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01 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.24


Dopo più di due anni tornano a risuonare in Auditorium le poderose note mahleriane della Terza! E come allora è Zhang Xian a guidare i complessi strumentali e vocali de laVerdi in questo interminabile cammino in sei tappe che è un vero e proprio per aspera ad astra.

È curioso notare come in un’epoca (a cavallo fra ‘800 e ‘900) in cui il genere operistico subiva trasformazioni abbastanza radicali, una delle quali consisteva nell’infliggere decise sforbiciate ai tempi, rispetto al passato (raramente si superavano le 2 ore e spesso si andava anche al di sotto dei 90 minuti) Mahler – sulla scia di Bruckner - portasse invece la Sinfonia ad assumere strutture ipertrofiche mai viste prima (salvo rarissime eccezioni). Prima di Mahler (ma sempre escludendo Bruckner) si può dire che solo la Nona di Beethoven, la Grande di Schubert, la Fantastique di Berlioz (ma solo se eseguite con tutti i da-capo) e la Lobgesang di Mendelssohn (peraltro più assimilabile ad un Oratorio) avevano avvicinato o di pochissimo superato l’ora di durata; da Beethoven (non parliamo di Mozart e Haydn) e su su fino a Schumann, Mendelssohn, Brahms, Dvorak, Ciajkovski (ma aggiungiamoci pure i sinfonisti minori Franck, Saint-Saens, Balakirev, Glazunov, ...) le opere sinfoniche erano di norma contenute in tempi oscillanti fra i 30 e i 45 minuti.

Ecco, Mahler portò pressochè ad un raddoppio degli standard di durata, spostando quasi stabilmente le dimensioni delle sue sinfonie oltre i 60 minuti (solo la prima, senza Blumine, e la quarta sono di poco al di sotto) e raggiungendo anche (proprio nella Terza) durate paragonabili a quelle delle opere liriche composte in quel periodo (comprese le straussiane Salome ed Elektra). 

Non a caso si dice quindi che Mahler abbia portato l‘opera nella sinfonia (per speculare analogia al Wagner che veniva accusato di aver portato la sinfonia nell’opera…) A differenza di Bruckner, per il quale le dimensioni temporali delle sinfonie sono legate ad un allargamento smisurato delle forme classiche, di cui rispettano però sostanzialmente i caratteri, a partire dalla concisione e dall’astrattezza dei temi esposti, Mahler sembra aver bisogno di spazio e tempo per sviluppare invece i suoi ponderosi programmi interni (talvolta resi manifesti attraverso discutibili - e di norma poi ritrattati - riferimenti extra-musicali) e per soddisfare un impellente impulso ad esprimere sensazioni (chiare e precise, ma più spesso oscure – come il compositore stesso ammetteva).     

Ora, la lunghezza è solo uno dei difetti che molti musicologi (uno per tutti: Teodoro Celli) e parecchi Direttori (vedi Toscanini o il recentemente scomparso Sawallisch, che mai si decisero ad eseguirle) imputarono e imputano alle sinfonie di Mahler. Ai denigratori del suo livello artistico-estetico non par vero poi citare a suo carico un sacco di prove, consistenti nella montagna di reminiscenze, citazioni, auto-citazioni e scimmiottamenti di musiche altrui (e spesso proprio… dozzinali) che il boemo era solito infilare nei suoi lavori: musica che gli restava nelle orecchie e nella testa della tanta, tantissima, che lui dirigeva o ascoltava ogni giorno e che poi, poco o tanto, finiva sui righi delle sue sterminate partiture. Insomma: Kapellmeister-musik, null’altro.  

E la Terza è letteralmente disseminata di tali prove, proprio a partire dal tema esposto dagli otto corni in unisono al principio dell’opera, tema che ricorda vagamente (in minore) l’Allegro non troppo ma con brio del finale della prima di Brahms:


Ma Brahms lo aveva a sua volta derivato da un inno studentesco – impiegato qui pari-pari da Mahler nel quarto gruppo di temi - e successivamente ripreso nella Akademische Festouvertüre:

Ma ecco poi un motivo che udiamo nell’esposizione del primo movimento, dapprima solo accennato come un brontolio di fagotti e controfagotto, poi apparso timidamente nei corni, da ultimo negli archi bassi e infine esposto enfaticamente dal trombone solista. È una citazione - letterale (tonalità inclusa) e quindi smaccata - dal Requiem brahmsiano:

Chissà se questa criptica allusione alla brevità della vita rappresenta già una delle famose (quanto discutibili) anticipazioni di sventure che verranno attribuite al compositore soprattutto ai tempi della Sesta e dei Kindertotenlieder

Nel trio del Terzo movimento (i cui temi sono presi da un Lied del Wunderhorn) compare la cornetta da postiglione (dislocata dietro le quinte, dovendosi udire da lontano) che intona una melodia che in certi tratti richiama (in tempo lento e ritmo languido) una Jota Aragonesa (ad esempio qui nella trascrizione di Glinka):


A un certo punto la trombetta in orchestra emette uno squillo che ci ricorda immediatamente quello famoso del secondo atto del Fidelio, allorquando lo sbifido Pizarro viene avvertito da un suo scagnozzo dell’imminente arrivo del Ministro:


Nel quarto movimento, dapprima nei violini e successivamente nel canto del contralto sentiamo comparire nientemeno (!) che una canzone (già allora) popolare, La Paloma:

Nel quinto movimento (anche questo ispirato ad un Lied del Wunderhorn) il contralto interloquisce con il coro dei piccoli cantando cadenze che riappariranno pari-pari nel Das himmlische Leben che chiuderà la quarta sinfonia, e che in origine forse doveva fare da conclusione proprio a questa…


L’incipit dell’ultimo movimento espone un tema di stampo parsifaliano (la Fede), che ricorda però anche da vicino l’Op.135 di Beethoven (terzo movimento):


Infine compare anche l’amato Verdi (per la verità già nel primo movimento la sommessa fanfara dei tromboni ci aveva ricordato il letto di morte di Violetta…) laddove si cita esplicitamente un inciso dell’Otello (prima scena, la tempesta):

Che dire? Ugo Duse, nel suo testo su Mahler (compie 40 anni, ma per me resta tuttora insuperato, almeno in lingua italiana, e non me ne vogliano Principe e Fournier-Facio…) riporta una battuta di BusoniTutto è trascrizione – e conclude: è l’uso che se ne fa a decidere se si tratta di opera d’arte o di cattivo gusto.

Ecco, mentre Teodoro Celli, grandissimo wagneriano, negava al Mahler sinfonista ogni credito estetico, Duse non ebbe dubbi in direzione opposta, cogliendo proprio in questa Terza un profondo senso religioso; ma religioso in termini assolutamente non confessionali (quantunque Mahler la componesse proprio mentre maturava la decisione di abbandonare l’ebraismo per abbracciare il cattolicesimo); bensì profondamente umani e soprattutto legati ad un rapporto davvero panteistico con la Natura, che culminerà nel Die liebe Erde dell’estremo commiato.  

Ma a proposito di commiati e della Terza, davvero drammatico fu quello con cui Dimitri Mitropoulos passò a miglior vita. Il giorno 2 novembre 1960 il maestro, che meno di due anni prima era stato colpito da un grave infarto a New York, era alla Scala per le prove della mastodontica sinfonia di Mahler. Bene, l’anti-mahleriano Teodoro Celli assistette alla prova, dalla penombra di un palco. Ecco come descrisse la scena: 

Sul podio Mitropoulos, impastando i suoni con quelle sue mani parlanti, conduceva l’orchestra a veleggiare attraverso l’eloquenza dei corni, i richiami delle trombe, i rulli del tamburo, l’assolo del trombone e i trilli degli archi con sordina. E il fiume dei suoni scorreva irruente, si diffondeva, sovrabbondava: e, in tutti, l’impegno era al massimo. 

Ad un tratto Mitropoulos si fermò. Gettò un urlo e si portò le mani al petto; poi ondeggiò, sussultò: infine precipitò dal podio, direttamente nell’eternità. Il suo corpo stramazzò addosso ai primi violini, travolgendo strumenti e leggii. Io ero saltato in piedi e m’ero sporto spasmodicamente dal palco. E quello che vedevo era così terribile da sembrare irreale. Tutti i professori dell’orchestra erano accorsi al centro e avevano fatto gruppo attorno a quel caduto. Cercavano di sollevarlo, di rianimarlo, lo chiamavano: “Maestro! Maestro!” Ma Mitropoulos era morto; il suo cuore s’era spaccato in due. 

Aveva detto a se stesso: “Guai a me, se non dirigo!” Ed era rimasto fedele alla sua missione, fino alla fine.  

Già: …und mein Leben ein Ziel hat.
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Devo ammettere che mi emoziona sempre ripercorrere questo itinerario che ci porta dalle montagne ai prati, agli animali dei boschi, alla notte catartica e allo scampanìo mattutino, per giungere infine alla beatitudine dell’Amore, cui noi poveri mortali abbiamo dato il nome di Dio.  

E anche ieri sera l’emozione non è mancata. L’approccio forse eccessivamente garibaldino della Xian ha magari tolto un filo di pathos all’esecuzione; qualche incertezza degli strumentisti (i corni ma anche gli oboi, mi è parso) ha prodotto qualche piccola macchia tecnica, ma in complesso è stata una prestazione di buon livello. Bravissimo Alessandro Ghidotti, cui ieri spettava l’onere e l’onore di suonare da dietro le quinte (con un’argentea tromba in DO) la parte del Posthorn; eccellenti il coro femminile della Gambarini e quello dei piccoli della Tramontin. Positiva per calore e portamento anche la prestazione di Carina Vinke. Grandissimo successo in un Auditorium ancora piacevolmente affollato.
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Il prossimo appuntamento è ancora di quelli da far tremare i… soffitti

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