Dopo più di due anni tornano a
risuonare in Auditorium le poderose note mahleriane della Terza! E come
allora è Zhang Xian a guidare i
complessi strumentali e vocali de laVerdi
in questo interminabile cammino in sei tappe che è un vero e proprio per aspera ad astra.
È curioso notare come in un’epoca (a
cavallo fra ‘800 e ‘900) in cui il genere operistico subiva trasformazioni
abbastanza radicali, una delle quali consisteva nell’infliggere decise sforbiciate
ai tempi, rispetto al passato (raramente si superavano le 2 ore e spesso si andava
anche al di sotto dei 90 minuti) Mahler – sulla scia di Bruckner - portasse invece la Sinfonia ad assumere strutture
ipertrofiche mai viste prima (salvo rarissime eccezioni). Prima di Mahler (ma
sempre escludendo Bruckner) si può dire che solo la Nona di Beethoven, la Grande
di Schubert, la Fantastique di
Berlioz (ma solo se eseguite con tutti i da-capo)
e la Lobgesang di Mendelssohn
(peraltro più assimilabile ad un Oratorio) avevano avvicinato o di pochissimo
superato l’ora di durata; da Beethoven (non parliamo di Mozart e Haydn) e su su
fino a Schumann, Mendelssohn, Brahms, Dvorak, Ciajkovski (ma aggiungiamoci pure
i sinfonisti minori Franck,
Saint-Saens, Balakirev, Glazunov, ...) le opere sinfoniche erano di norma
contenute in tempi oscillanti fra i 30 e i 45 minuti.
Ecco, Mahler portò pressochè ad un
raddoppio degli standard di durata, spostando quasi stabilmente le dimensioni
delle sue sinfonie oltre i 60 minuti (solo la prima, senza Blumine, e la quarta
sono di poco al di sotto) e raggiungendo anche (proprio nella Terza) durate paragonabili a quelle
delle opere liriche composte in quel periodo (comprese le straussiane Salome ed
Elektra).
Non a caso si dice quindi che Mahler
abbia portato l‘opera nella sinfonia
(per speculare analogia al Wagner che veniva accusato di aver portato la sinfonia nell’opera…) A
differenza di Bruckner, per il quale le dimensioni temporali delle sinfonie
sono legate ad un allargamento smisurato delle forme classiche, di cui
rispettano però sostanzialmente i caratteri, a partire dalla concisione e
dall’astrattezza dei temi esposti, Mahler sembra aver bisogno di spazio e tempo
per sviluppare invece i suoi ponderosi programmi
interni (talvolta resi manifesti attraverso discutibili - e di norma poi
ritrattati - riferimenti extra-musicali) e per soddisfare un impellente impulso
ad esprimere sensazioni (chiare e precise,
ma più spesso oscure – come il
compositore stesso ammetteva).
Ora, la lunghezza è solo uno dei
difetti che molti musicologi (uno per tutti: Teodoro Celli) e parecchi Direttori (vedi Toscanini o il recentemente scomparso Sawallisch, che mai si decisero ad eseguirle) imputarono e imputano
alle sinfonie di Mahler. Ai denigratori del suo livello artistico-estetico non
par vero poi citare a suo carico un sacco di prove, consistenti nella montagna
di reminiscenze, citazioni, auto-citazioni e scimmiottamenti di musiche altrui (e
spesso proprio… dozzinali) che il boemo era solito infilare nei suoi lavori:
musica che gli restava nelle orecchie e nella testa della tanta, tantissima,
che lui dirigeva o ascoltava ogni giorno e che poi, poco o tanto, finiva sui
righi delle sue sterminate partiture. Insomma: Kapellmeister-musik, null’altro.
E la Terza è letteralmente disseminata di
tali prove, proprio a partire dal tema esposto dagli otto corni in unisono al principio
dell’opera, tema che ricorda vagamente (in minore) l’Allegro non troppo ma con brio del finale della prima di Brahms:
Ma Brahms lo aveva a sua volta derivato da un inno studentesco – impiegato qui pari-pari da Mahler nel quarto gruppo di temi - e successivamente ripreso nella Akademische Festouvertüre:
Ma Brahms lo aveva a sua volta derivato da un inno studentesco – impiegato qui pari-pari da Mahler nel quarto gruppo di temi - e successivamente ripreso nella Akademische Festouvertüre:
Ma ecco poi un motivo che udiamo nell’esposizione del
primo movimento, dapprima solo accennato come un brontolio di fagotti e
controfagotto, poi apparso timidamente nei corni, da ultimo negli archi bassi e
infine esposto enfaticamente dal trombone solista. È una citazione - letterale
(tonalità inclusa) e quindi smaccata - dal Requiem
brahmsiano:
Chissà se questa criptica allusione
alla brevità della vita rappresenta già una delle famose (quanto discutibili) anticipazioni di sventure che verranno
attribuite al compositore soprattutto ai tempi della Sesta e dei Kindertotenlieder…
Nel trio
del Terzo movimento (i cui temi sono
presi da un Lied del Wunderhorn) compare
la cornetta da postiglione (dislocata
dietro le quinte, dovendosi udire da
lontano) che intona una melodia che in certi tratti richiama (in tempo
lento e ritmo languido) una Jota
Aragonesa (ad esempio qui nella trascrizione di Glinka):
A un certo punto la trombetta in orchestra emette
uno squillo che ci ricorda immediatamente quello famoso del secondo atto del Fidelio, allorquando lo sbifido Pizarro
viene avvertito da un suo scagnozzo dell’imminente arrivo del Ministro:
Nel quarto movimento, dapprima nei violini e
successivamente nel canto del contralto sentiamo comparire nientemeno (!) che
una canzone (già allora) popolare, La
Paloma:
Nel quinto movimento (anche questo ispirato ad un
Lied del Wunderhorn) il contralto interloquisce con il coro dei piccoli
cantando cadenze che riappariranno pari-pari nel Das himmlische Leben che chiuderà la quarta sinfonia, e che in origine forse doveva fare da conclusione
proprio a questa…
L’incipit
dell’ultimo movimento espone un tema di stampo parsifaliano (la Fede), che ricorda però anche da
vicino l’Op.135 di Beethoven (terzo
movimento):
Infine compare anche l’amato Verdi (per la verità già nel primo movimento la sommessa fanfara
dei tromboni ci aveva ricordato il letto di morte di Violetta…) laddove si cita
esplicitamente un inciso dell’Otello
(prima scena, la tempesta):
Che dire? Ugo Duse, nel suo testo su Mahler (compie 40 anni, ma per me resta tuttora insuperato, almeno in lingua
italiana, e non me ne vogliano Principe e Fournier-Facio…) riporta una battuta
di Busoni – Tutto è trascrizione – e conclude: è l’uso che se ne fa a decidere
se si tratta di opera d’arte o di cattivo gusto.
Ecco, mentre Teodoro Celli,
grandissimo wagneriano, negava al Mahler sinfonista ogni credito estetico, Duse
non ebbe dubbi in direzione opposta, cogliendo proprio in questa Terza un profondo senso religioso; ma
religioso in termini assolutamente non confessionali (quantunque Mahler la
componesse proprio mentre maturava la decisione di abbandonare l’ebraismo per
abbracciare il cattolicesimo); bensì profondamente umani e soprattutto legati
ad un rapporto davvero panteistico con la Natura,
che culminerà nel Die liebe Erde
dell’estremo commiato.
Ma a proposito di commiati e della Terza, davvero drammatico fu quello con cui Dimitri Mitropoulos passò a miglior vita. Il giorno 2 novembre 1960 il maestro, che meno di due anni prima era stato colpito da un grave infarto a New York, era alla Scala per le prove della mastodontica sinfonia di Mahler. Bene, l’anti-mahleriano Teodoro Celli assistette alla prova, dalla penombra di un palco. Ecco come descrisse la scena:
Sul podio Mitropoulos, impastando i suoni con quelle sue mani parlanti, conduceva l’orchestra a veleggiare attraverso l’eloquenza dei corni, i richiami delle trombe, i rulli del tamburo, l’assolo del trombone e i trilli degli archi con sordina. E il fiume dei suoni scorreva irruente, si diffondeva, sovrabbondava: e, in tutti, l’impegno era al massimo.
Ad un tratto Mitropoulos si fermò. Gettò un urlo e si portò le mani al petto; poi ondeggiò, sussultò: infine precipitò dal podio, direttamente nell’eternità. Il suo corpo stramazzò addosso ai primi violini, travolgendo strumenti e leggii. Io ero saltato in piedi e m’ero sporto spasmodicamente dal palco. E quello che vedevo era così terribile da sembrare irreale. Tutti i professori dell’orchestra erano accorsi al centro e avevano fatto gruppo attorno a quel caduto. Cercavano di sollevarlo, di rianimarlo, lo chiamavano: “Maestro! Maestro!” Ma Mitropoulos era morto; il suo cuore s’era spaccato in due.
Aveva detto a se stesso: “Guai a me, se non dirigo!” Ed era rimasto fedele alla sua missione, fino alla fine.
Già: …und mein Leben ein Ziel hat.
Ma a proposito di commiati e della Terza, davvero drammatico fu quello con cui Dimitri Mitropoulos passò a miglior vita. Il giorno 2 novembre 1960 il maestro, che meno di due anni prima era stato colpito da un grave infarto a New York, era alla Scala per le prove della mastodontica sinfonia di Mahler. Bene, l’anti-mahleriano Teodoro Celli assistette alla prova, dalla penombra di un palco. Ecco come descrisse la scena:
Sul podio Mitropoulos, impastando i suoni con quelle sue mani parlanti, conduceva l’orchestra a veleggiare attraverso l’eloquenza dei corni, i richiami delle trombe, i rulli del tamburo, l’assolo del trombone e i trilli degli archi con sordina. E il fiume dei suoni scorreva irruente, si diffondeva, sovrabbondava: e, in tutti, l’impegno era al massimo.
Ad un tratto Mitropoulos si fermò. Gettò un urlo e si portò le mani al petto; poi ondeggiò, sussultò: infine precipitò dal podio, direttamente nell’eternità. Il suo corpo stramazzò addosso ai primi violini, travolgendo strumenti e leggii. Io ero saltato in piedi e m’ero sporto spasmodicamente dal palco. E quello che vedevo era così terribile da sembrare irreale. Tutti i professori dell’orchestra erano accorsi al centro e avevano fatto gruppo attorno a quel caduto. Cercavano di sollevarlo, di rianimarlo, lo chiamavano: “Maestro! Maestro!” Ma Mitropoulos era morto; il suo cuore s’era spaccato in due.
Aveva detto a se stesso: “Guai a me, se non dirigo!” Ed era rimasto fedele alla sua missione, fino alla fine.
Già: …und mein Leben ein Ziel hat.
___
Devo ammettere che mi emoziona sempre
ripercorrere questo itinerario che ci porta dalle montagne ai prati, agli
animali dei boschi, alla notte catartica e allo scampanìo mattutino, per giungere
infine alla beatitudine dell’Amore,
cui noi poveri mortali abbiamo dato il nome di Dio.
E anche ieri sera l’emozione non è mancata. L’approccio forse eccessivamente garibaldino della Xian ha magari tolto un filo di pathos all’esecuzione; qualche incertezza degli strumentisti (i corni ma anche gli oboi, mi è parso) ha prodotto qualche piccola macchia tecnica, ma in complesso è stata una prestazione di buon livello. Bravissimo Alessandro Ghidotti, cui ieri spettava l’onere e l’onore di suonare da dietro le quinte (con un’argentea tromba in DO) la parte del Posthorn; eccellenti il coro femminile della Gambarini e quello dei piccoli della Tramontin. Positiva per calore e portamento anche la prestazione di Carina Vinke. Grandissimo successo in un Auditorium ancora piacevolmente affollato.
E anche ieri sera l’emozione non è mancata. L’approccio forse eccessivamente garibaldino della Xian ha magari tolto un filo di pathos all’esecuzione; qualche incertezza degli strumentisti (i corni ma anche gli oboi, mi è parso) ha prodotto qualche piccola macchia tecnica, ma in complesso è stata una prestazione di buon livello. Bravissimo Alessandro Ghidotti, cui ieri spettava l’onere e l’onore di suonare da dietro le quinte (con un’argentea tromba in DO) la parte del Posthorn; eccellenti il coro femminile della Gambarini e quello dei piccoli della Tramontin. Positiva per calore e portamento anche la prestazione di Carina Vinke. Grandissimo successo in un Auditorium ancora piacevolmente affollato.
___
Nessun commento:
Posta un commento