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30 dicembre, 2021

Barenboim a Vienna per Capodanno


Dopo 8 anni Daniel Barenboim torna a dirigere (per lui è la terza volta) il tradizionale Neujahrskonzert arrivato all’edizione n°83 (la prima fu nel 1939 e l’unica sospensione nel 1940) al Musikverein, tornato ad aprire i battenti al pubblico dopo lo streaming mutiano del 2021.

Sabato diretta audio su Radio3 (ore 10:50). In TV registrata su RAI2 alle 13:30. RAI1 (12:20) come ormai da anni ci porta alla Fenice da Fabio Luisi.

14 dicembre, 2014

Fidelio: dal vivo è un filino meglio…

 

Ieri sera la terza di questa Leonore (sì, tanto vale cambiarle anche il titolo, operazione filologicamente più corretta di quella di cambiarle… l’Ouverture, smile!) Per l’occasione è tornato il titolare Florestanino Vogt dopo la parentesi (a sorpresa, pare assai gradita dal pubblico della seconda, e che è servita al Sovrintendente entrante per darsi grande lustro) del bel Jonas.

Ormai si è detto e scritto tutto di questa apertura di stagione, che sembrerebbe aver capovolto le recenti usanze (contestazioni del loggione e peana della critica paludata): a SantAmbrogio2014 solo applausi anche dal loggione, mentre dai critici solo… critiche (o quasi: personalmente ricordo un’unica eccezione in Gavazzeni sul Giornale). La costante sembrerebbe quindi da individuare nella cronica opposta ricezione dello spettacolo da parte di loggionisti e critici, quasi a prescindere.   

Poi c’è anche chi, come il sottoscritto, ha invece criticato sia le inaugurazioni recenti (Traviata, Lohengrin, DonGiovanni, per restare all’ultima terna) che questa: magari con argomentazioni diverse e riguardanti diverse componenti dello spettacolo.

La visione/ascolto del 7 in TV mi aveva fatto un’impressione decisamente negativa sul lato suoni e, diciamo così, neutra su quello dell’allestimento teatrale. Ecco, la fruizione live ha – appena appena – migliorato il mio giudizio sulla parte musicale e non è servita a migliorarlo su quella registica. Insomma: questo Fidelio per me resta una mezza delusione.

Barenboim conferma il suo approccio all’opera: che affronta come fosse… Parsifal (smile!) Già nell’Ouverture l’Adagio diventa un Largo e l’Allegro un Andante, e così via degradando: tutta la freschezza mozartiana di cui Fidelio è ricco, soprattutto nel primo atto, si perde così in uno stracco e uniforme tran-tran (non è il caso che l’atto duri quasi un’ora e mezza!) Un filino meglio il secondo atto, stante la componente altamente drammatica, ma in complesso la lettura del sostituendo Direttore Musicale non mi ha per nulla convinto. L’orchestra invece non si è comportata male (perdoneremo la tromba che – dislocata probabilmente in loggione nell’Ouverture – ha sfornato due strafalcioni in sole sei battute del secondo richiamo).

Sul fronte delle voci, pessime notizie da Mojca Erdmann e Florian Hoffmann (Marzelline e Jaquino) che evidentemente alla radio-tv si sentivano per via della collocazione… laringea del microfono (smile!) Che poi il pubblico li abbia applauditi quasi con lo stesso calore riservato a Youn, Vogt e alla Kampe la dice lunga sulle illimitate possibilità di rifilargli impunemente (al pubblico) qualunque bufala.

Ecco, la Anja Kampe ha confermato (alle mie orecchie) i limiti che già parecchi anni fa (con Abbado) aveva denunciato: difetto di potenza in particolare nella cosiddetta ottava bassa, dove è risultata poco udibile. Sugli acuti così-così, mescolando cose dignitose ad urletti che è difficile dire se emessi a bella posta per sottolineare frangenti drammatici, o… a bella posta per mascherare delle deficienze congenite. Per me, un voto appena appena sufficiente.

Una sufficienza più ampia darò alla voce sempre efebizzante (si può dire?) del redivivo Klaus Florian Vogt, che però ha almeno il pregio di farsi sentire benissimo e di avere ottima intonazione.

Kwangchul Youn è uno che in teatro ci guadagna, rispetto alla radio, che tende ad ingrossarne la voce (sempre per via dei microfoni, immagino). Forse non è un basso profondo, ma il ruolo di Rocco non è mica detto che tale debba essere per forza.

Il Pizarro di Falk Struckmann tende pericolosamente allo schiamazzo, e come al solito gli andrebbe ricordato che il cattivo non è autorizzato anche ad essere cattivo cantante, anzi! Peter Mattei fa il suo compitino (cammeo, si dice in gergo) con diligenza ed è quanto basta. Il Coro di Bruno Casoni mi è parso migliorato rispetto alla prima, e bene hanno fatto i suoi due membri (Oreste Cosimo e Devis Longo) chiamati a parti solistiche nel primo atto.

A proposito di udibilità, quasi nulla si è sentito delle parti parlate: qualcuno potrebbe concludere con un grandissimo chi-se-ne-frega (tanto nessuno capisce il crucco e anche se lo capisce chi se ne frega lo stesso perché non è cantato…) Allora però andrebbe riconsiderata la decisione di continuare a proporre (sia pure ampiamente mutilati) questi residui obsoleti del Singspiel!

La regìa della Deborah Warner guadagna poco rispetto alla ripresa TV (che ha il vantaggio, se usata sapientemente, di alternare primi piani a campi lunghi). Al di là di tutte le dotte spiegazioni filo-socio-antropologiche, si tratta di una pura e semplice lettura del libretto, il quale presenta un soggetto archetipico, ergo facilmente trasportabile sotto qualunque tempo e latitudine. Quindi la Warner, come si dice in gergo, ha solo fatto il suo dovere, mettendoci poi qualche puerile ingrediente di attualità: costumi casual e strumenti di lavoro da oltre-cortina-anni50. Se c’è una critica seria da fare all’allestimento è probabilmente il suo costo: secondo me, ogni euro speso in più di 100.000 è stato buttato al vento (e sono soldi nostri!)

Sembra un paradosso, ma uno dei pochi pregi di questa produzione è la rinuncia all’inserimento della Leonore3 prima dell’ultima scena: a parte che non avrebbe avuto senso a fronte della scellerata decisione del Direttore di cambiare l’Ouverture, ma almeno ci ha permesso di apprezzare la grande efficacia drammatica del finale così come mirabilmente concepito – e con quale fatica! - da Beethoven. Non saprei dire se l’unico, isolato buh che è arrivato dal loggione al calar del sipario fosse per Warner o Barenboim (che però all’uscita ha ricevuto solo applausi).  

Tirando tutte le somme, siamo alle solite: con i costi e la prosopopea della Scala abbiamo uno spettacolo di livello non superiore a quello di molte produzioni cosiddette provinciali. Con le tutte le risorse che ci si investono, si avrebbe il dovere di dare di più.

07 dicembre, 2014

Un Fidelio… lumaca apre la stagione scaligera

Eccomi qua a commentare a caldo immagini e suoni (arrivati sotto forma di… pixel&bit) del Fidelio scaligero che ha aperto la (lunga, causa Expo) stagione del Piermarini.

La prima constatazione è l’insopportabile lunghezza dell’interpretazione di Barenboim: che è troppo abituato a Wagner (dove effettivamente eccelle, bisogna riconoscerglielo) ma poi pretende di mettere tutti su quel letto di procuste. Se si esclude il finale (e ci mancava pure…) i suoi sono stati tempi letargici, a partire già dall’Ouverture.

E a proposito non posso esimermi dal fare l’ennesima considerazione sulla bizzarra idea di Barenboim di propinarci la Leonore 2 in luogo dell’Ouverture che Beethoven (sì, proprio un tale Beethoven, guarda te!) aveva faticosissimamente composto per la versione definitiva dell’opera (mai più riveduta o emendata nemmeno col binocolo, nei 14 anni che ancora restarono da vivere al genio di Bonn!) Il colmo della faccenda è che la presentazione dell’allestimento dell’opera nel video pubblicato sul sito del Teatro é accompagnata proprio dalle note dell’Ouverture giusta!

Siamo alle solite, il Kapellmeister di turno (mi spiace dir questo di un Direttore che considero un grande uomo, prima ancora che famoso musicista) vuol farci credere di saperne di più dell’Autore in persona, così butta nel cesso l’ultima trovata dell’Autore medesimo per ripescare… che cosa? La penultima? Che sarebbe perlomeno una gustosissima mela matura: la Leonore 3. Invece no, proprio no, quella che ci viene propinata è la Leonore 2! Il che ti fa lo stesso effetto del mangiare una mela ancora un filino acerba, quando in testa hai il dolce gusto della mela matura: un effetto decisamente sgradevole. Sì, perché sappiamo che per l’uomo tutto è relativo, e tornare indietro è sempre in qualche modo irritante; o ammissibile soltanto se motivato da ragioni, diciamo così, scientifiche. Il che nel mondo musicale si traduce in pratiche ben precise: un festival, o un concerto o al massimo un CD. Ma un SantAmbrogio è – nel bene e nel male – un pranzo di gala dove, se proprio si decide di boicottare le arance, andrebbero almeno servite le mele mature, mica quelle acerbe!

Quanto alla sequenza dei primi due numeri dell’opera (duetto e aria di Marzelline) nel video succitato (a 3’43”) la Warner accenna ad una discussione avuta con Barenboim e a divergenze di vedute rispetto alle sue (di lei) consuetudini. Ora, lei ha già messo in scena Fidelio a Glyndebourne, dapprima nel 2001, poi ancora nel 2006 (da dove è stato prodotto un CD) e sempre nella versione definitiva, quindi quelle che lei chiama sue consuetudini sono in realtà lo standard: prima il duetto e poi l’aria. Ma allora perché parla di divergenze con il maestro? La spiegazione più plausibile è che Barenboim, come fa nel suo CD, scegliendo la Leonore 2 dovesse poi anticipare l’aria, per ragioni di rapporti tonali. E questo è ciò che ci si aspettava facesse anche qui. Invece non è così: abbiamo ascoltato tutti che in apertura c’è il duetto. Come si spiega? Evidentemente lo scambio voluto dal maestro non era accettabile dalla Warner perché ne sconvolgeva l’impostazione registica! E così alla fine la regista deve aver convinto il maestro a ripristinare la sequenza di Beethoven (che però male si armonizza con l’ouverture scelta da Barenboim!) Ora, il solo pensare che due personaggi profumatamente pagati (dai soldi nostri!) abbiano passato ore e ore e forse giorni a discutere del miglior modo per travisare la volontà di Beethoven è davvero deprimente. Purtroppo queste sono, lo ripeto, pisciatine di cane, spacciate per filologia/filosofia. Shame!     

Lo spettacolo della Warner è sostanzialmente lo stesso di Glyndebourne, nel bene e nel male. Domanda: perché non acquistare il prodotto esistente, invece di rifarlo (con tutto ciò che questo avrà comportato a livello di costi) praticamente uguale?

Ho detto nel bene e nel male perché la regista non si inventa cose strane né storie fantasiose: siamo in una prigione (che poi sia una ex-fabbrica, è cosa che nè guasta, né arricchisce) dove una donna travestita cerca il marito ingiustamente incarcerato e alla fine riesce a farlo liberare, approfittando di una provvidenziale ispezione del ministro della giustizia. Apperò, proprio come scritto nel libretto… che noia (smile!) Quindi tutto bene, non fosse che la Warner si fa contagiare dalla stessa malattia di Barenboim (quella delle mele acerbe) e così fa finire l’opera, mentre suona un DO maggiore da spaccare i timpani e abbagliare le pupille, come era nella prima versione del 1805, al buio e sotto una nevicata, invece che sulla piazza assolata del carcere! Certo che Beethoven era proprio un bambino ingenuo che credeva alle favole…

Anja Kampe è Leonore/Fidelio: siccome la ricordo nel ruolo con Abbado (2008) dove nel piccolo Valli di Reggio Emilia già si sentiva poco, aspetto di sentirla dal vivo per verificare se nel frattempo ha imparato a… farsi sentire (smile!) anche senza un microfono in bocca.

Klaus Florian Vogt è il Florestan all’età di 12 anni (stra-smile!) Effettivamente Pizarro doveva essere proprio un pazzo maniaco  per incarcerare un bambino. A parte le battute, va bene che il personaggio non è proprio da Heldentenor, anzi, ma qui si sta esagerando in senso contrario. Perché non basta fare le note giuste, o sbaglio? E il fatto che a Bayreuth lo abbiano catapultato nei panni di Lohengrin dimostra soltanto che anche lassù sono fuori di testa. Fra l’altro, nei parlati sembra invece avere una voce da adulto!

Il migliore, e di gran lunga, del cast è il Rocco di Kwangchul Youn: ma non lo scopriamo oggi, e in fondo ha fatto lodevolmente ciò che ci si aspetta da un grande professionista.

Falk Struckmann è un Pizarro dignitoso, ma nulla più: forse i tempi strascicati di Barenboim non lo aiutano, e così sembra faticare a reggere il fiato.

Onesta e non più la prestazione di Peter Mattei come Don Fernando.

La seconda coppia dell’opera non mi è parsa particolarmente eccitante: Mojca Erdmann e Florian Hoffmann si arrabattano alla meglio, come Marzelline e Jaquino, ma senza mai dare un colpo d’ala.

A parte un incespicamento (così mi è parso, potrei sbagliare) nel finale, si salva per fortuna il coro di Bruno Casoni, che fornisce anche due solisti (Oreste Cosimo e Devis Longo) che non avrebbero fatto peggio dei titolari dei ruoli di Jaquino e Pizarro.

Per il pubblico pare sia andato tutto bene, e anche di più: beati loro e per quanto mi riguarda spero proprio di essere smentito a breve.          

04 dicembre, 2014

Fidelio: arrivano i nostri?

 

Leonora (rapida trae dal petto una piccola pistola e la punta contro Pizarro)
Ancora una parola, e sei morto!
(Si sente la tromba dalla torre.)

Leonora (getta le braccia al collo di Florestano)
Ah, tu sei salvo, gran Dio!
Florestano
Ah, son salvo, gran Dio!

Pizarro (stordito)
Ah, il ministro! Inferno e morte!
Rocco (stordito)
Oh che avviene? giusto Dio!
(Si sente più forte la tromba. Pausa.)

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Questo è il classico Höhepunkt dell’opera: mentre Leonora punta la sua pistola al petto del sanguinario giacobino, ecco che arrivano i nostri! salutati ovviamente - non si potrebbe immaginare altro – dallo squillo di una trombetta:

Che si ripete poco dopo, con più forza ancora. Come si vede, Beethoven già duecento (o poco più) anni fa aveva inventato lo stereotipo dei più spettacolari (e pure beceri) film del Far-West.

Quello che ad un ascoltatore distratto potrebbe sfuggire è che però gli squilli in questione non provengono dallo strumento del trombettiere che accompagna la carica dei nostri, ma da quello di un tirapiedi del cattivone Pizarro! Il quale tirapiedi era stato incaricato dal capo di avvertirlo in quel modo non appena avesse visto il corteggio del Ministro (i nostri, appunto) arrivare lungo la strada da Siviglia. E in effetti le circostanze non sono precisamente quelle dell’arrivo di gran carriera di un manipolo di cavallerizzi in una nuvola di polvere: è una delle massime autorità politiche che viene al penitenziario – comodamente in carrozza e con tanto di scorta - per farvi un’ispezione sul trattamento dei detenuti.

Se poi guardiamo il motivo da vicino, in effetti scopriamo che non ha né un carattere guerresco, né solenne o pomposo: ha piuttosto un che di sbilenco, di irregolare, specie nelle ultime battute, dove il trombettiere sembra quasi incespicare sulle note per raggiungere in qualche modo la tonica SIb. Insomma, un segnale suonato da qualcuno che probabilmente se la sta facendo sotto! 

Questa mirabile forma del richiamo fu messa a punto da Beethoven in occasione della seconda edizione dell’opera (1806, in due atti, come quella definitiva) che vide anche la nascita della famosissima Ouverture Leonore 3, all’interno della quale il segnale della tromba in SIb viene anticipato (sempre proposto per due volte). (Sappiamo che invece l’Ouverture Fidelio, dell'ultima versione del 1814, non contiene rimandi a temi dell’opera.)

Nella prima versione del Fidelio (1805, in tre atti) il richiamo della trombetta è abbastanza diverso, tutto sommato più regolare e quasi virtuosistico, quindi esteticamente e drammaturgicamente poco appropriato alla particolare circostanza (ce lo vediamo il trombettiere spaventato dall’arrivo del Ministro che si mette a fare arpeggi degni di un concerto di Hummel?) Inoltre il motivo è leggermente diverso nella sua apparizione nel terz’atto, rispetto a quella nell’Ouverture (la Leonore 2) come si può notare qui:

Nell’Ouverture è in MIb, cade sulla dominante già a battuta 2 e chiude sulla tonica, mentre nell’opera è in SIb (come nelle versioni successive) ma arpeggia diversamente sulla triade e poi chiude sulla mediante.
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E a proposito di Ouverture, sappiamo che molti Direttori amano recuperare la splendida Leonore 3 infilandola da qualche parte dentro l’opera. Le cronache fanno risalire questa moda all’incirca al 1850: quando si cominciò ad eseguirla come ouverture al secondo atto. Colà la posizionò anche Mahler nelle sue prime direzioni di Fidelio (Praga 1886 e Lipsia 1887). Poi però, a partire da Amburgo (1891) le cambiò di posto, poiché la sua debordante e ottimistica potenza contrastava troppo con la successiva buia scena di Florestan incarcerato, e così cominciò ad eseguirla prima della scena finale (con la quale si raccorda benissimo, sia come tonalità che come atmosfera) e con questa scelta ha fatto molti proseliti fino ai giorni nostri. Personalmente troverei la cosa del tutto inopportuna, non certo dal punto di vista musicale (è una cosa straordinaria) ma da quello drammaturgico: 15 minuti di sosta fra le ultime due scene, che Beethoven aveva tribolato come un matto per giustapporre senza soluzione di continuità, sono davvero troppi, e in più rovinano proprio il mirabile intervento della tromba, riproponendocene gli squilli dopo pochi minuti e distruggendone così tutta la tensione drammatica.

Barenboim non farà questa forzatura, ma in compenso ne combinerà un’altra, come a voler lasciare la sua pisciatina sui muri della Scala, nel suo ultimo SantAmbrogio come Direttore Musicale: invece dell’Ouverture Fidelio eseguirà la Leonore 2! Un suo bisognino (smile!) abituale, avendolo già fatto in un’incisione su CD e in un’apparizione di anni fa ai PROMS. Naturalmente ciò dovrebbe portarsi dietro automaticamente anche l’inversione dei primi due numeri: dopo il DO maggiore dell’Ouverture, che con i suoi schianti finali resta inchiodato nell’orecchio dell’ascoltatore, subito il DO minore dell’aria di Marzelline, invece del lontanissimo LA maggiore del duetto Marzelline-Jaquino, che parte (coerentemente, in Beethoven!) con la dominante MI con cui chiude l’Ouverture Fidelio. Così è nel CD con Domingo e così fu ai PROMS. Ma se leggiamo il libretto della Scala, che pure è ripubblicato per l’occasione, tanto che cita la presenza della Leonore 2 al posto dell’Ouverture giusta, scopriamo che il numero di apertura dovrebbe essere il duetto (?!?) e così pare sia stato eseguito alla generale

Insomma: un guazzabuglio indecoroso (qui arrivano i… mostri!) Dico: se uno oggi vuol divertirsi a inventare tutti gli intrugli possibili e immaginabili con la musica del Fidelio, lo può fare a suo piacimento, e senza scomodare Barenboim e la Scala, semplicemente col suo computer di casa: che senso ha metter su queste arlecchinate per un SantAmbrogio?

17 novembre, 2014

Ancora Simonacido alla Scala

 

Ieri penultima recita alla Scala del Boccanegra targato Barenboim-Domingo. Quest’anno, a differenza della prima edizione di qualche anno fa, la coppia è relegata (almeno dal punto di vista dei tempi di programmazione) a secondo cast (?!)

Teatro con il solito e un po’ deprimente colpo d’occhio dei palchi occupati forse al 50%, cosa cui andrebbe posto rimedio (a meno che non ci sia un sacco di gente che butta quattrini in abbonamenti e biglietti che poi non utilizza… mah).

Di questo Simone si sapeva ovviamente tutto, fin dal 2010, e poco di nuovo è emerso oggi. Bravo per me Barenboim, che con questo Verdi evidentemente si sente a suo agio, bravi con lui gli strumentisti e bravissimi i coristi di Casoni.

Fra gli interpreti Fabio Sartori è quello che ha convinto di più (per lui l’unico applauso a scena aperta della serata) ma questo già la dice lunga sulla mediocrità del resto. Anastassov ha una voce adatta a salette per pochi intimi (Barenboim lo ha inesorabilmente coperto, specie nella scena finale, e forse questo è l’unico appunto da muovere al Kapellmeister); per lui gli unici buh alla fine. La Serjan direi senza infamia e senza lode, una voce certo adatta al personaggio di Amelia-Maria - né soprano drammatico, né leggero - ma ieri piuttosto opaca e in certi momenti calante. Un filino meglio Rucinski, voce proprio baritonale (!) anche se nell’ottava bassa tende a… sparire. Panariello, Albani e Lavarian come da minimo sindacale (ma a questi ruoli non si chiede di più).

Eccomi quindi al Topone: che può cercare di ingrossare la voce quanto vuole, ma resta sempre un… Gabriele Adorno! Nobbuono davvero, perché a cantare le note giuste sarebbe capace anche… Sartori! E così, col protagonista cantato dal cantante sbagliato, addio Simone. 

Tiezzi non inventa concetti arditi, si lascia andare solo nelle ultime battute, quando ci mostra il popolo in abiti… verdiani e poi il solito specchione che cala dall’alto e si inclina, facendo vedere al pubblico l’orchestra a 45 gradi! (sempre meglio che a… 90, smile!)  

26 giugno, 2014

Barenboim alla Scala si fa in due per DonGnocchi


Fra una recita e l’altra del… guthiano Così, Daniel Barenboim - del quale si può dire tutto il male, salvo che manchi di umana, sociale e cristiana (!) carità - ha trovato, insieme ai professori della Filarmonica, il modo e il tempo per dedicarsi ad opere di bene: un concerto a beneficio della benemerita Fondazione DonGnocchi.

Concerto che lo ha visto – in un teatro abbastanza gremito - contemporaneamente come Direttore e Interprete. Sul secondo fronte era alla tastiera per suonare il K595, composto circa un anno dopo (inizio 1791) la terza fatica dapontiana. È l’ultimo dei concerti per pianoforte e orchestra e – salvo poche venature d’ombra - sprizza serenità e gioia di vivere da ogni battuta: e pensare che Mozart non arriverà a vedere il 1792…
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Composto per una circostanza particolare e per essere eseguito in una sala d’albergo, ha un organico ridotto all’osso: solo 7 fiati (niente clarinetti e trombe) più gli archi. Numerose sono le auto-citazioni che vi compaiono, come quella di un inciso (che appare a battuta 5) proveniente dal finale della sinfonia Haffner, che a sua volta lo aveva mutuato dal Ratto:


A battuta 13 ecco un motivo che ci ricorda il Finale della Jupiter: sono i violini secondi ad esporlo, armonizzati per terze dai violini primi:


Il tema del Larghetto è una reminiscenza della Sinfonia Linz (finale) e una sua iniziale cellula viene anche riproposta, con diversa scansione ritmica, dal solista nell'Allegro conclusivo:

Il cui tema principale Mozart impiegherà quasi contemporaneamente in una canzone:


Una curiosità, per così dire, editoriale, riguarda un passaggio dell’Allegro iniziale, che nelle partiture storicamente esistenti sul mercato fin dopo la metà del secolo scorso manca di 7 battute (dopo la 46). Si tratta di un passaggio che compare più tardi nello sviluppo e poi proprio alla fine del movimento: pare che nell’esposizione manchi dal manoscritto di Mozart, sostituito però da un appunto che verosimilmente serviva da richiamo. Le sette battute sono state reintegrate nell’edizione critica della NMA (1960) cui oggi (quasi) tutti gli interpreti fanno riferimento:


Si possono ascoltare in questa esecuzione proprio di Barenboim con i Wiener, da 1‘38“ a 1‘52“ del filmato. Una delle mosche bianche che ancora impiega l’edizione non emendata è  Jenö Jandó, qui con András Ligeti da 1’28”.
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Dopo una falsa partenza, dovuta ad intemperanze di qualche cafone in platea prontamente redarguito, l’approccio di Barenboim è assai leggero, quasi compassato: personalmente un poco di freschezza in più non mi sarebbe dispiaciuta, magari nell’Allegro finale. Comunque è sempre un piacere ascoltare questo autentico gioiello della produzione del Teofilo.

E anche il pubblico mostra di apprezzare, con ripetute chiamate del Maestro, che non può esimersi dall’offrirci un bis: le beethoveniane Sei variazioni sull’aria Nel cor più non mi sento da La molinara di Paisiello (qui il grande Kempff).   
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Ecco infine l’inflazionata Quinta di Ciajkovski. Nel primo movimento Barenboim ci vede proprio la marcia pesante del destino che arriva minaccioso, poi l’orizzonte si apre nell’Andante cantabile (grazie al corno di Danilo Stagni) e la Valse è suonata come un minuetto settecentesco. Finale enfatico e retorico quanto basta, e forse più, con i grandiosi fracassi che contraddistinguono l’ostinato prevalere della volontà sul destino cinico e baro. Gran trionfo con innumerevoli chiamate.

22 giugno, 2014

Così fan tutti i... Guth


Ieri sera seconda recita (delle ben 12 previste, fino al 18 luglio) del mozartiano Così fan tutte alla Scala, in un teatro ancora parecchio lontano dall’affollamento che ci si aspetterebbe per un’opera come questa.

 

L’allestimento di Claus Guth è una rivisitazione di quello presentato nel 2011 a Salzburg (a sua volta una sostanziale revisione di quello del 2009, sempre nella città di Mozart).   


Per commentarlo potrei limitarmi a riproporre le stesse e identiche considerazioni che mi venne di scrivere un paio d’anni fa, in occasione dell’edizione di Damiano Michieletto alla Fenice. Di sicuro non ho nel frattempo cambiato idea sulla natura del soggetto e dei relativi personaggi: né opera comica (perché giocoso è, ma dramma) né opera pessimista (poiché dramma è, ma giocoso). O magari potremmo sì definirla pessimista, ma in senso gramsciano, in piena coerenza con il proposito che tutti esprimono alla fine: Fortunato l’uom che (…) da ragion guidar si fa (ecco l’ottimismo che fa capolino…) Succede invece che gli allestimenti tendano a presentare una sola delle due facce, ai nostri giorni solitamente più quella scura, perché questo fa tanto impegnato

Ecco, il segreto e insieme la grande difficoltà di chi mette in scena quest’opera sarebbe di saper camminare, anzi danzare e fare acrobazie, su una lama di rasoio, senza cadere di sotto e senza farsi nemmeno un taglietto alle piante dei piedi. Cosa che né Guth né il suo più giovine imitatore Michieletto provano nemmeno lontanamente a fare. Loro – con diversi accenti e, mi sentirei di dire, con minor tasso di gravità per il nostro compatriota – evitano accuratamente la lama di rasoio per accomodarsi stolidamente su una delle due opposte sponde: nella fattispecie quella nichilista, dove ai protagonisti (ergo, all’umanità) non resta altra prospettiva se non un perenne e astioso conflitto.

La base comune di queste assurde interpretazioni del capolavoro è la crassa ignoranza (o meglio: la sprezzante minimizzazione) della musica del Teofilo, oltre che del testo del suo amico librettista nonché prete.

Ora però, Michieletto si limitava – per così dire – al pessimismo della conclusione e a presentare DonAlfonso come un povero ubriacone che si diverte a rovinar famiglie, lasciando però in vita molto della freschezza e del buonumore di cui è permeata l’opera. Guth invece va ben oltre e ne distrugge con scientifica meticolosità l’intero impianto, per farlo aderire al suo lunatico Konzept nichilista, infarcito di iper-freudismo da quattro soldi.

Per tutto il primo atto i comportamenti dei protagonisti, non solo dei due maschi ma anche delle due femmine, sono determinati dagli effetti di sbornie e dai fumi dell’alcool, come dire: tutta la vicenda è un nonsenso. I due finti albanesi mai si trovano al cospetto delle due ragazze: al massimo si coprono il volto con due maschere; oppure sono loro a bendare le donne, oppure piomba un’improvvisa oscurità. Finalmente, nella scena del finto suicidio, eccoli presentarsi con i loro connotati originali, che da lì in poi manterranno fino alla fine dell’opera (?!?)

Altra trovata: alla fine del primo atto, al momento del finto suicidio, la scena si apre per mostrare un bosco, che poi si ingigantirà nel second’atto e quindi quasi del tutto sparirà alla fine. Che significa? Certo Guth-Freud avrà una risposta; di sicuro c’è che nel libretto il protagonista, non solo a livello natura, ma psiche, è il mare, che il regista non ci mostra nemmeno col binocolo!    

C’è poi un particolare apparentemente secondario, ma in realtà illuminante, che testimonia dell’indifferenza del regista per l’originale. Si tratta di un paio di tagli al libretto, che ci privano di un passo fondamentale nella caratterizzazione del personaggio di Fiordiligi e del suo tremendo conflitto interiore: prima dell’aria di Dorabella È amore un ladroncello Fiordiligi, che ha già confessato di amare anche Ferrando, ha un estremo ripensamento (Cosa dici! Non pensi agli infelici che stamane partir!) che Guth cancella; poi, e qui davvero la cosa è proditoria, il regista cassa l’intera scena in cui Fiordiligi ordina a Despina di recapitarle le uniformi dei due fidanzati per raggiungerli al campo militare, e poi sceglie per sé quella di… Ferrando! Così si salta immediatamente al duetto in cui la ragazza cede definitivamente. Ecco cosa un sedicente regista arriva a fare, pur di forzare l’originale ad aderire alla sua idea.

Insomma, ancora una volta un allestimento regista-centrico che letteralmente snatura il capolavoro originale. Complimenti davvero!
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Discreto e non più – a mio avviso – il livello della prestazione musicale.

Sopra la media l’orchestra e il coro: Barenboim forse fin troppo… wagneriano nell’agogica, ma a mio parere efficace nel mettere in risalto tutte le infinite sfaccettature della partitura; il coro di Casoni ha una presenza sporadica, ma ha risposto come sa.

Fra gli interpreti metterei in cima alla lista la Fiordiligi di Maria Bengtsson (che bene aveva fatto anche nella produzione veneziana) e Michele Pertusi, un DonAlfonso autorevole (che non merita di essere rovinato dal regista).

Rolando Villazon è Ferrando e se la cava con mestiere, gli do una onesta sufficienza.

Sotto la media mi son sembrati gli altri: dalla Dorabella di Katija Dragojevic al Guglielmo di Adam Plachetka alla Despina di Serena Malfi.

Successo moderato, in un teatro-gruviera.

06 marzo, 2014

La sposa dello… zombie di Cerniakov

 

Ieri sera seconda recita di Una sposa per lo Zar, in un Piermarini ancora una volta povero di spettatori.


Il soggetto, che Il’ja Tjumenev trasse dal dramma di Lev Aleksandrovič Mey, è proprio un bel polpettone strappalacrime! Viene descritto come dramma a sfondo storico, ma in realtà di storico ha soltanto un paio di riferimenti (per quanto importanti) alla figura di Ivan Grozny (da cui viene il titolo dell’opera). Per fare un paragone con un vicino di casa, il Boris di Musorgski sì che è un dramma storico, tutto incentrato sulla figura dello Zar e sulle vicende pubbliche, oltre che private, connesse alla sua salita al potere e alla successiva fine. Qui invece la storia si riduce alla presentazione del contesto in cui si svolge l’azione, uno scenario di vita quotidiana che esseri umani sono costretti a condurre a qualunque latitudine in una qualunque società che si trovi ad essere schiacciata sotto il tallone di un qualunque despota e dei suoi sgherri.

Nel quale brodo di cottura troviamo immersi gli ingredienti principali dell’opera: amori (puliti e sporchi) gelosie, corna, ricatti, filtri e contro-filtri magici, ipocrisie, equivoci, pentimenti e sequele di colpi-di-scena. Il tutto infine si conclude con un’orripilante escalation di ammazzamenti che non lascia vivo uno solo dei quattro protagonisti principali…
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Lo spunto per il titolo venne a Mey dalla vicenda di tale Marfa Vasilevna Sobakina, terza moglie di Ivan il Terribile (un tipo che pare scegliesse le consorti attraverso concorsi di bellezza, con tanto di eliminatorie, magari con gironi di 1600-2000 candidate, e short-list di 12 finaliste!) morta di inedia pochi giorni dopo le nozze, si disse causa avvelenamento. Ma andiamo con ordine.

Il cattivone di turno (un baritono, manco a dirlo!) è Grigorij Grigor’evič Grjaznoj che ricopre ruoli di comando nella polizia personale dello Zar (i famigerati opričnik). Costui convive da tempo con tale Ljubaša, una donna ancora piacente (regalatagli - previo… esproprio dalla famiglia d’origine - da un collega più anziano, Maljuta, basso) che canta come un usignolo, ed è assai gelosa (quindi: mezzosoprano). Però adesso si è innamorato pazzamente della protagonista Marfa, giovanissima, bella e immacolata (soprano!) già promessa al nobile (boiaro) Ivan Sergeevič Lykov (per gli amici: Vania, tenore).

Nella prima aria dell’opera il rude Grigorij si scopre invecchiato e imborghesito: anni addietro avrebbe semplicemente abbattuto la porta di casa della ragazza concupita per trafugarci la sua preda senza tanti complimenti… adesso invece si accorge di esserne innamorato sinceramente (!) e di doverla conquistare con mezzi civili e incruenti.  

Tuttavia, non avendo avuto successo con le buone, non esita ad usare, per raggiungere il suo scopo, sistemi, ehm… diversamente-persuasivi: promettendogli oro e ricchezze, convince tale Elisej Bomelij (tenore) medico dello Zar (ma in realtà un cialtrone-stregone che si spaccia per alchimista) a procurargli un filtro d’amore da far bere a Marfa per innamorarla di lui. Peccato che della trama si accorga la gelosa Ljubaša, che subito inventa una micidiale contro-mossa: si reca dallo stregone di cui sopra e gli chiede di procurarle un filtro dell’invecchiamento (in realtà, un filtro di morte) da somministrare al posto di quello d’amore alla povera Marfa, in modo da renderla inappetibile per il fedifrago Grigorij.

Come si vede, con tutti questi filtri la storia comincia a puzzare di… Tristan (!) Ma anche di Tosca, dato che lo sbifido stregone (che non è mica scemo!) approfitta della situazione per trasformarsi in Scarpia e obbligare Ljubaša (sotto il ricatto di spifferare tutto a Grigorij) a pagarlo in natura. Cosa che la donna (una che evidentemente non ha la stoffa della collega bellona, sì insomma, la cantante pucciniana, smile!) pur mostrandosi a tutta prima riluttante, alla fine si decide a fare, suo malgrado.

Adesso arriva il primo colpo di scena: alla festa di fidanzamento di Marfa con Vania il poliziotto Grigorij versa il contenuto della fiala avuta da Bomelij nella coppa di idromele destinata a Marfa, che la ingurgita d’un sol fiato. Ma in quello stesso momento giunge un messo dello Zar ad annunciare che proprio Marfa ha vinto la finalissima del concorso per zarina (quando si dice il… culo!)

Non resta ora che prepararsi all’apocalittica conclusione: la povera Marfa si è già trasferita, famiglia al seguito, negli appartamenti reali, ma sta sempre peggio e nessuno sa spiegarsi perché. Nessuno salvo Grigorij, che dapprima immagina (illuso!) che si tratti dei primi sintomi di mal d‘amore (per lui) ma ben presto comincia a sospettare che il filtro avuto dallo stregone non abbia funzionato a dovere, o peggio fosse una bufala. Intanto, per salvarsi il culo (leggi: evitare di essere impalato, smile!) dalle ire dello Zar, fa torturare Vania, il fidanzatino di Marfa, fino a costringerlo a confessare di essere lui il suo avvelenatore (per gelosia nei confronti dello Zar) e così giustiziarlo sommariamente come traditore.

Ora viene chiamato in causa anche Donizetti, per supportare il trasferimento di Marfa al reparto… disturbati mentali: la poveretta, informata da Grigorij della brutta fine di Vania, va in preda alle allucinazioni e scambia la testa di cuoio per il fidanzato, proprio come la Lucia di Lammermoor (!) Ma il rimorso ormai si è impadronito dell’animo dell’ex-macho che esplode nell’auto-accusa: lui è colpevole di aver somministrato alla ragazza un filtro che credeva d’amore e chiede di essere giustiziato (non prima però di aver dato il benservito all’alchimista imbroglione…)

Ma l’ultimo e più clamoroso colpo-di-teatro deve ancora arrivare: trionfante, Ljubaša annuncia a Grigorij che Marfa in realtà è vittima di un filtro di morte, che lei aveva sostituito (ecco a voi una Brangäne al contrario!) a quello d’amore, prima che lui lo versasse nella coppa di idromele. Così a Grigorij non resta che ammazzarla seduta stante, per poi consegnarsi ai suoi colleghi sgherri per essere a sua volta giustiziato. Mentre lui le getta un ultimo disperato sguardo, la povera Marfa, ormai del tutto uscita di melonera, gli dà appuntamento per l’indomani, chiamandolo… con il nome del suo amato Vania.

Ecco, tutto questo sapido intrico di passioni ha come sfondo uno scenario idilliaco e bucolico di vita di una comunità rurale (la danza-coro del luppolo, la gente che esce dalla Messa, i ricordi d’infanzia di Marfa) sul quale scenario però incombe l’ombra del sanguinario tiranno. Ombra che appare in forme trionfaliste (il coro in onore dello Zar del primo atto) poi minacciose (gli opričnik che si preparano a spedizioni punitive, inizio dell’atto secondo) e poi si materializza, terrificante, con l’apparizione muta ma sconvolgente dello Zar a Marfa, sempre nel second’atto.

Infine l’ultimo degli effetti della presenza di un despota - che ha il potere di vita e di morte su chiunque - è rappresentato dall’angoscia che, nel terzo atto, attanaglia i due rivali Vania e Grigorij al pensiero che lo Zar potrebbe sequestrargli Marfa, privandoli in tal modo della (genuina per il primo, mistificata per il secondo) felicità.
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Ecco, si potrebbe dire: meno male che Rimski c’è… dato che è la sua musica a sollevare dalla mediocrità il livello di un soggetto francamente discutibile. Musica caratterizzata, come tutta quella di Rimski, da un adeguato standard di qualità ed altrettanto ottima godibilità (sia chiaro però: nessuno si azzardi a parlare di capolavoro!) Del resto il nostro era, nonostante l’appartenenza ad opposta fazione, un ammiratore di tale Ciajkovski, come si evince immediatamente dal secondo tema esposto nell’Ouverture (e mai più riascoltato nell’opera) ottenuto citandone, giustapposti, nientemeno che due frammenti di motivi: rispettivamente il secondo del movimento iniziale della Prima Sinfonia e il secondo del secondo movimento del Manfred:


E altro Ciajkovski (Onegin, ancora i Sogni d’inverno, ma anche un po’ di Patetica) fa capolino qua e là, oltre all’amico Musorgski di cui viene ripetutamente ripreso - dal prologo del Boris, scena seconda - il coro per lo Zar, in realtà l’abusato canto patriottico Slava Bogu ne nebe Slava, citato persino da Beethoven nel secondo dei quartetti Razumovski (oltre che da Borodin nell’Igor, da Ciajkovski in Mazepada Arensky nel quartetto op.35 e da altri ancora):



Ma insomma, a me questo Rimski operistico verrebbe da chiamarlo il Meyerbeer russo post-litteram, ecco… E del resto ne fa fede la sua maturata idiosincrasia verso la modernità wagneriana e il suo dichiarato intento di riproporre con quest’opera – siamo ormai in vista del ‘900! - una forma di melodrammone ultra-tradizionale, infarcito di numeri d’insieme (duetti, terzetti, quartetti, quintetti, sestetti con coro) oltre che di arie e ariosi in piena regola. Insomma: un’opera assai più vicina agli standard dei Teatri Imperiali che non all’approccio autarchico e innovatore (per non dire rivoluzionario) della Banda dei Cinque, presso la quale Rimski pure era stato in servizio permanente effettivo in anni precedenti.

Rimski, che dopo una prima infatuazione si era messo a criticare Wagner per le sue idee riguardo al melodramma, era però un suo seguace nel saper evocare con motivi musicali appropriati le più diverse situazioni: basta pensare a come supporta la descrizione che fa l’alchimista Bomelij a Grigorij del suo filtro magico, quattro battute musicali nei legni che sono parenti strette del wagneriano tema del Tarnhelm

E anche se propriamente non impiega Leit-Motive nell’accezione wagneriana, tuttavia Rimski usa caratterizzare i personaggi con temi ben riconoscibili o appropriati ad evocare particolari stati d’animo (ad esempio i motivi che salgono alla sopratonica, che ben rappresentano le smanie di Bomelij nel suo rapporto con Ljubaša) oppure ripropone lo stesso tema in situazioni diverse, come ad esempio quello dell’aria di Ljubaša del primo atto, che fa da intermezzo, nel secondo, fra il quartetto davanti alla casa di Sobakin e il fatale incontro della (ex-)donna di Grigorij con l’alchimista.

Un autentico gioiello è il motivo in REb che sostiene la seconda parte dell’aria della pazzia di Marfa (a partire dal Larghetto assai sui versi Guarda, sopra le nostre teste il cielo è ampio come una tenda). Esso richiama quello dell’aria del second’atto (dove Marfa ricordava i bei giorni passati da ragazzi con Vania) ed è presente anche verso la fine dell’Ouverture:


Dopo l’esposizione di due coppie di soggetto-controsoggetto l’aria si chiude piuttosto asimmetricamente, con la proposizione del soggetto che, dalla dominante, invece di preparare la risposta, chiude piuttosto repentinamente sulla tonica: un mirabile esempio di pazzia musicale!   

Insomma, un’opera che fa la sua bella figura nel mucchio di tanti melodrammi, diciamo, di centro-classifica, e che meriterebbe anche da noi di godere della stessa popolarità di cui viene gratificata in Russia.   
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Qui l’audio della storica edizione del Bolshoi con la grande Vishnevskaya.
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In questa co-produzione della Scala e dell’Unter-den-Linden si esegue la partitura quasi al completo. Quasi, poiché nel primo atto viene cassato totalmente (ma accade talora anche in Russia) il lungo coro danzato cosiddetto del luppolo selvatico. Peccato, poiché sono alcuni minuti di bella musica (come tutto il resto) ed anche appropriati ad impreziosire la festa in casa di Grigorij. Di altri piccoli tagli – ad esempio la scenetta dei due giovani che escono dal negozio di Bomelij – possiamo non dolerci troppo.

Che dire di canti e suoni? Che purtroppo questa volta (e non sarà l’ultima) la radio di domenica scorsa mi ha tradito - in eccesso - non poco. Intanto un paio di considerazioni generali. Primo: almeno la metà delle voci si sono dimostrate assolutamente inadeguate a perforare gli immensi spazi del Piermarini. Secondo: Barenboim non se ne deve essere accorto in tempo, poiché ha bellamente coperto i cantanti spesso e volentieri. L’alibi che tanto nessuno del pubblico capisce cosa si canta e quindi fa lo stesso è di quelli un filino paraculi…

Vediamo i dettagli (pagelle mie, e solo mie, ovviamente).

Johannes Martin Kränzle (il velleitario Grigorij) è uno dei tre soli che si fanno sentire: ma non è propriamente un bel sentire. Lo ricordavo meglio nell’Alberich del Ring del bicentenario: qui schiamazza assai più che cantare.

Olga Peretyatko (in Mariotti…) è Marfa: anche lei passa a sufficienza, però la voce è spesso pigolante (va bene che lei interpreta una ragazzina) e sgradevolmente metallica. Nella scena conclusiva viene costretta dal regista a cantare anche in posizione bocconi, il che potrebbe valere come attenuante generica in tribunale.

Marina Prudenskaya (Ljubaša) non canterebbe neanche male, se si riuscisse ad udirla bene: viceversa i suoi limiti congeniti e l’esuberanza di Barenboim ci consentono di sentirla discretamente solo nella sua aria del primo atto, dove canta da sola mentre l’orchestra tacet (!) 

Pavel Černoch è un Vania piuttosto evaniascente (smile!): canta tutte le note, ma la metà non si sente e l’altra non entusiasma.

Stephan Rügamer non è malaccio nel ruolo dello sbifido Bomelij (un po’ come nel Loge del Ring di cui sopra): da me ha un’onesta sufficienza.

Anatoly Kotscherga (Sobakin) si sente bene (nel senso che i suoni arrivano…) e per il resto col mestiere di un’intera vita riesce a supplire alle magagne del tempo.

Anche Tobias Schabel (Maljuta) se la cava, sia pure a stento, e soprattutto perché canta abbastanza poco (smile!)

Sulla povera Anna Tomowa-Sintow (Saburova) non mi sento di sparare. Certo qui si danno solo due possibili spiegazioni: o lei è così in bolletta al punto da mendicare da qualche vecchio amico scritture come questa (il ruolo non è certo di quelli da… Panariello, stra-smile!) oppure ha perso del tutto il senso delle misure. Non so quale delle due spiegazioni augurarmi per lei.

Anna Lapkovskaja (Dunjaša) e Carola Höhn (Petrovna) hanno cercato (soprattutto la prima, un poco più impegnata) di meritarsi il gettone.

Il Coro di Casoni ha forse qualche problemino di… lingua (scherzo): fatto sta che non mi è parso così compatto come suo solito.

Barenboim mi aveva lasciato perplesso domenica (radio) proprio nell’Ouverture, per eccessiva sostenutezza. Ieri almeno lì mi è parso migliorare, tenendo tempi più spediti. Per il resto, detto dello scarso rispetto che ha avuto per cantanti in deficit di voce, ha diretto per me in modo discreto un’orchestra che a sua volta non mi ha entusiasmato, proprio nella sezione archi. Alla fine dal loggione gli è piovuto addosso uno strepitoso che personalmente avrei riservato ad occasioni migliori.

In complesso una prestazione non molto più che sufficiente, accolta da applausi moderati e sbrigativi. Negli intervalli si è udito anche qualche sibilo, ma sarebbe da stabilire se diretto ai Musikanten o al Regisseur (quest’ultimo dev’esser già dall’altra parte del mondo, tanto la sua razione programmata di buh l’ha già messa in banca domenica scorsa…)
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E a proposito di regìa, su quella di Cerniakovbuato pesantemente alla prima, nonostante lo stoico quanto goffo tentativo di salvataggio compiuto da Barenboim (proprio come fece per la contestatissima Emma Dante anni fa… A proposito, caro Daniel, non dicesti che quella era la Carmen del terzo millennio? hahaha!) – pesa il solito vizio di voler-dover strafare a tutti i costi.

Certo a Cerniakov dev’essere sembrato banale (o rischioso?) cambiare l’ambientazione del soggetto legandola all’attualità ed allo stesso tempo conservando piena coerenza con l’originale. Il che sarebbe abbastanza facile, basterebbe ambientare il dramma di Rimski sotto Hitler, oppure sotto Pol-Pot, o Stalin, o magari anche, perché no - invece di personaggi ormai obsoleti come il patetico Boris Eltsin - mostrarci in chromakey la Russia di oggi sotto Putin, con immagini dei massacri in Cecenia, dell’irruzione alla Dubrovka, di Khodorkovsky in galera o della Politovskaja ammazzata in ascensore… e visto che tutto ormai si può fare in real-time, pure dell’invasione della Crimea!

No, il regista - lo scrive anche e lo racconta nelle interviste - traspone la vicenda ai giorni nostri per mostrarci come, in fondo, il mondo non sia cambiato da mezzo millennio a questa parte: anche oggi c’è uno zar – virtuale anziché reale - che in qualche modo ci condiziona tutti, letteralmente inventato al computer dal potere dei media, TV e rete in primo luogo.

Intendiamoci: che oggi l’umanità sia in preda a degenerazioni legate all’uso improprio delle diavolerie che inventa a raffica è sotto gli occhi di tutti e un artista che si rispetti, ed abbia le capacità per farlo, fa benissimo a costruirci un soggetto teatrale e da questo ricavare uno spettacolo di alto livello. E a Cerniakov vanno riconosciuti tutti i meriti in proposito: grande fantasia, profondo acume nel decifrare anche pieghe nascoste del soggetto, e poi notevole maestrìa nel metterlo in scena.

Purtroppo, essendo matematico che in casi come questo nascano difformità fra l’idea del regista e l’originale, è fatale che sia quest’ultimo (in toto o in parte) ad essere… sacrificato sull’altare della prima. Ecco quindi che il nesso causa-effetto zar-opričnik viene semplicemente ribaltato (!) Qui sono i secondi che creano il primo, e non viceversa. A che pro? Ovviamente perché loro sono produttori di spettacoli TV, che ci inventano sopra un gigantesco serial televisivo che avrà come protagonista non lo zombie (che esiste solo nelle memorie dei computer e sugli schermi TV) ma una sua sposa in carne ed ossa, che verrà selezionata con un classico casting moderno, come decidono i costruttori dello zar nella loro chat durante l’Ouverture. E naturalmente sapendo benissimo fin dall’inizio che la sposa in carne ed ossa dello zar in… pixel finirà per uscire di melonera. Come si vede, il risultato finale – la pazzìa di Marfa – viene preservato sì, ma a spese dello stravolgimento della causa scatenante.

Altro punto debole qui sta nel ruolo degli opričnik di Cerniakov: la cui protervia è tutta e solo ideologica e di business, mentre nell’originale – testo e musica - è proprio brutalmente materiale!

Quanto alla storia e al significato dei due filtri, dobbiamo pensare trattarsi di affari di droga, di cui Bomelij dev’essere evidentemente uno spacciatore. Quella chiesta da Grigorij probabilmente è roba leggera, sufficiente ad irretire l’ingenua Marfa e farla cadere nelle braccia del manager produttore di serial. Quella data a Ljubaša magari è una polvere da sciogliere in una bevanda, ma che ha gli stessi effetti del crack, che distruggerà Marfa nel corpo e nella mente. Alla fine nessuno potrà però dire se la poveretta sia vittima della droga o dell’insopportabile stress derivatole dal ruolo impostole nel serial di cui è diventata protagonista dopo aver vinto la finalissima del casting. E anche qui non siamo certo fuori strada rispetto all’originale, poiché è del tutto plausibile che la vera Marfa non fosse stata affatto avvelenata, ma fosse crollata psicologicamente sotto il peso del ménage di coppia impostole dal Terribile.

Ciò che non quadra in questa parte del Konzept di Cerniakov è che nell’originale Marfa viene costretta (dal potere violento dello Zar) a partecipare alla selezione e poi a diventare, magari controvoglia, moglie del despota. Qui invece lei si presenta spontaneamente alle selezioni, attirata dal miraggio del successo e dall’immagine ingannatrice dello zar-in-pixel fugacemente vista sullo schermo TV di casa sua.

Ci sono poi nello spettacolo, ne cito un paio, altre forzature e/o incoerenze con l’originale: alla fine del second’atto Ljubaša, invece di cantare a se stessa il suo risentimento e la sua sete di vendetta nei confronti di Marfa, lo fa proprio cantandole in faccia alla povera e ignara ragazzina! Dopodiché sembra quasi pentirsene e l’atto si chiude con lei che, invece di andarsene con Bomelij (che ha già preparato la droga e pure… le valigie!) resta praticamente avvinghiata a Marfa (quindi perché mai insisterà poi a volerla morta?) Alla fine del terz’atto, all’arrivo della notizia della vittoria di Marfa alle selezioni, il povero Vania invece di disperarsi, va sorridente a complimentarsi con la fidanzata, come farebbe qualunque giovane emancipato di oggi se la sua ragazza venisse scelta per il Grande Fratello o consimili.

C’è poi la questione del luppolo: qui il sospetto che sia stato sacrificato in quanto non coerente (figuriamoci, un girotondo di ragazzi e ragazze che cantano un’innocente filastrocca!) con la vision del regista diventa quasi certezza.

Intendiamoci: si tratta di aspetti magari marginali, però messi tutti insieme finiscono per disorientare lo spettatore, direi più quello che ha una certa dimestichezza col soggetto che quello che invece lo vede per la prima volta e magari afferrando pochi percento delle parole cantate. 

Per riassumere il tutto, nello specchietto sottostante ho cercato di sintetizzare, attraverso l’elencazione e la descrizione di alcune loro rilevanti caratteristiche, lo scenario originale e quello immaginato dal regista:    


scenario A - Mey/Tjumenev
scenario B - Cerniakov
società
medievale, agricola
post-industriale, terziario
regime politico
feudale, dispotico
democratico, garantista
identità del potere
persona fisica, accentratore
entità virtuale, diffusa
gestione del consenso
terrore - violenza – giustizia sommaria 
media – moda – imitazione - promozione sociale
gestione degli individui
autoritaria
permissiva
strumenti di seduzione
filtri magici (agenti chimici, materiali)
miraggi di successo (agenti psichici, immateriali)
coinvolgimento con il potere
asservimento (imposto con la forza)
condivisione (liberamente deciso)

Beh, credo proprio sia difficile sostenere che i due scenari abbiano alcunché in comune: anzi, non potrebbero essere più distanti fra loro. Ma allora, se vogliamo (come dovremmo) dar credito a Rimski di aver composto una musica precisamente funzionale ad un testo che evoca lo scenario A, come può accadere che quello stesso testo e la musica che ne è conseguita calzino perfettamente anche allo scenario B, che gli sta agli antipodi?

Qui sta tutto il nocciolo della questione relativa al giudizio estetico da dare di una messinscena come questa. Ognuno ovviamente è libero di privilegiare l’indiscutibile genialità, e professionalità di realizzazione, della proposta di Cerniakov oppure di dichiararsene deluso a causa dell’insopportabile incoerenza tra ciò che si vede e ciò che si ascolta.  
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Chiudo tornando alla musica e alla figura dello zar, che per Cerniakov abbiamo visto essere niente più che un’ardita creazione di supertecnici dell’immagine. Ecco, invece per Rimski è un essere proprio in carne ed ossa. Come ce lo spiega il compositore? Ovviamente con la sua musica (e magari con un minimo di… spocchia).

Sì, perché nell’opera noi ascoltiamo quasi da subito lo Slava Bogu, il quale non è propriamente catalogabile come un tema dello Zar Ivan, bensì è un inno di lode per lo Zar, cioè per un qualunque zar, anche quello virtuale di Cerniakov, cosa alla quale ci aveva abituato già Beethoven e come ci confermeranno i vari Borodin, Musorgski, Arensky etc.

Ma attenzione a quanto accade in orchestra, nel second’atto, al momento della comparsa dello Zar davanti a Marfa e Dunjaša: al tema Slava Bogu Rimski contrappunta, reiterandolo a velocità folle, un motivo che evoca Ivan nell’opera La fanciulla di Pskov (motivo del resto a sua volta derivato dallo stesso Slava Bogu) dove Ivan è proprio un protagonista in carne ed ossa, mica un’idea virtuale. Domandiamoci: Rimski avrebbe scritto la stessa musica dovendo supportare una scena dove Marfa, invece di essere terrorizzata dall’apparizione reale di quella figura minacciosa (che lei nemmeno sospetta trattarsi dello Zar, ma dal quale poi verrà di fatto sequestrata per sfilare come potenziale sposa) viene piacevolmente colpita dall’immagine seducente di un bell’uomo, al punto da decidere immediatamente di concorrere al posto di zarina?

Lo stesso accade alla conclusione dell’atto terzo, dove la solenne e ufficiale comunicazione che Maljuta fa in casa Sobakin (la scelta di Marfa da parte dello Zar) è accompagnata proprio dal tema di Ivan in carne ed ossa, oltre che dallo Slava Bogu:


Potrà pure sembrare un dettaglio ultra-capzioso, ma vi assicuro che chi questi particolari li conosce fa fatica a vederli ignorati o adulterati dalla messinscena.