricompare
qua e là e che si incaricherà anche di chiuderla:
Invece
il motivo ispiratore della sinfonia, dove viene impiegato in modo abbastanza
intelligente, è il Dies Irae, che
diventerà purtroppo negli anni successivi una insopportabile manìa del
compositore. Lo intravediamo già nell’introduzione (Grave) di 7 battute, dove il RE (tonalità d’impianto, in minore) in
realtà si muove come dominante di SOL minore: l’introduzione si chiude infatti con
un accordo di SOL, addirittura maggiore, che degrada subito a minore,
anticipando chiaramente il motto
della sesta mahleriana (!) Già questa
apparentemente gratuita trovata testimonia di un approccio originale e
innovativo nei confronti di una forma che con Brahms pareva aver esaurito tutte
le sue potenzialità.
La
discesa da SI a SIb (che ha determinato la virata da maggiore a minore)
continua nei fiati fino al LA, dominante del RE minore sul quale viene esposto dal
clarinetto il primo tema (Allegro ma non
troppo) la cui derivazione dal canto gregoriano è palese, quanto la
rassomiglianza con il motivo dell’Allegro
vivace del finale della quinta di
Ciajkovski:
Segue
un controsoggetto in SIb, esposto da viole, celli e bassi:
Poi il tema principale riprende con gran vigore e
crescendo, per acquetarsi in prossimità dell’entrata del secondo tema (siamo
ovviamente nel regno della forma-sonata)
Moderato, in SOL minore e SIb
maggiore, esposto inizialmente dai violini:
Un
tema dal sapore gitano (come la dedicataria dell’opera…) che sfocia in un
controsoggetto lamentoso, in 7/4 negli oboi, prima di una enfatica e pesante
reiterazione del secondo tema, in SIb maggiore, che chiude l’esposizione.
Lo sviluppo è aperto da una velocissima
quartina di biscrome che riporta l’atmosfera un semitono sotto, sul LA,
dominante del RE minore in cui viene ripresentato il primo tema, in Allegro vivace e in un interessante
contrappunto, prima nei soli archi, poi arricchito dai fiati. Il secondo tema
si fa udire, piuttosto storpiato, negli strumentini, modulando sul MI minore,
dove si adagia momentaneamente anche il primo tema. Il quale viene ancora
poderosamente sviluppato, fino a rimodulare a RE minore in vista della ricapitolazione.
La
quale canonicamente ripropone il primo tema nella tonalità d’impianto, poi il
controsoggetto in SIb e poi ancora il secondo tema e relativo controsoggetto
portati nella tonalità del primo (RE). Una transizione porta poi alla Coda, improntata al primo tema, che ora
scopertamente presenta la sua origine chiesastica.
Pur
con qualche aspetto di immaturità e acerbezza, si tratta di un movimento assai
bene strutturato, che coniuga lodevolmente il rispetto delle regole classiche
con il tentativo di innovarle dall’interno.
Segue
l’Allegro animato, con funzione di
Scherzo. Già le primissime battute ci riportano i due chiodi fissi della sinfonia: la cellula iniziale e il Dies Irae, qui esposto inizialmente in
FA maggiore, per terze, dai primi
violini:
I fagotti rispondono con un motivo sincopato
discendente, contrappuntato da un richiamo dei corni:
Questi
motivi sostengono l’intero movimento, il primo comparendo in tonalità diverse e
spesso in inversione, l’altro manifestandosi qua e là in archi e strumentini. Veloci
terzine fanno da sottofondo agitando l’atmosfera, e sottolineando folate
ascendenti negli archi, dove il Dies Irae compie anche diverse spettrali
irruzioni.
Una
sezione centrale, una specie di abbozzo di trio,
è affidata a due violini soli, che intonano, sulla struttura della cellula
iniziale, una melodia di sapore prettamente gitano. Riprende lo Scherzo in
tutto il suo vigore, ma sempre caratterizzato dalla leggerezza delle terzine di
archi e strumentini.
Per
finire i violini presentano il Dies Irae, ora in chiaro (RE minore) seguito
dalla cellula iniziale, prima delle 6 battute conclusive, siglate dal
clarinetto sul REb (sesta minore, perdendosi)
che sfocia nel DO, dominante del FA maggiore con cui gli archi in pizzicato pppp chiudono il movimento. Che va
lodato per la mirabile capacità che Rachmaninov mostra a livello di
intelligente manipolazione dei semplici motivi di base.
Ecco
poi il delicatissimo Larghetto, immancabilmente
aperto dalla cellula iniziale che introduce – qui assai languidamente - il
dolce tema in SIb esposto dal clarinetto:
Tema
che si sviluppa subito in una lunga melodia, che verrà poi ripresa e variata
anche da oboe, flauto e archi, che le imprimono anche inflessioni gitane.
Una
sezione centrale, sostenuta da cupi accordi sincopati dei corni, con successivi
pesanti interventi di tromboni e tuba e dall’agitarsi degli archi, porta un’improvvisa
oscurità, che però si dirada presto per far posto al sereno, col ritorno del
tema principale nei due violini e violoncelli solisti; tema che riprende la sua ampia dimensione
- contrappuntato nei corni da un austero motivo che richiama con discrezione il
solito Dies Irae - prima di sfumare in una cadenza in SIb maggiore, per terze, dei clarinetti, sul pizzicato degli archi.
Il
finale è un classico Allegro con fuoco.
La struttura è riconducibile ad un’introduzione, all’esposizione di un gruppo
di due temi in RE (maggiore e minore) e di un secondo gruppo di due temi in LA
maggiore; segue una sezione centrale (DO#) prima della ricapitolazione, dove
torna il secondo dei temi del primo gruppo e il secondo gruppo di temi. Chiude
il tutto una lenta transizione all’enfatica coda.
È
sempre la cellula iniziale ad aprire il movimento introducendo, dopo tre
schianti dell’orchestra, una fanfara delle trombe ritmata dal tamburino, trombe
che arpeggiano per terze sulla triade
di RE maggiore. Archi e legni espongono in questa tonalità un primo tema, di
vaga rassomiglianza ciajkovskiana, ancora una volta derivato dal Dies Irae,
tutto scandito da crome alternate a pause, con andamento irregolarmente
sincopato, mentre i fiati e il tamburino continuano a scandirne il ritmo
marziale:
Chiusa
l’esposizione del tema, torna la cellula iniziale, che introduce un nuovo
soggetto, negli archi con i corni a interloquire con le prime tre note del Dies
Irae; si oscilla fra maggiore e minore, finchè un crescendo dei legni non porta
alla plateale esposizione del Dies Irae da parte del contrabbasso-tuba:
Ora
i violini presentano un secondo tema (Con
anima) canonicamente sulla dominante LA maggiore; un’atmosfera che tornerà
nel finale della seconda sinfonia, una
lunga melodia dal sapore zingaresco:
La
contrappuntano poi i corni, con portamento invero maestoso, prima che un nuovo
soggetto, ancora mutuato dal Dies Irae (in tempo Più vivo) faccia la sua comparsa negli archi e si sviluppi in modo
concitato ed enfatico - in cui si riconosce nelle trombe un inciso (terza
minore discendente-ascendente) che troveremo nella Coda - fino a chiudere la
sezione con poderosi accordi di LA maggiore dell’intera orchestra.
Gli
archi bassi tengono quel LA per altre tre battute, dopodichè (in 3/4) inizia un
lungo Allegro mosso (che poi diviene Più vivo) in tonalità DO# minore-maggiore.
Ne è protagonista inizialmente l’oboe, poi è tutta l’orchestra a svilupparlo
con inflessioni zingaresche e atmosfere un po’ decadenti, che richiamano certo
Ciajkovski sdolcinato. Questa è forse la parte meno robusta della sinfonia, almeno
a mio parere.
L’Allegro con fuoco riprende ora il sopravvento
per la ripresa dei temi principali: si parte dall’introduzione, ora assai
ampliata, poi è il secondo motivo del primo gruppo di temi a fare capolino,
virando temporaneamente dal RE al SOL, su cui riudiamo nella tuba il Dies Irae;
segue il secondo gruppo di temi, trasposto in RE (in piena obbedienza alle
classiche regole) col Dies Irae che imperversa, fino alla chiusura su un
terrificante accordo di RE minore seguito da un perentorio colpo di tam-tam.
Ora subentra
un ampio Largo, che riprende invariabilmente
il motivo del Dies Irae (qui in SI minore) e lo sviluppa in modo enfatico, con salite
e successive discese cromatiche (a mo’ del wagneriano tema del Sonno) e prepara l’arrivo della coda (Con moto).
Essa
è occupata da ben nove reiterazioni, in tutti gli archi e con enfasi
incredibile, di un motivo costituito inizialmente da una terza minore
discendente-ascendente (RE-SI-RE) già udita in precedenza, seguita dal gruppetto comparso fin dall’inizio della
sinfonia. Alla quinta reiterazione l’intervallo discendente-ascendente diventa
una terza maggiore (RE-SIb-RE) e il tam-tam fa sentire, per quattro volte, il
suo metallico fracasso; alla sesta ripetizione (e poi per le restanti tre)
l’intervallo è di quarta (RE-LA-RE, tonica-dominante-tonica). L’ultima
reiterazione del motivo, invece del gruppetto,
si limita ad esporre, in fff, due
crome dell’accordo perfetto di RE maggiore, nell’intera orchestra.
___
Ora, pur
non risparmiando qualche critica agli aspetti meno convincenti della sinfonia,
devo dire che la trovo personalmente rimarchevole, per essere praticamente la
prima esperienza del genere di un giovane di 22 anni. Pur nel rispetto
sostanziale dei canoni classici (struttura dell’opera e dei singoli movimenti)
essa mostra grandi qualità innovative, che solo raramente sfociano in
velleitarismo o presunzione.
Ed è un
vero peccato che il clamoroso (e del tutto immeritato) insuccesso dell’opera
abbia poi materialmente compromesso l’intera produzione successiva dell’autore
che, viceversa, avrebbe verosimilmente potuto rivaleggiare, in quanto a progressismo,
con i connazionali Prokofiev, Shostakovich e (sull’altro fronte) Stravinski.
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Noseda, che
diresse tre anni orsono la prima esecuzione a Chicago della Sinfonia con la CSO
e che ieri l’ha fatta risuonare per la prima volta dentro il Piermarini, ne ha
interpretato lodevolmente lo spirito, mettendone in risalto le migliori
qualità, caso mai eccedendo fin troppo nei contrasti e nei chiaroscuri.
Difficile
immaginare perché – contrariamente alle indicazioni in partitura - nella
sezione centrale del secondo movimento, abbia fatto suonare soltanto uno dei
due primi violini, e analogamente, nella ripresa del terzo movimento, abbia
fatto suonare solo un violino e un violoncello, invece di due coppie…
L’orchestra
ha comunque risposto bene, in tutte le sezioni, mostrando un buon affiatamento
col maestro: tutti accolti da calorosi applausi.
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Torniamo
ora al Secondo concerto, che apriva la serata. Come detto, quest’opera,
composta precisamente a cavallo del secolo, segnò la riscossa – fisica, morale
e musicale (ma a modo suo piuttosto
regressiva) – del compositore, dopo il penoso stato di depressione legato al flop della sua Prima Sinfonia.
Qui
purtroppo la fanno da padroni: un’ispirazione prosaica, zuccherosità e
affettazione in quantità industriale, cedimenti continui al patetico, o al kitsch. Insomma: roba da romanzi di Harmony… E non sarà un caso se da subito
e fino ai giorni nostri il concerto sia diventato oggetto di abbondanti
saccheggi da parte di autori di colonne sonore di film, sigle di trasmissioni
tv o canzonette.
La
simpatica Kathia Buniatishvili ce la
mette ovviamente tutta per valorizzare la mappazza, compreso qualche rubato (del suo amato Chopin) nel
centrale Adagio sostenuto, ma ahilei aggiungere
del cioccolato ad una melassa finisce per renderla ancor più indigeribile! E
anche Noseda non va purtroppo indenne da colpe, per il volume esagerato con cui
tiene l’orchestra, che spesso e volentieri riduce il pianoforte a strumento
muto. Comunque gli applausi non mancano: voglio pensare indirizzati agli
esecutori per la loro abnegazione, e non all’autore per la qualità della sua
opera…
Meno male
che la bella Kathia (presentatasi con un lungo
nero che le lasciava scoperto anche il fondo schiena, smile!) ci riconcilia con la musica… seria (ri-smile!) regalandoci una versione
abarth della proibitiva trascrizione de La
valse (qui un suo indimenticabile
precursore).
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