XIV

da prevosto a leone
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17 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Le Siège de Corinthe


Ieri sera Le Siège de Corinthe è arrivato alla terza delle quattro recite in programma, in un’Adriatic Arena per la verità non proprio piena come un uovo...

Della serie: come rovinare una delle opere migliori del genio pesarese. E l’artefice dell’impresa impossibile risponde al nome di Carlus Padrissa, che ha fatto esattamente il contrario di ciò che Rossini ha genialmente costruito: distruggere tutta la poesia e la sontuosità dell’opera, per presentarci un’accozzaglia di trovate una più becera dell’altra.

A partire dal Konzept di fondo, che trasporta la ricca e colta Corinto in un imprecisato quanto arido deserto, dove due branchi di animali assetati si contendono l’acqua (di centinaia di bottiglioni da dispenser di ufficio stipati a far da permanente scenografia.

Sullo sfondo, già dall’esecuzione della sinfonia, versi di Byron che con il soggetto rossiniano (e soprattutto con la musica!) c’entrano come i cavoli a merenda. A proposito di Byron, il colmo della proditoria aggressione all’arte di Rossini viene perpetrato nel second’atto, allorquando la splendida musica di danza (fra l’altro arricchita di una quarta scena recuperata fra le carte parigine) che deve supportare nientemeno che una grande festa nuziale, viene addirittura stuprata da ciò che si vede in scena, sullo sfondo di altri macabri sproloqui del Lord albionico: dapprima Mahomet e Pamira vittime di incubi notturni, poi scaramucce fra hooligan greci e turchi, sfociate in un generale parapiglia, sempre per il possesso di qualche bidone d’acqua. Insomma: uno scempio, che il pubblico ha giustamente riprovato con sonori buh, certo non indirizzati in quel momento all’orchestra e al povero Roberto Abbado, che avevan fatto del loro meglio per portare quella splendida musica alle nostre orecchie.

Costumi di foggia, colori e disegni stravaganti (due capitelli dorici a far da... reggipetto ad una femmina e un maschio durante la ballade di Ismène faranno epoca!) che rivestivano le masse greche e turche come costumi da bagno, con tanto di cuffia nera in testa; per il resto: turchi sul rosso e greci sul grigiazzurro. Luci impiegate in modo piuttosto elementare: colori pacchiani e abuso di effetti velleitari.   

E poi: pannelli mobili, recanti scritte e immagini che vorrebbero ricordarci gli orrori di tutte le guerre, che scendono e salgono sulla scena, ma vengono anche portati in processione attraverso la platea. E a proposito non parliamo di questa ormai trita-ritrita-frullata-e-rifrullata (quanto idiota) abitudine dei registi da strapazzo di spostare l’azione dal palcoscenico alla platea: qui si son visti cortei, passerelle (una proprio disposta davanti all’orchestra, tipica dei più stolti avanspettacoli) e scene di canto peripatetico, con invito (in occasione della marcetta dei greci, nemmeno fossimo a Vienna al suono della Radetzky) a partecipare all’happening per spettatori fatti alzare dalle loro sedie e spediti a rinforzare la folla di hooligan... mamma mia!
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Dimentichiamo questi obbrobri e passiamo alla musica e al canto, che per fortuna hanno almeno in parte riscattato la volgarità della messinscena. Roberto Abbado si è ancora presentato (come già avevamo saputo alla prima) con un tutore (in realtà una specie di custodia per ottavini messa a tracolla per impedire al braccio destro di accostarsi al fianco) e senza bacchetta: ciò non gli ha impedito di guidare da par suo la OSN-RAI che non ha bisogno di presentazioni, quanto a qualità di suono e compattezza in tutte le sezioni. Un’esecuzione più che apprezzabile: per equilibrio (evitati facili fracassi e mai coperte le voci) e appropriatezza di accenti e sfumature.

Da lodare anche il Coro del Ventidio Basso, preparato egregiamente da Giovanni Farina, che si è così pienamente meritato la fiducia accordatagli dal ROF, dopo la defezione dei bolognesi.

Mediamente più che accettabile il fronte canoro; in particolare mi ha impressionato Sergey Romanovsky, un Nèoclés sicuro e squillante, che ha degnamente coronato la sua prestazione con un’apprezzabile Grand Dieu in apertura del terz’atto. Nino Machaidze l’ho trovata piacevolmente migliorata rispetto a prestazioni del passato: evidentemente lo studio deve averle giovato, in particolare nel rendere più morbidi e meno vetrosi gli acuti, così ne è uscita una Pamira davvero convincente.

Il Mahomet di Luca Pisaroni mi aveva invece convinto di più all’ascolto radio di giovedi scorso: da vivo la sua voce è meno penetrante e talvolta anche l’intonazione non mi è parsa bene a fuoco. Comunque si merita per me un’ampia sufficienza.

John Irvin è un onesto Cléomène, che personalmente affiderei ad una voce più... robusta, viceversa – all’ascolto - pare che lui sia il giovane eroe e non il maturo padre di Pamira. Discreto anche Carlo Cigni nei panni del vegliardo Hiéros: tanto più che il regista lo ha fatto cantare quasi sempre in modalità... peripatetica, il che non credo giovi ad un’emissione ottimale dei suoni.

Cecilia Molinari ha fatto onorevolmente la sua parte di Ismène, culminata nella ballade del second’atto. A proposito, questo è uno dei tanti punti controversi del testo rossiniano, quanto a dislocazione temporale: qui si è seguita la partitura originale per orchestra, dove Ismène arriva dopo il duetto Mahomet-Pamira; in altre produzioni (55’12”) si segue invece lo spartito canto-pianoforte, dove Ismène apre l’atto, prima della grande scena ed aria di Pamira e del successivo duetto.

Efficace l’Omar di Jurii Samoilov, onesto l’Adraste di Xabier Anduaga: si tratta di due... prodotti dell’Accademia rossiniana, messisi in luce negli anni scorsi con il training standard del Viaggio.

Bene, alla fine grandi applausi per tutti (veramente il regista mi pare non si sia presentato...) e un’isolatissima contestazione per Abbado. Per me, ad occhi chiusi (!) una piacevole serata. 

11 agosto, 2017

ROF-XXXVIII. Le prime alla radio


La nuova produzione de Le Siège de Corinthe ha aperto a Pesaro il Festival rossiniano n°38. Per gli ascoltatori via etere hanno fatto gli onori di casa Guido Barbieri (da studio) e Oreste Bossini (in loco). Qualche discorso di circostanza (le doverose commemorazioni di Zedda e Gossett) poi la ormai ripetitiva auto-celebrazione di patron Mariotti-sr (il ROF come fucina di talenti canori e di innovative invenzioni registiche) e qualche sensata considerazione di Roberto Abbado sulla musica del Siège. Anche Carlus Padrissa ha avuto modo di spiegare ciò che nessuno aveva capito (!) della sua regìa, che dalle sue parole sembrerebbe piuttosto estranea allo spirito e all’estetica rossiniani... ma sarà meglio giudicare con l’approccio di SanTommaso.

Quanto alla musica, detto che si è impiegata l’edizione (critica?) di Damien Colas (che ha rispolverato da manoscritti conservati a Parigi un’estensione dell’aria di Pamira dell’atto II, un giro-extra di danze prima dell’Hymne, e ha fatto cantare nella chiusa dell’opera le donne greche) direi che Radio3 ci ha portato gradevoli sensazioni: l’OSN-RAI non si scopre oggi, mentre una buona impressione ha fatto l’esordiente coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che gioca un ruolo per nulla secondario in questo grande affresco a sfondo storico-patriottico.

Luca Pisaroni si è calato in modo convincente nei panni di quel Mahomet che storicamente era un autentico flagello, mentre Rossini lo ammanta di un’aura di nobiltà, mettendone in risalto i caratteri di uomo amante delle arti e di sincero innamorato: qualità che la voce chiara e baritonale di Pisaroni ha efficacemente interpretato. Nino Machaidze (mi) ha ben impressionato, avendo fatto emergere le due facce della personalità della protagonista: donna attirata dall’amore addirittura verso il nemico mortale della sua gente, ma poi eroina e patriota esemplare, fino all’estremo sacrificio. I due tenori del campo greco (il comandante John Irvin e l’eroico Sergey Romanovsky) hanno sfoggiato belle voci (forse troppo... simili, il primo dovrebbe essere più baritenore) e tecnica apprezzabile nei (pur non esagerati) virtuosismi cui Rossini chiama i due personaggi (Romanovsky ha anche sfoggiato un sicuro RE sovracuto). Efficace anche Carlo Cigni (come Hiéros) nel suo accorato ed autorevole appello del terz’atto. Oneste le prestazioni dei tre comprimari, tutti usciti dall’Accademia rossiniana: Cecilia Molinari (apprezzabile la sua ballade dell’atto II) Xabier Anduaga, e Iurii Samoilov.

Tutto sommato, un inizio abbastanza promettente.   
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Promesse direi proprio mantenute con La pietra del paragone, questa commedia brillante dal soggetto assurdo e strampalato, che il grande Gioachino ventenne ha saputo ricoprire con musica strepitosa, ancora una volta nobilitata dall’esecuzione impeccabile dell’OSN-RAI guidata da un sempre più convincente Daniele Rustioni.

Ma anche il cast, quasi interamente di provenienza dall’Accademia rossiniana, ha ben figurato, con punte di spicco in Maxim Mironov e Aya Wakizono. Accanto a loro un efficace Gianluca Margheri e il navigato Paolo Bordogna. Un filino sotto metterei le due babbione (!) Aurora Faggioli e Marina Monzó. Completano dignitosamente la squadra Davide Luciano e William Corrò, mentre il Coro del Ventidio Basso ha confermato il suo valore.

Stando ai suoni arrivati via etere, si direbbe di un caloroso successo di pubblico.
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E Torvaldo&Dorliska ha degnamente chiuso il primo turno delle recite rossiniane. Ascoltandola ci si stupisce sempre di come sia tuttora sottovalutata e negletta: poichè trattasi invece del miglior Rossini, con arie, duetti e concertati di prim’ordine, che impegnano al massimo livello il cast delle voci.

E quella messa in campo dal ROF è davvero una squadra di tutto rispetto, composta da veterani del Festival e da giovani e giovanissimi prodotti dell’Accademia. Fra i primi spiccano Carlo Lepore e Nicola Alaimo, veri trascinatori della squadra; in cui hanno ben meritato Dmitri Korchak, anche lui ormai di casa a Pesaro, e Salome Jicia, uscita dall’Accademia non più di due anni orsono e già al secondo ROF da protagonista, dopo il battesimo con Elena nel 2016. Bene anche Raffaella Lupinacci, tornata a tre anni di distanza dalla Publia dell’Aureliano, e Filippo Fontana, che ha completato il cast.

L’Orchestra Sinfonica G.Rossini - Provincia di Pesaro-Urbino ha supportato egregiamente cantanti e Coro della Fortuna di Mirca Rosciani; tutti ben concertati da Francesco Lanzillotta, esordiente al ROF, ma anche lui ormai entrato nel gruppo dei giovani Direttori italiani di talento.
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Ernesto Palacio, Direttore artistico del Festival, ha annunciato ai microfoni di Radio3 il palinsesto principale del ROF-39: Ricciardo&Zoraide, Adina, Viaggio e Barbiere, quattro nuove produzioni per festeggiare adeguatamente il 150° anniversario della scomparsa di Rossini.

31 marzo, 2010

Un simpatico Tannhäuser indiano alla Scala

Ieri era la quinta e penultima rappresentazione, alla Scala, per il Tannhäuser di Mehta-Fura, dopo accoglienze, diciamo così… mixed. Teatro pieno, ma non pienissimo, e successo quasi pieno per tutti.

Tanto per entrare direttamente in-medias-res, sappiamo come Wagner avesse i suoi (buoni) motivi per ambientare l'opera in Germania, precisamente in Turingia, con tanto di meticolosi riferimenti logistici a due località nei pressi di Eisenach (città natale di un certo Bach - si noti bene - non di Buddha!): il castello della Wartburg, che si trova a meno di 2Km a sud-ovest della cittadina, e il fantomatico postribolo di Venere (il Venusberg) che nella versione parigina è da Wagner dislocato con temeraria precisione presso l'Hörselberg, 5Km - o giù di lì - ad est della stessa Eisenach.

Ecco cosa scrive Wagner sulla partitura d'orchestra, Atto I, Scena III, al momento per Tannhäuser di tornare all'aria aperta, dopo la sbornia del Venusberg: Tannhäuser, che non ha abbandonato la propria positura, si trova improvvisamente trasportato in una bella valle. Cielo azzurro, limpida luce del sole. A destra, sullo sfondo, la Wartburg; a sinistra, in lontananza, il Hörselberg. (…) Nel frattempo, da dietro la scena e da molto lontano, come se venisse da Eisenach, si ode il rintocco delle campane di una chiesa. Insomma, Wagner quasi-quasi ci dà le coordinate GPS del metro-quadro su cui Tannhäuser si trova: lui è più o meno a metà strada fra Hörselberg e la Wartburg (più vicino a quest'ultima) ed ha alle spalle Eisenach. Da qui in avanti tutta l'Opera è ambientata inequivocabilmente in quei precisi paraggi. Così come l'Aida è ambientata in Egitto e i Meistersinger a Norimberga, e la Tosca a Roma, la Bohème a Parigi (che dire di una Bohème ambientata a Mumbay, con Rodolfo che, affacciato alla finestra, canta: "Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi"?)

Ma qui Wagner non viene preso alla lettera (e neanche sul serio, per la verità) e perciò abbiamo un Tannhäuser indiano, in omaggio al Maestro, ovviamente. Avesse diretto Salonen, si andava in Finlandia, col Venusberg collocato in una gigantesca sauna pubblica. Dirige Chung? In Korea, no problem. Dudamel? La Wartburg di Maracaibo, perbacco, chi non la conosce?

Insomma, Padrissa e i suoi sono in grado di ambientare qualunque opera in uno qualunque dei 190 (o quanti sono) Paesi del pianeta. L'unico problema che hanno è trovare un direttore all'altezza nel Burkina-Faso o all'Isola di Pasqua!

Viceversa, sarei pronto a scommettere che – avesse Wagner ambientato la sua storia in India - Padrissa ce l'avrebbe trasferita in Turingia (smile!)

E sempre facendo cose divertenti, mica pizza&fichi! (Del resto, chi non si è mai divertito leggendo la famosa tragedia Ifigonia in Culide?)

Insomma, Tannhäuser assurto al rango di divertissement, ohibò! E dobbiamo consolarci, perché in giro c'è di molto, ma molto peggio.

Leggendo il corposo programma di sala abbiamo la conferma (non che avessimo dubbi) che Padrissa&C sono gente che studia bene i soggetti da mettere in scena. Quindi sanno benissimo che, sul piano esteriore (e superficiale?) del contenuto, Tannhäuser non racconta miti, ma casomai storie medievali (e per buona parte vere) con personaggi e luoghi squisitamente autentici e germanici; sul piano filosofico-religioso, mostra il contrasto insanabile (o sanabile solo una volta passati all'altro mondo) fra carne e spirito, fra l'impulso animalesco – e in quanto tale nemmeno poi peccaminoso – verso eros e sesso, e l'anelito umano verso il trascendente e il divino; infine, sul piano artistico, descrive (autobiograficamente) lo straniamento dell'artista-innovatore dalle consuetudini e dalle (più o meno ipocrite o interessate) convenzioni cui l'establishment è ancorato, e con le quali è però costretto fatalmente a fare i conti o addirittura a venire a patti, o a scontrarsi mortalmente. Addirittura Padrissa&C intendono dedicare questo allestimento a tutti i Tannhäuser di questo mondo, teste matte da Giordano Bruno a Michael Jackson, passando per Richard Wagner e John Lennon! Lodevole intenzione davvero.

Siccome però il pubblico è quello che è (e secondo alcuni non è cambiato troppo dai tempi di Parigi 1861, Jockey Club di buona memoria) è meglio non andare troppo sul difficile, e quindi si parte mostrando immagini, filmati e ologrammi di un bordello in piena regola (peraltro questo combina perfettamente con ciò che scrive Wagner nel libretto, cose del tipo: si formano coppie in cui ciascuno trova l'oggetto dei propri desideri, e poi si confondono e rimescolanoe subito dopo: le Baccanti eccitano gli amanti a una lussuria sempre più sfrenata. Costoro, inebriati, si abbandonano ad ardenti amplessi.) Se si può fare qui una critica, è di tipo economico: quanto sarà costato al regista (cioè dire: a NOI) girare tutte quelle scene con innumerevoli ragazze e ragazzi, tassativamente nudi ed aggrovigliati? Quando invece Padrissa e i suoi qui potevano tranquillamente propinarci immagini di filmetti groupsex o gangbangorgy scaricate gratis da internet, così dispensando Lissner dal prosciugare il FUS, e senza per questo creare scandalo, né essere irriverenti o dissacranti nei confronti dell'Autore.

Nel Venusberg, mentre la Gertseva-Venus è sufficientemente nuda, e mostra così le sue – di gran lunga migliori – qualità, il protagonista Robert Dean Smith è coperto da regolamentare pastrano, il che ci consente di tenere aperti gli occhi mentre canta (passabilmente, benino o così-così, le sue lodi-maledizioni). Ma, dopo essere faticosamente sfuggito al bordello dall'aria divenuta ormai irrespirabile, dove si va a cacciare il povero Tannhäuser? Nella severa Wartburg, direte voi, tempio della virtù e dell'arte. Ecco cosa vediamo all'inizio del secondo atto: mentre Elisabeth saluta la teure Halle, ci sono simpatici ragazzi e ragazze che fanno un balletto tipo Smeraldo anni'70. Ma non basta, quando arrivano gli ospiti, sul solenne canto Con gioia salutiamo la nobile sala dove sempre e soltanto arte e pace possan dimorare, i ballerini si scatenano ancor più, in una cosa bollywoodiana (io veramente me lo ricordavo come il twist): roba da far pensare al povero Tannhäuser di esser caduto dalla padella nella brace (adesso si capisce bene perché, durante la tenzone, gli prenderà la voglia matta di tornare là da dove era venuto!) Sì, anche Wagner si può ballare, incredibile! Perché, come ad esempio Ciajkovski nello Schiaccianoci, ha scritto musica in 4/4 o 3/4 o 2/4 o 6/8 e così via. Chi ci aveva mai pensato? Brava la Fura a scoprirlo!

Ma a proposito di balletto, bisogna sapere che nel 1860, quando a Wagner finalmente furono aperte le porte dell'Opéra di Parigi (grazie all'intercessione della crucca Pauline von Metternich, che era entrata nelle grazie nientemeno che dell'Imperatore Napoleone III) il compositore fu avvertito che, nel secondo atto dell'opera, doveva essere tassativamente programmato un balletto. Chè a quell'ora i simpatici membri del Jockey Club, dopo essersi ben saziati e abbeverati di champagne, arrivavano a teatro per ammirare le nude gambe (allora non si andava oltre) di compiacenti ragazze che, qualche mezz'ora dopo, sarebbero finite direttamente nei loro letti. Orbene, sembra un'enormità, ma Wagner si rifiutò cocciutamente di sottostare a simile imposizione. E sfidando l'Imperatore in persona (che pagava in toto l'allestimento, si noti bene!) Wagner si rifiutò di infilare un balletto a quel punto dell'opera (considerando già fin troppa concessione la nuova, pornografica scena del Venusberg del primo atto).

Ma a noi che 'cce frega? dice Padrissa, siamo in democrazia, mica in un impero, Wagner è morto, e il balletto lo mettiamo dove ci pare! E infatti il pubblico apprezza molto.

Per la tenzone canora – una scena che si richiama nientemeno che al Symposium di Platone, e sappiamo quanto Wagner ammirasse la Grecia! - ci spostiamo invece al lunapark. Infatti, nell'austera Wartburg (o Bangalore, fate voi, visto che son tutti in turbante) ci sono - ad ospitare i canori contendenti - dei caddy da golf, o macchinine da autoscontro, ciascuna dotata di arpista, una specie di tata (anzi Tata, siamo in India!) o badante del Minnesanger di turno. Invece del motore elettrico, due robusti negroni che spingono e tirano qua e là. Ma tanto ha poco di che vantare austerità, la Wartburg, sappiamo quale indegna gazzarra vi si svolgerà, di cui vien data colpa al povero Tannhäuser, costretto a partire per Roma al seguito di pellegrini inturbantati e circondati da coloratissime, ma un po' fastidiose donnicciole che chiedono la carità (in Turingia proprio così funzionava, sapevate?)

Nel terzo atto tornano i pellegrini da Roma (sempre con donnicciole a latere). Elisabeth attraversa il corteo in cerca del suo Tannhäuser, sperandolo graziato dal Papa. Non ritrovandolo, che fa? Sentiamo Wagner: in atteggiamento doloroso, ma tranquillo (…) con grande solennità canta il suo sacrificio e resta in devota estasi. Insomma, non versa una sola lacrima, ma nobilmente offre la sua vita alla Vergine, per ottenerne l'intercessione in favore del reprobo. Ma una scena così sarebbe poco appariscente, e così il regista fa issare Elisabeth su un trespolo fino a 10 metri di altezza e da qui la pia donna allaga letteralmente di lacrime una piscina che occupa metà del palco. (Insieme alla piscinetta di cristallo del Venusberg, è forse una trovata per pubblicizzare qualche aquafan, visto che si va verso la bella stagione).

Ai bordi della quale piscina arrivano quattro lavandaie a lavare degli enormi panni, che scopriamo servire (una volta stesi, più sporchi di prima!) a proiettarci sopra immagini che supportano la parte cruciale del racconto di Tannhäuser del suo calvario a Roma: l'incontro disgraziato con un Papa talebano che, invece di perdonarlo cristianamente, lo invia direttamente all'inferno. E sulle lenzuola vediamo le immagini di un Papa (in visita in India, 1986?) che Padrissa ha accuratamente scelto fra quelli più retrivi, assolutisti, e diciamo pure repellenti che la storia della cattolica Chiesa ricordi: Woitilaccio! Mancava solo un titolo di giornale: "Giovanni Paolo II copriva i preti pedofili" …ma la regìa è stata pensata quando lo scandalo ancora non aveva occupato le prime pagine di giornali e tv, che peccato!

La scena del funerale di Elisabeth è un pout-pourri di idee genialoidi e di improbabili riferimenti alla biografia di Wagner. Sul laghetto di acqua-pianto, arriva un incrocio di piroga indiana e gondola veneziana, carica di lumini, su cui viene portato il feretro; il che è un incrocio fra Gange e Venezia: il funerale di Wagner a Bollywood? Ma allora qui si scimmiotta per caso lo Herheim del Parsifal attualmente in cartellone al tempio? Sulla trasformazione di Elisabeth in Venere (stella, non tenutaria) bisognerebbe scrivere enciclopedie e libelli, lasciamo perdere, siamo qui per divertirci, mica per pensare.

A proposito, sul programma di sala c'è una dottissima presentazione del professor Quirino Principe, che conclude con una considerazione (a proposito della lingua - originale o italiana - in cui rappresentare l'Opera): Quanti italiani amanti del teatro d'opera, ascoltando Tannhäuser in lingua originale, capiranno la meravigliosa complessità culturale di quest'opera? Vien da ridere, ma ovviamente il professore pensava a Tannhäuser, non al Bruschino o all'Elisir.

In sostanza, oggi ci si accontenta di tener buona ancora – ma per quanto ancora? perché la modernità prima o poi chiederà anche qui il suo pizzo – la musica di Wagner; le parole si lascino pure lì, perché tanto sono solo un ostrogoto grammelot, che serve giusto a far uscire i suoni dalla bocca dei cantanti. Tutto il resto: nel cesso, sostituito da trovate più o meno genialoidi. Che termini usare per operazioni di tal genere? Anticulturale, diseducativa, truffaldina?

Invece: divertimento assicurato, il pubblico ha gradito e – a differenza della prima – non ha contestato nessuno, men che meno il regista (che però non si è fatto vedere al proscenio).

Questo è lo stato-dell'arte, oggi, anno di grazia 2010. E dobbiamo accontentarci, essendoci in giro anche di peggio.

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La musica.

Mehta non mi è per nulla dispiaciuto. Come già nel Ring ascoltato uno-due anni fa al Maggio, tiene un approccio assai pragmatico, facendo ben emergere il lato italiano (meno male, non indiano!) presente – e come! – in Wagner, particolarmente in opere come questa. Nessuna enfasi gratuita, tempi forse più celeri rispetto ai metronomi di cui Wagner ha disseminato la partitura (ma che lui per primo invitava Kapellmeister e cantanti a prendere abbastanza con le molle, privilegiando la loro personale sensibilità). In un paio di occasioni ha forse lasciato troppa briglia al fracasso dell'orchestra, coprendo le voci, ma in complesso – per me – la sua è stata una direzione lodevole.

Dei cantanti, rispetto al recente Tannhäuser torinese, salverei giusto la Harteros-Elisabeth, gli altri da discreto (Dean Smith, voce debolissima, però, e Zeppenfeld-Langravio) a mediocre (Trekel-Wolfram) a insufficiente (Gertseva). Gli altri ancora, senza infamia, né lode. Bene al solito il coro di Casoni e i piccoli di Caiani.

Oggi si passa però a cose serie, da settimana santa: una passione bachiana all'Auditorium.

04 aprile, 2009

Götterdämmerung al Maggio: primi indizi

In attesa di assistere dal vivo, e di giudicare soprattutto musicisti e cantanti (della Fura e di Padrissa sappiamo ormai abbastanza per non doverci aspettare nè scempiaggini, nè arditezze da Regietheater, il che con Wagner è già qualcosa...) si possono vedere in rete alcuni bozzetti dei costumi dei protagonisti, disegnati da Chu Uroz. La provenienza delle immagini non è segnalata sul sito che le linka, ma credo non si debba dubitare della loro autenticità, visto che una delle immagini (le Norne) è già presente sul sito del Maggio. Non c’è Siegfried, e nemmeno Alberich, c’è una Brünnhilde versione sado-maso (e quindi tralasciamo commenti, evitando anche di immaginare i relativi possibili scenari) mentre ci sono le Norne (che, invece di tessere il filo, vi si sono appese) più alcuni bozzetti sui personaggi Ghibicunghi: Hagen, Gunther e Gutrune.

Certo da pochi disegni non c’è molto da decifrare o da ipotizzare o da indurre sull’insieme dell’allestimento del dramma, ma una piccola obiezione si può avanzare (è chiaro che stiamo ragionando sulle sabbie mobili, poichè tutto potrebbe cambiare prima del 29). Come si può verificare, parrebbe che i due fratelli “ingenui” (G&G) vengano abbigliati, come il fratellastro “cattivo” Hagen, con abiti che recano i simboli del denaro. Ecco, questa sarebbe davvero una generalizzazione gratuita e francamente fuori luogo: Hagen è certamente assetato di oro, e dal padre spinto al recupero dell’anello a tutti i costi, ma Gunther e Gutrune, figli di sovrani, non sono certo mossi dalla fregola di arricchirsi di più. Il loro comune desiderio è di trovare, rispettivamente, una moglie ed un marito degni del loro (presunto) blasone. Al proposito la domanda che Gunther pone ad Hagen in apertura del primo atto è quanto mai esplicita: “Wen rätst du nun zu frein, dass unsrem Ruhm' es fromm'?“ “Chi consigli tu, dunque, di sposare,che porti a nostra fama giovamento?” (come traduce impeccabilmente il grande Guido Manacorda). Ed è infatti toccando questo tasto che il cattivone li trascinerà in un’avventura a pessimo fine.

Speriamo che magari Chu ci ripensi, e lasci i simboli di dollaro, yen, euro, sterlina etc. solo sulla giacca di Hagen (e magari su quella di Alberich) e li tolga invece dalle vesti dei due regali ghibicunghi, che almeno si meritano le attenuanti generiche per la loro complicità nell’omicidio di Siegfried...