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12 marzo, 2013

Noseda porta in Scala le due anime di Rachmaninov


Evidentemente per non dimenticare quella lingua (da lui appresa durante gli anni di gavetta c/o Gergiev) il mio concittadino Gianandrea Noseda ha scelto un programma tutto russo per il suo ritorno in Scala.

È un russo non… sovietico, trattandosi del traditore (smile!) Rachmaninov, di cui si eseguono il concerto più famoso e la sinfonia più sfigata. Per la verità il programma è un pochino diverso e più scarno di quello che il sito-web del Direttore presenta ancor oggi (con L’isola dei morti e il quarto, anziché secondo, concerto).

Meglio… informata è la pianista medesima, che è la 26enne Kathia Buniatishvili (la desinenza del suo cognome basta ed avanza per identificarla come conterranea di tale… Stalin!) che si cimenta con uno dei concerti - il secondo - più eseguiti (non necessariamente più nobili) del repertorio pianistico.

Ma per inquadrare il Rachmaninov che Noseda ci propone sarà però opportuno invertire la sequenza della locandina, e partire dalle vicende che accompagnarono la malnata Prima sinfonia. Scopriremo come le due opere eseguite oggi stiano su due opposti versanti della produzione del russo, il cui indirizzo estetico mutò drasticamente nei tre anni che le separano.  

La sinfonia, composizione di un Rachmaninov 22enne (siamo ancora nell’ottocento, pur se verso la fine) subì un fiasco totale alla prima esecuzione del 1897 a Leningrado (era il 15 marzo, mai sfidare le idi… d’altronde lui era nato al pesce d’aprile). Disastro probabilmente dovuto a tutt’altro tipo di fiasco, quello di vodka che il direttore Glazunov aveva ingurgitato prima di salire sul podio (smile! però ad altri direttori, tipo Barbirolli, pare che una buona dose d’alcol in corpo facesse effetti musicalmente strabilianti…)

Tutto ciò fu causa di una tremenda frustrazione e depressione, che portò Rachmaninov praticamente sull’orlo della pazzia, dalla quale depressione fu guarito grazie ad una robusta cura a base di ipnosi praticatagli da uno psichiatra russo specializzatosi a Parigi (tale Nikolai Dahl) cui il compositore dedicò per riconoscenza proprio il concerto – la sua prima opera post-choc - che ha aperto qui la serata.

E così la sinfonia venne del tutto abbandonata da Rachmaninov, che se ne disinteressò per il resto della sua vita, al punto tale da lasciarla in un cassetto a Mosca, al momento di emigrare in occidente, e mandarne così perduta la partitura. Solo a metà del secolo scorso (1945, due anni dopo la morte del compositore in California) questa fu ricostruita dalle singole parti strumentali ritrovate al Conservatorio di Leningrado, ed eseguita a Mosca dove, cosa apparentemente inconcepibile in un mondo staliniano che opprimeva e umiliava i patrioti Prokofiev e Shostakovich, ottenne un successo strepitoso!

A me la vendetta, sono io che ricambierò (Paolo, Lettera ai Romani): profetiche parole vergate da Rachmaninov in calce alla partitura! Ma che forse erano dirette più prosaicamente a tale Anna Lodyzhenskya, la dedicataria della sinfonia, una bella gitana moglie di un suo amico, colpevole di non avergliela data (!?)

Tanto per inquadrare l’opera nel contesto storico, essa è più o meno coeva delle prime sinfonie di Mahler e dei poemi sinfonici di Strauss; è di poco più giovane della Patetica e della sinfonia Dal nuovo mondo. Personalmente la trovo piuttosto velleitaria, ma per nulla affettata e dolciastra come molte delle composizioni successive di Rachmaninov, che fra l’altro le sono debitrici di varie idee musicali. È invece un’opera interessante, assolutamente innovativa, per non dire di più, rispetto al pur adorato Ciajkovski; ostica da digerire anche per noi che abbiamo le orecchie allenate ed assuefatte al noise del novecento, e quindi figuriamoci per gente di più di un secolo fa.

E proprio in queste sue positive qualità sta l’aspetto più singolare e inquietante di tutta la vicenda legata al suo originario fallimento: l’aver convinto (o magari spinto a livello inconscio) Rachmaninov ad abbandonare – ahilui e ahinoi - la strada dell’innovazione per rifluire istintivamente (o furbescamente?) nella bambagia di un’anacronistica tradizione tardo-ciajkovskiana (che anni dopo in USA gli consentirà di fare palate di proseliti e soprattutto di… dollari!) Più o meno il contrario di ciò che succederà sul piano artistico (non certo economico!) ad un altro fuoruscito dalla Russia, Igor Stravinski, anche lui svezzatosi alla mammella di Ciajkovski, ma poi trasformatosi in un radicale (a suo modo) innovatore.
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Tutti i quattro movimenti della sinfonia sono introdotti da una cellula motivica (un veloce gruppetto) che vi ricompare qua e là e che si incaricherà anche di chiuderla:

Invece il motivo ispiratore della sinfonia, dove viene impiegato in modo abbastanza intelligente, è il Dies Irae, che diventerà purtroppo negli anni successivi una insopportabile manìa del compositore. Lo intravediamo già nell’introduzione (Grave) di 7 battute, dove il RE (tonalità d’impianto, in minore) in realtà si muove come dominante di SOL minore: l’introduzione si chiude infatti con un accordo di SOL, addirittura maggiore, che degrada subito a minore, anticipando chiaramente il motto della sesta mahleriana (!) Già questa apparentemente gratuita trovata testimonia di un approccio originale e innovativo nei confronti di una forma che con Brahms pareva aver esaurito tutte le sue potenzialità.

La discesa da SI a SIb (che ha determinato la virata da maggiore a minore) continua nei fiati fino al LA, dominante del RE minore sul quale viene esposto dal clarinetto il primo tema (Allegro ma non troppo) la cui derivazione dal canto gregoriano è palese, quanto la rassomiglianza con il motivo dell’Allegro vivace del finale della quinta di Ciajkovski:


Segue un controsoggetto in SIb, esposto da viole, celli e bassi:

Poi il tema principale riprende con gran vigore e crescendo, per acquetarsi in prossimità dell’entrata del secondo tema (siamo ovviamente nel regno della forma-sonata) Moderato, in SOL minore e SIb maggiore, esposto inizialmente dai violini:


Un tema dal sapore gitano (come la dedicataria dell’opera…) che sfocia in un controsoggetto lamentoso, in 7/4 negli oboi, prima di una enfatica e pesante reiterazione del secondo tema, in SIb maggiore, che chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è aperto da una velocissima quartina di biscrome che riporta l’atmosfera un semitono sotto, sul LA, dominante del RE minore in cui viene ripresentato il primo tema, in Allegro vivace e in un interessante contrappunto, prima nei soli archi, poi arricchito dai fiati. Il secondo tema si fa udire, piuttosto storpiato, negli strumentini, modulando sul MI minore, dove si adagia momentaneamente anche il primo tema. Il quale viene ancora poderosamente sviluppato, fino a rimodulare a RE minore in vista della ricapitolazione.  

La quale canonicamente ripropone il primo tema nella tonalità d’impianto, poi il controsoggetto in SIb e poi ancora il secondo tema e relativo controsoggetto portati nella tonalità del primo (RE). Una transizione porta poi alla Coda, improntata al primo tema, che ora scopertamente presenta la sua origine chiesastica.

Pur con qualche aspetto di immaturità e acerbezza, si tratta di un movimento assai bene strutturato, che coniuga lodevolmente il rispetto delle regole classiche con il tentativo di innovarle dall’interno.

Segue l’Allegro animato, con funzione di Scherzo. Già le primissime battute ci riportano i due chiodi fissi della sinfonia: la cellula iniziale e il Dies Irae, qui esposto inizialmente in FA maggiore, per terze, dai primi violini:

I fagotti rispondono con un motivo sincopato discendente, contrappuntato da un richiamo dei corni:

Questi motivi sostengono l’intero movimento, il primo comparendo in tonalità diverse e spesso in inversione, l’altro manifestandosi qua e là in archi e strumentini. Veloci terzine fanno da sottofondo agitando l’atmosfera, e sottolineando folate ascendenti negli archi, dove il Dies Irae compie anche diverse spettrali irruzioni.

Una sezione centrale, una specie di abbozzo di trio, è affidata a due violini soli, che intonano, sulla struttura della cellula iniziale, una melodia di sapore prettamente gitano. Riprende lo Scherzo in tutto il suo vigore, ma sempre caratterizzato dalla leggerezza delle terzine di archi e strumentini.

Per finire i violini presentano il Dies Irae, ora in chiaro (RE minore) seguito dalla cellula iniziale, prima delle 6 battute conclusive, siglate dal clarinetto sul REb (sesta minore, perdendosi) che sfocia nel DO, dominante del FA maggiore con cui gli archi in pizzicato pppp chiudono il movimento. Che va lodato per la mirabile capacità che Rachmaninov mostra a livello di intelligente manipolazione dei semplici motivi di base.

Ecco poi il delicatissimo Larghetto, immancabilmente aperto dalla cellula iniziale che introduce – qui assai languidamente - il dolce tema in SIb esposto dal clarinetto:

Tema che si sviluppa subito in una lunga melodia, che verrà poi ripresa e variata anche da oboe, flauto e archi, che le imprimono anche inflessioni gitane.

Una sezione centrale, sostenuta da cupi accordi sincopati dei corni, con successivi pesanti interventi di tromboni e tuba e dall’agitarsi degli archi, porta un’improvvisa oscurità, che però si dirada presto per far posto al sereno, col ritorno del tema principale nei due violini e violoncelli solisti; tema che riprende la sua ampia dimensione - contrappuntato nei corni da un austero motivo che richiama con discrezione il solito Dies Irae - prima di sfumare in una cadenza in SIb maggiore, per terze, dei clarinetti, sul pizzicato degli archi.

Il finale è un classico Allegro con fuoco. La struttura è riconducibile ad un’introduzione, all’esposizione di un gruppo di due temi in RE (maggiore e minore) e di un secondo gruppo di due temi in LA maggiore; segue una sezione centrale (DO#) prima della ricapitolazione, dove torna il secondo dei temi del primo gruppo e il secondo gruppo di temi. Chiude il tutto una lenta transizione all’enfatica coda.

È sempre la cellula iniziale ad aprire il movimento introducendo, dopo tre schianti dell’orchestra, una fanfara delle trombe ritmata dal tamburino, trombe che arpeggiano per terze sulla triade di RE maggiore. Archi e legni espongono in questa tonalità un primo tema, di vaga rassomiglianza ciajkovskiana, ancora una volta derivato dal Dies Irae, tutto scandito da crome alternate a pause, con andamento irregolarmente sincopato, mentre i fiati e il tamburino continuano a scandirne il ritmo marziale:

Chiusa l’esposizione del tema, torna la cellula iniziale, che introduce un nuovo soggetto, negli archi con i corni a interloquire con le prime tre note del Dies Irae; si oscilla fra maggiore e minore, finchè un crescendo dei legni non porta alla plateale esposizione del Dies Irae da parte del contrabbasso-tuba:

Ora i violini presentano un secondo tema (Con anima) canonicamente sulla dominante LA maggiore; un’atmosfera che tornerà nel finale della seconda sinfonia, una lunga melodia dal sapore zingaresco:

La contrappuntano poi i corni, con portamento invero maestoso, prima che un nuovo soggetto, ancora mutuato dal Dies Irae (in tempo Più vivo) faccia la sua comparsa negli archi e si sviluppi in modo concitato ed enfatico - in cui si riconosce nelle trombe un inciso (terza minore discendente-ascendente) che troveremo nella Coda - fino a chiudere la sezione con poderosi accordi di LA maggiore dell’intera orchestra.

Gli archi bassi tengono quel LA per altre tre battute, dopodichè (in 3/4) inizia un lungo Allegro mosso (che poi diviene Più vivo) in tonalità DO# minore-maggiore. Ne è protagonista inizialmente l’oboe, poi è tutta l’orchestra a svilupparlo con inflessioni zingaresche e atmosfere un po’ decadenti, che richiamano certo Ciajkovski sdolcinato. Questa è forse la parte meno robusta della sinfonia, almeno a mio parere.

L’Allegro con fuoco riprende ora il sopravvento per la ripresa dei temi principali: si parte dall’introduzione, ora assai ampliata, poi è il secondo motivo del primo gruppo di temi a fare capolino, virando temporaneamente dal RE al SOL, su cui riudiamo nella tuba il Dies Irae; segue il secondo gruppo di temi, trasposto in RE (in piena obbedienza alle classiche regole) col Dies Irae che imperversa, fino alla chiusura su un terrificante accordo di RE minore seguito da un perentorio colpo di tam-tam.

Ora subentra un ampio Largo, che riprende invariabilmente il motivo del Dies Irae (qui in SI minore) e lo sviluppa in modo enfatico, con salite e successive discese cromatiche (a mo’ del wagneriano tema del Sonno) e prepara l’arrivo della coda (Con moto).

Essa è occupata da ben nove reiterazioni, in tutti gli archi e con enfasi incredibile, di un motivo costituito inizialmente da una terza minore discendente-ascendente (RE-SI-RE) già udita in precedenza, seguita dal gruppetto comparso fin dall’inizio della sinfonia. Alla quinta reiterazione l’intervallo discendente-ascendente diventa una terza maggiore (RE-SIb-RE) e il tam-tam fa sentire, per quattro volte, il suo metallico fracasso; alla sesta ripetizione (e poi per le restanti tre) l’intervallo è di quarta (RE-LA-RE, tonica-dominante-tonica). L’ultima reiterazione del motivo, invece del gruppetto, si limita ad esporre, in fff, due crome dell’accordo perfetto di RE maggiore, nell’intera orchestra.
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Ora, pur non risparmiando qualche critica agli aspetti meno convincenti della sinfonia, devo dire che la trovo personalmente rimarchevole, per essere praticamente la prima esperienza del genere di un giovane di 22 anni. Pur nel rispetto sostanziale dei canoni classici (struttura dell’opera e dei singoli movimenti) essa mostra grandi qualità innovative, che solo raramente sfociano in velleitarismo o presunzione.

Ed è un vero peccato che il clamoroso (e del tutto immeritato) insuccesso dell’opera abbia poi materialmente compromesso l’intera produzione successiva dell’autore che, viceversa, avrebbe verosimilmente potuto rivaleggiare, in quanto a progressismo, con i connazionali Prokofiev, Shostakovich e (sull’altro fronte) Stravinski.
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Noseda, che diresse tre anni orsono la prima esecuzione a Chicago della Sinfonia con la CSO e che ieri l’ha fatta risuonare per la prima volta dentro il Piermarini, ne ha interpretato lodevolmente lo spirito, mettendone in risalto le migliori qualità, caso mai eccedendo fin troppo nei contrasti e nei chiaroscuri.

Difficile immaginare perché – contrariamente alle indicazioni in partitura - nella sezione centrale del secondo movimento, abbia fatto suonare soltanto uno dei due primi violini, e analogamente, nella ripresa del terzo movimento, abbia fatto suonare solo un violino e un violoncello, invece di due coppie…

L’orchestra ha comunque risposto bene, in tutte le sezioni, mostrando un buon affiatamento col maestro: tutti accolti da calorosi applausi.
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Torniamo ora al Secondo concerto, che apriva la serata. Come detto, quest’opera, composta precisamente a cavallo del secolo, segnò la riscossa – fisica, morale e musicale (ma a modo suo piuttosto regressiva) – del compositore, dopo il penoso stato di depressione legato al flop della sua Prima Sinfonia.  

Qui purtroppo la fanno da padroni: un’ispirazione prosaica, zuccherosità e affettazione in quantità industriale, cedimenti continui al patetico, o al kitsch. Insomma: roba da romanzi di Harmony… E non sarà un caso se da subito e fino ai giorni nostri il concerto sia diventato oggetto di abbondanti saccheggi da parte di autori di colonne sonore di film, sigle di trasmissioni tv o canzonette.

La simpatica Kathia Buniatishvili ce la mette ovviamente tutta per valorizzare la mappazza, compreso qualche rubato (del suo amato Chopin) nel centrale Adagio sostenuto, ma ahilei aggiungere del cioccolato ad una melassa finisce per renderla ancor più indigeribile! E anche Noseda non va purtroppo indenne da colpe, per il volume esagerato con cui tiene l’orchestra, che spesso e volentieri riduce il pianoforte a strumento muto. Comunque gli applausi non mancano: voglio pensare indirizzati agli esecutori per la loro abnegazione, e non all’autore per la qualità della sua opera…  

Meno male che la bella Kathia (presentatasi con un lungo nero che le lasciava scoperto anche il fondo schiena, smile!) ci riconcilia con la musica… seria (ri-smile!) regalandoci una versione abarth della proibitiva trascrizione de La valse (qui un suo indimenticabile precursore).

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