Ieri sera seconda recita di Una sposa per lo Zar, in un Piermarini ancora una
volta povero di spettatori.
Il soggetto,
che Il’ja Tjumenev trasse dal dramma di Lev Aleksandrovič Mey, è proprio un bel polpettone
strappalacrime! Viene descritto come dramma a sfondo storico, ma in realtà di
storico ha soltanto un paio di riferimenti (per quanto importanti) alla figura
di Ivan Grozny (da cui viene il titolo dell’opera). Per fare un paragone con un
vicino di casa, il Boris di Musorgski sì che è un dramma storico, tutto
incentrato sulla figura dello Zar e sulle vicende pubbliche, oltre che private,
connesse alla sua salita al potere e alla successiva fine. Qui invece la storia
si riduce alla presentazione del contesto in cui si svolge l’azione, uno
scenario di vita quotidiana che esseri umani sono costretti a condurre a
qualunque latitudine in una qualunque società che si trovi ad essere
schiacciata sotto il tallone di un qualunque despota e dei suoi sgherri.
Nel quale brodo di cottura troviamo immersi
gli ingredienti principali dell’opera: amori (puliti e sporchi) gelosie, corna,
ricatti, filtri e contro-filtri magici, ipocrisie, equivoci, pentimenti e sequele
di colpi-di-scena. Il tutto infine si conclude con un’orripilante escalation di
ammazzamenti che non lascia vivo uno solo dei quattro protagonisti principali…
___
Lo spunto per il titolo venne a Mey
dalla vicenda di tale Marfa Vasilevna
Sobakina, terza moglie di Ivan il Terribile (un tipo che pare scegliesse le
consorti attraverso concorsi di bellezza, con tanto di eliminatorie, magari con
gironi di 1600-2000 candidate, e short-list
di 12 finaliste!) morta di inedia pochi giorni dopo le nozze, si disse causa
avvelenamento. Ma andiamo con ordine.
Il cattivone di turno (un baritono, manco a dirlo!) è Grigorij Grigor’evič Grjaznoj che ricopre
ruoli di comando nella polizia personale dello Zar (i famigerati opričnik). Costui convive da tempo con tale Ljubaša,
una donna ancora piacente (regalatagli
- previo… esproprio dalla famiglia d’origine - da un collega più anziano, Maljuta, basso) che canta come un usignolo, ed è assai gelosa (quindi: mezzosoprano). Però adesso si è innamorato
pazzamente della protagonista Marfa,
giovanissima, bella e immacolata (soprano!)
già promessa al nobile (boiaro) Ivan Sergeevič Lykov (per gli amici: Vania, tenore).
Nella prima aria
dell’opera il rude Grigorij si scopre invecchiato e imborghesito: anni addietro
avrebbe semplicemente abbattuto la porta di casa della ragazza concupita per
trafugarci la sua preda senza tanti complimenti… adesso invece si accorge di
esserne innamorato sinceramente (!) e di doverla conquistare con mezzi civili e
incruenti.
Tuttavia, non avendo avuto successo con le buone,
non esita ad usare, per raggiungere il suo scopo, sistemi, ehm… diversamente-persuasivi: promettendogli
oro e ricchezze, convince tale Elisej Bomelij (tenore)
medico dello Zar (ma in realtà un cialtrone-stregone che si spaccia per
alchimista) a procurargli un filtro
d’amore da far bere a Marfa per innamorarla di lui. Peccato che della trama
si accorga la gelosa Ljubaša, che subito inventa una micidiale contro-mossa: si
reca dallo stregone di cui sopra e gli chiede di procurarle un filtro dell’invecchiamento (in realtà,
un filtro di morte) da somministrare
al posto di quello d’amore alla povera Marfa, in modo da renderla inappetibile
per il fedifrago Grigorij.
Come si vede, con tutti questi filtri la storia
comincia a puzzare di… Tristan (!) Ma
anche di Tosca, dato che lo sbifido
stregone (che non è mica scemo!) approfitta della situazione per trasformarsi
in Scarpia e obbligare Ljubaša (sotto
il ricatto di spifferare tutto a Grigorij) a pagarlo in natura. Cosa che la
donna (una che evidentemente non ha la stoffa della collega bellona, sì
insomma, la cantante pucciniana, smile!)
pur mostrandosi a tutta prima riluttante, alla fine si decide a fare, suo
malgrado.
Adesso arriva il primo colpo di scena: alla festa di
fidanzamento di Marfa con Vania il poliziotto Grigorij versa il contenuto della
fiala avuta da Bomelij nella coppa di idromele destinata a Marfa, che la ingurgita
d’un sol fiato. Ma in quello stesso momento giunge un messo dello Zar ad
annunciare che proprio Marfa ha vinto la finalissima del concorso per zarina
(quando si dice il… culo!)
Non resta ora che prepararsi all’apocalittica
conclusione: la povera Marfa si è già trasferita, famiglia al seguito, negli appartamenti
reali, ma sta sempre peggio e nessuno sa spiegarsi perché. Nessuno salvo
Grigorij, che dapprima immagina (illuso!) che si tratti dei primi sintomi di
mal d‘amore (per lui) ma ben presto comincia a sospettare che il filtro avuto
dallo stregone non abbia funzionato a dovere, o peggio fosse una bufala.
Intanto, per salvarsi il culo (leggi: evitare di essere impalato, smile!) dalle ire dello Zar, fa
torturare Vania, il fidanzatino di Marfa, fino a costringerlo a confessare di
essere lui il suo avvelenatore (per gelosia nei confronti dello Zar) e così
giustiziarlo sommariamente come traditore.
Ora viene chiamato in causa anche Donizetti, per supportare il trasferimento
di Marfa al reparto… disturbati mentali: la poveretta, informata da Grigorij
della brutta fine di Vania, va in preda alle allucinazioni e scambia la testa
di cuoio per il fidanzato, proprio come la Lucia di Lammermoor (!) Ma il
rimorso ormai si è impadronito dell’animo dell’ex-macho che esplode
nell’auto-accusa: lui è colpevole di aver somministrato alla ragazza un filtro
che credeva d’amore e chiede di essere giustiziato (non prima però di aver dato
il benservito all’alchimista imbroglione…)
Ma l’ultimo e più clamoroso colpo-di-teatro deve
ancora arrivare: trionfante, Ljubaša annuncia a Grigorij che Marfa in realtà è
vittima di un filtro di morte, che lei aveva sostituito (ecco a voi una Brangäne al contrario!) a quello d’amore,
prima che lui lo versasse nella coppa di idromele. Così a Grigorij non resta
che ammazzarla seduta stante, per poi consegnarsi ai suoi colleghi sgherri per
essere a sua volta giustiziato. Mentre lui le getta un ultimo disperato
sguardo, la povera Marfa, ormai del tutto uscita di melonera, gli dà
appuntamento per l’indomani, chiamandolo… con il nome del suo amato Vania.
Ecco, tutto questo sapido intrico di passioni ha
come sfondo uno scenario idilliaco e bucolico di vita di una comunità rurale
(la danza-coro del luppolo, la gente
che esce dalla Messa, i ricordi d’infanzia di Marfa) sul quale scenario però
incombe l’ombra del sanguinario tiranno. Ombra che appare in forme trionfaliste
(il coro in onore dello Zar del primo atto) poi minacciose (gli opričnik che si preparano a spedizioni
punitive, inizio dell’atto secondo) e poi si materializza, terrificante, con l’apparizione
muta ma sconvolgente dello Zar a Marfa, sempre nel second’atto.
Infine l’ultimo degli effetti della presenza di un
despota - che ha il potere di vita e di morte su chiunque - è rappresentato dall’angoscia
che, nel terzo atto, attanaglia i due rivali Vania e Grigorij al pensiero che
lo Zar potrebbe sequestrargli Marfa, privandoli in tal modo della (genuina per
il primo, mistificata per il secondo) felicità.
___
Ecco, si potrebbe dire: meno male che Rimski
c’è… dato che è la sua musica a sollevare dalla mediocrità il livello
di un soggetto francamente discutibile. Musica caratterizzata, come tutta
quella di Rimski, da un adeguato standard di qualità ed altrettanto ottima
godibilità (sia chiaro però: nessuno si azzardi a parlare di capolavoro!) Del resto il nostro era,
nonostante l’appartenenza ad opposta fazione, un ammiratore di tale Ciajkovski, come si evince
immediatamente dal secondo tema esposto nell’Ouverture (e mai più riascoltato
nell’opera) ottenuto citandone, giustapposti, nientemeno che due frammenti di motivi:
rispettivamente il secondo del movimento iniziale della Prima Sinfonia e il secondo del secondo movimento del Manfred:
E altro
Ciajkovski (Onegin, ancora i Sogni d’inverno, ma anche un po’ di Patetica) fa capolino qua e là, oltre
all’amico Musorgski di cui viene ripetutamente
ripreso - dal prologo del Boris,
scena seconda - il coro per lo Zar, in
realtà l’abusato canto patriottico Slava
Bogu ne nebe Slava, citato persino
da Beethoven nel secondo dei quartetti
Razumovski (oltre che da Borodin nell’Igor, da Ciajkovski in Mazepa, da Arensky nel quartetto op.35 e da altri ancora):
Ma insomma,
a me questo Rimski operistico verrebbe da chiamarlo il Meyerbeer russo post-litteram, ecco… E del resto ne fa fede la sua maturata
idiosincrasia verso la modernità wagneriana e il suo dichiarato intento di
riproporre con quest’opera – siamo ormai in vista del ‘900! - una forma di
melodrammone ultra-tradizionale, infarcito di numeri d’insieme (duetti, terzetti, quartetti, quintetti, sestetti
con coro) oltre che di arie e ariosi in piena regola. Insomma:
un’opera assai più vicina agli standard dei Teatri
Imperiali che non all’approccio autarchico e innovatore (per non dire
rivoluzionario) della Banda dei Cinque,
presso la quale Rimski pure era stato in servizio permanente effettivo in anni
precedenti.
Rimski, che dopo
una prima infatuazione si era messo a criticare Wagner per le sue idee riguardo
al melodramma, era però un suo seguace nel saper evocare con motivi musicali
appropriati le più diverse situazioni: basta pensare a come supporta la
descrizione che fa l’alchimista Bomelij a
Grigorij del suo filtro magico, quattro battute musicali nei legni che
sono parenti strette del wagneriano tema del Tarnhelm!
E anche se
propriamente non impiega Leit-Motive
nell’accezione wagneriana, tuttavia Rimski usa caratterizzare i personaggi con
temi ben riconoscibili o appropriati ad evocare particolari stati d’animo (ad
esempio i motivi che salgono alla sopratonica, che ben rappresentano le smanie
di Bomelij nel suo rapporto con Ljubaša) oppure
ripropone lo stesso tema in situazioni diverse, come ad esempio quello
dell’aria di Ljubaša del primo
atto, che fa da intermezzo, nel
secondo, fra il quartetto davanti alla casa di Sobakin e il fatale incontro
della (ex-)donna di Grigorij con l’alchimista.
Un autentico
gioiello è il motivo in REb che sostiene la seconda parte dell’aria della pazzia di Marfa (a partire dal Larghetto assai sui versi Guarda,
sopra le nostre teste il cielo è ampio come una tenda). Esso richiama
quello dell’aria del second’atto (dove Marfa ricordava i bei giorni passati da
ragazzi con Vania) ed è presente anche verso la fine dell’Ouverture:
Dopo
l’esposizione di due coppie di soggetto-controsoggetto l’aria si chiude
piuttosto asimmetricamente, con la proposizione del soggetto che, dalla
dominante, invece di preparare la risposta, chiude piuttosto repentinamente
sulla tonica: un mirabile esempio di pazzia
musicale!
Insomma, un’opera che fa la sua bella figura nel
mucchio di tanti melodrammi, diciamo, di centro-classifica, e che meriterebbe
anche da noi di godere della stessa popolarità di cui viene gratificata in
Russia.
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In questa co-produzione
della Scala e dell’Unter-den-Linden si
esegue la partitura quasi al completo. Quasi, poiché nel primo atto viene
cassato totalmente (ma accade talora anche in Russia) il lungo coro danzato
cosiddetto del luppolo selvatico.
Peccato, poiché sono alcuni minuti di bella musica (come tutto il resto) ed
anche appropriati ad impreziosire la festa in casa di Grigorij. Di altri
piccoli tagli – ad esempio la scenetta dei due giovani che escono dal negozio
di Bomelij – possiamo non dolerci troppo.
Che dire di
canti e suoni? Che purtroppo questa volta (e non sarà l’ultima) la radio di
domenica scorsa mi ha tradito - in eccesso - non poco. Intanto un paio di
considerazioni generali. Primo: almeno la metà delle voci si sono dimostrate
assolutamente inadeguate a perforare gli immensi spazi del Piermarini. Secondo:
Barenboim non se ne deve essere accorto in tempo, poiché ha bellamente coperto
i cantanti spesso e volentieri. L’alibi che tanto nessuno del pubblico capisce
cosa si canta e quindi fa lo stesso è di quelli un filino paraculi…
Vediamo i dettagli (pagelle mie, e solo mie, ovviamente).
Johannes Martin Kränzle (il velleitario Grigorij) è uno dei tre soli che si fanno sentire: ma
non è propriamente un bel sentire. Lo ricordavo meglio nell’Alberich del Ring del bicentenario: qui
schiamazza assai più che cantare.
Olga Peretyatko (in
Mariotti…) è Marfa: anche lei passa a
sufficienza, però la voce è spesso pigolante (va bene che lei interpreta una
ragazzina) e sgradevolmente metallica. Nella scena conclusiva viene costretta
dal regista a cantare anche in posizione bocconi,
il che potrebbe valere come attenuante generica in tribunale.
Marina Prudenskaya (Ljubaša) non canterebbe neanche male, se si
riuscisse ad udirla bene: viceversa i suoi limiti congeniti e l’esuberanza di
Barenboim ci consentono di sentirla discretamente solo nella sua aria del primo
atto, dove canta da sola mentre l’orchestra tacet
(!)
Pavel Černoch è un
Vania piuttosto evaniascente (smile!): canta tutte le note, ma la metà
non si sente e l’altra non entusiasma.
Stephan
Rügamer non è malaccio nel ruolo dello sbifido Bomelij (un
po’ come nel Loge del Ring di cui sopra):
da me ha un’onesta sufficienza.
Anatoly Kotscherga (Sobakin)
si sente bene (nel senso che i suoni arrivano…) e per il resto col mestiere di un’intera
vita riesce a supplire alle magagne del tempo.
Anche Tobias
Schabel (Maljuta) se la cava, sia pure a stento, e soprattutto perché canta
abbastanza poco (smile!)
Sulla povera Anna Tomowa-Sintow (Saburova) non mi sento
di sparare. Certo qui si danno solo due possibili spiegazioni: o lei è così in bolletta
al punto da mendicare da qualche vecchio amico scritture come questa (il ruolo non
è certo di quelli da… Panariello, stra-smile!)
oppure ha perso del tutto il senso delle misure. Non so quale delle due spiegazioni
augurarmi per lei.
Anna Lapkovskaja (Dunjaša) e Carola Höhn (Petrovna) hanno cercato (soprattutto la prima, un poco più impegnata) di
meritarsi il gettone.
Il Coro di Casoni ha forse qualche problemino di… lingua (scherzo): fatto sta
che non mi è parso così compatto come suo solito.
Barenboim mi aveva lasciato
perplesso domenica (radio) proprio nell’Ouverture, per eccessiva sostenutezza. Ieri
almeno lì mi è parso migliorare, tenendo tempi più spediti. Per il resto, detto
dello scarso rispetto che ha avuto per cantanti in deficit di voce, ha diretto per
me in modo discreto un’orchestra che a sua volta non mi ha entusiasmato, proprio
nella sezione archi. Alla fine dal loggione gli è piovuto addosso uno strepitoso che personalmente avrei riservato
ad occasioni migliori.
In complesso una prestazione non molto
più che sufficiente, accolta da applausi moderati e sbrigativi. Negli intervalli
si è udito anche qualche sibilo, ma sarebbe da stabilire se diretto ai Musikanten o al Regisseur (quest’ultimo dev’esser già dall’altra parte del mondo, tanto
la sua razione programmata di buh l’ha
già messa in banca domenica scorsa…)
___
E a proposito
di regìa, su quella di Cerniakov – buato pesantemente alla prima,
nonostante lo stoico quanto goffo tentativo di salvataggio compiuto da Barenboim
(proprio come fece per la contestatissima Emma
Dante anni fa… A proposito, caro Daniel, non dicesti che quella era la Carmen
del terzo millennio? hahaha!) – pesa il solito vizio di voler-dover
strafare a tutti i costi.
Certo a
Cerniakov dev’essere sembrato banale (o rischioso?) cambiare l’ambientazione
del soggetto legandola all’attualità ed allo stesso tempo
conservando piena coerenza con l’originale. Il che sarebbe abbastanza facile,
basterebbe ambientare il dramma di Rimski sotto Hitler, oppure sotto Pol-Pot,
o Stalin, o magari anche, perché no -
invece di personaggi ormai obsoleti come il patetico Boris Eltsin - mostrarci in chromakey
la Russia di oggi sotto Putin, con
immagini dei massacri in Cecenia,
dell’irruzione alla Dubrovka, di Khodorkovsky in galera o della Politovskaja ammazzata in ascensore… e
visto che tutto ormai si può fare in real-time,
pure dell’invasione della Crimea!
No, il regista
- lo scrive anche e lo racconta nelle interviste -
traspone la vicenda ai giorni nostri per mostrarci come, in fondo, il mondo non
sia cambiato da mezzo millennio a questa parte: anche oggi c’è uno zar – virtuale anziché reale - che in
qualche modo ci condiziona tutti, letteralmente inventato al computer dal
potere dei media, TV e rete in primo
luogo.
Intendiamoci:
che oggi l’umanità sia in preda a degenerazioni legate all’uso improprio delle
diavolerie che inventa a raffica è sotto gli occhi di tutti e un artista che si
rispetti, ed abbia le capacità per farlo, fa benissimo a costruirci un soggetto
teatrale e da questo ricavare uno spettacolo di alto livello. E a Cerniakov
vanno riconosciuti tutti i meriti in proposito: grande fantasia, profondo acume
nel decifrare anche pieghe nascoste del soggetto, e poi notevole maestrìa nel
metterlo in scena.
Purtroppo,
essendo matematico che in casi come questo nascano difformità fra l’idea del
regista e l’originale, è fatale che sia quest’ultimo (in toto o in parte) ad essere… sacrificato sull’altare della
prima. Ecco quindi che il nesso causa-effetto zar-opričnik viene semplicemente
ribaltato (!) Qui sono i secondi che creano il primo, e non viceversa. A che
pro? Ovviamente perché loro sono produttori di spettacoli TV, che ci inventano
sopra un gigantesco serial televisivo che avrà come protagonista non lo zombie
(che esiste solo nelle memorie dei computer e sugli schermi TV) ma una sua
sposa in carne ed ossa, che verrà selezionata con un classico casting
moderno, come decidono i costruttori dello zar nella loro chat durante
l’Ouverture. E naturalmente sapendo benissimo fin dall’inizio che la sposa in
carne ed ossa dello zar in… pixel finirà per uscire di melonera. Come si vede,
il risultato finale – la pazzìa di Marfa – viene preservato sì, ma a spese
dello stravolgimento della causa scatenante.
Altro punto debole qui sta nel
ruolo degli opričnik di Cerniakov: la cui protervia è tutta e solo ideologica e
di business, mentre nell’originale – testo e musica - è proprio
brutalmente materiale!
Quanto alla storia e al
significato dei due filtri, dobbiamo pensare trattarsi di affari di droga, di
cui Bomelij dev’essere evidentemente uno spacciatore.
Quella chiesta da Grigorij probabilmente è roba leggera, sufficiente ad
irretire l’ingenua Marfa e farla cadere nelle braccia del manager produttore di
serial. Quella data a Ljubaša magari è
una polvere da sciogliere in una bevanda, ma che ha
gli stessi effetti del crack, che
distruggerà Marfa nel corpo e nella mente. Alla fine nessuno potrà però dire se
la poveretta sia vittima della droga o dell’insopportabile stress derivatole dal ruolo impostole nel serial di cui è diventata
protagonista dopo aver vinto la finalissima del casting. E anche qui non siamo certo fuori strada rispetto
all’originale, poiché è del tutto plausibile che la vera Marfa non fosse stata
affatto avvelenata, ma fosse crollata psicologicamente sotto il peso del ménage
di coppia impostole dal Terribile.
Ciò
che non quadra in questa parte del Konzept
di Cerniakov è che nell’originale Marfa viene costretta (dal potere violento dello Zar) a partecipare alla
selezione e poi a diventare, magari controvoglia, moglie del despota. Qui
invece lei si presenta spontaneamente
alle selezioni, attirata dal miraggio del successo e dall’immagine ingannatrice
dello zar-in-pixel fugacemente vista sullo schermo TV di casa sua.
Ci
sono poi nello spettacolo, ne cito un paio, altre forzature e/o incoerenze con
l’originale: alla fine del second’atto Ljubaša, invece di cantare a se stessa il suo
risentimento e la sua sete di vendetta nei confronti di Marfa, lo fa proprio cantandole in faccia alla povera e
ignara ragazzina! Dopodiché sembra quasi pentirsene e l’atto si chiude con lei
che, invece di andarsene con Bomelij (che ha già preparato la droga e pure… le
valigie!) resta praticamente avvinghiata a Marfa (quindi perché mai insisterà poi
a volerla morta?) Alla fine del terz’atto, all’arrivo della notizia della
vittoria di Marfa alle selezioni, il povero Vania invece di disperarsi, va
sorridente a complimentarsi con la fidanzata, come farebbe qualunque giovane
emancipato di oggi se la sua ragazza venisse scelta per il Grande Fratello o
consimili.
C’è poi la
questione del luppolo: qui il sospetto
che sia stato sacrificato in quanto non coerente (figuriamoci, un girotondo di
ragazzi e ragazze che cantano un’innocente filastrocca!) con la vision del regista diventa quasi
certezza.
Intendiamoci:
si tratta di aspetti magari marginali, però messi tutti insieme finiscono per
disorientare lo spettatore, direi più quello che ha una certa dimestichezza col
soggetto che quello che invece lo vede per la prima volta e magari afferrando
pochi percento delle parole cantate.
Per
riassumere il tutto, nello
specchietto sottostante ho cercato di sintetizzare, attraverso l’elencazione e
la descrizione di alcune loro rilevanti caratteristiche, lo scenario originale
e quello immaginato dal regista:
scenario
A - Mey/Tjumenev
|
scenario
B - Cerniakov
|
|
società
|
medievale, agricola
|
post-industriale, terziario
|
regime
politico
|
feudale, dispotico
|
democratico, garantista
|
identità
del potere
|
persona fisica, accentratore
|
entità virtuale, diffusa
|
gestione
del consenso
|
terrore - violenza –
giustizia sommaria
|
media – moda – imitazione - promozione
sociale
|
gestione
degli individui
|
autoritaria
|
permissiva
|
strumenti
di seduzione
|
filtri magici (agenti chimici,
materiali)
|
miraggi di successo (agenti psichici,
immateriali)
|
coinvolgimento
con il potere
|
asservimento (imposto con la forza)
|
condivisione (liberamente deciso)
|
Beh, credo proprio sia difficile sostenere che i due scenari abbiano alcunché in comune: anzi, non potrebbero essere più distanti fra loro. Ma allora, se vogliamo (come dovremmo) dar credito a Rimski di aver composto una musica precisamente funzionale ad un testo che evoca lo scenario A, come può accadere che quello stesso testo e la musica che ne è conseguita calzino perfettamente anche allo scenario B, che gli sta agli antipodi?
Qui
sta tutto il nocciolo della questione relativa al giudizio estetico da dare di
una messinscena come questa. Ognuno ovviamente è libero di privilegiare
l’indiscutibile genialità, e professionalità di realizzazione, della proposta
di Cerniakov oppure di dichiararsene deluso a causa dell’insopportabile
incoerenza tra ciò che si vede e ciò che si ascolta.
___
Chiudo
tornando alla musica e alla figura dello zar, che per Cerniakov abbiamo visto essere
niente più che un’ardita creazione di supertecnici dell’immagine. Ecco, invece per
Rimski è un essere proprio in carne ed ossa. Come ce lo spiega il compositore?
Ovviamente con la sua musica (e
magari con un minimo di… spocchia).
Sì, perché
nell’opera noi ascoltiamo quasi da subito lo Slava Bogu, il quale non è
propriamente catalogabile come un tema dello Zar Ivan, bensì è un inno di lode per lo Zar, cioè per un qualunque zar,
anche quello virtuale di Cerniakov, cosa alla quale ci aveva abituato già
Beethoven e come ci confermeranno i vari Borodin, Musorgski,
Arensky etc.
Ma attenzione
a quanto accade in orchestra, nel second’atto, al momento della comparsa dello
Zar davanti a Marfa e Dunjaša:
al tema Slava Bogu Rimski contrappunta,
reiterandolo a velocità folle, un motivo che evoca Ivan nell’opera La fanciulla di Pskov (motivo del resto
a sua volta derivato dallo stesso Slava Bogu) dove Ivan è proprio un
protagonista in carne ed ossa, mica un’idea virtuale. Domandiamoci: Rimski avrebbe scritto la stessa musica
dovendo supportare una scena dove Marfa, invece di essere terrorizzata dall’apparizione
reale di quella figura minacciosa (che lei nemmeno sospetta trattarsi dello Zar,
ma dal quale poi verrà di fatto sequestrata per sfilare come potenziale sposa) viene
piacevolmente colpita dall’immagine seducente di un bell’uomo, al punto da decidere
immediatamente di concorrere al posto di zarina?
Lo stesso accade alla conclusione dell’atto terzo, dove la solenne e ufficiale comunicazione che Maljuta fa in casa Sobakin (la scelta di Marfa da parte dello Zar) è accompagnata proprio dal tema di Ivan in carne ed ossa, oltre che dallo Slava Bogu:
Lo stesso accade alla conclusione dell’atto terzo, dove la solenne e ufficiale comunicazione che Maljuta fa in casa Sobakin (la scelta di Marfa da parte dello Zar) è accompagnata proprio dal tema di Ivan in carne ed ossa, oltre che dallo Slava Bogu:
Potrà
pure sembrare un dettaglio ultra-capzioso, ma vi assicuro che chi questi particolari
li conosce fa fatica a vederli ignorati o adulterati dalla messinscena.
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