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27 febbraio, 2012

Così fan tutti… i Michieletto


Una Fenice affollata ospita la conclusione della trilogia Mozart-michielettiana, con Così fan tutte.

No so come fosse in DonGiovanni (da me trascurato in favore di quello scaligero) ma di certo Damiano Michieletto nelle Nozze aveva proprio indossato i panni del dr.Jekyll, stimabile e serio professionista.

Per quest'ultima fatica mozartiana sembrava avviato sulla stessa (buona) strada: ambientazione moderna, ma perfettamente consona allo spirito a-temporale dell'opera, recitazione assai curata, scene (Paolo Fantin) costumi (Carla Teti) e luci (Fabio Barettin) molto intelligenti e coinvolgenti. Insomma, uno spettacolo godibile, anche perché sul fronte musicale la prestazione di tutti, da Manacorda a strumentisti e cantanti è stata di assoluta dignità, di livello non certo inferiore a quello di altre che si odono anche in teatri assai più blasonati.

Peccato però che Michieletto – come Ferrando&Guglielmo – a un certo punto debba aver ingerito il tosco che trasforma Jekyll in Hide, l'assassino di opere liriche (smile!)
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Chiunque legga non distrattamente il libretto e, soprattutto, mediti appena un po' sulla musica, non può non concludere che l'opera sia un garbato - e allo stesso tempo caustico, ma ottimistico – schiaffo in faccia a tutti i tabù, i pregiudizi, gli stereotipi, i luoghi comuni, le dicerie, le consuetudini che sono caratteristiche di ogni era geologica (inclusa la nostra) e che quindi si applichi (lo schiaffo…) a meraviglia a qualunque contesto storico in cui l'opera venga calata. Ma è uno schiaffo salutare e benefico, per nulla distruttivo, anzi a suo modo catartico.

Ferrando e Guglielmo vi rappresentano gli stereotipi, se non gli archetipi, di quella mascolinità vanesia e piena di sé che è seriamente convinta che una donna – qualunque donna – da loro degnata di seria attenzione debba eternamente serbarsi fedele, come ad un principe azzurro che la provvidenza ha portato sulla sua strada. Però qui nasce un problema: se di principi azzurri ce ne sono in giro due, una stessa damigella non potrà cedere al primo e poi anche al secondo? E quella che in origine aveva ceduto al secondo, potrà successivamente cedere al primo? (grande, il DaPonte, nevvero?) 

Dorabella e Fiordiligi a loro volta sembrano due femmine uscite dai racconti di Liala: sono le damigelle che credono di aver incontrato i rispettivi principi azzurri – mandati dalla provvidenza - a cui mantenersi fedeli per l'eternità. Ma poi, incontrati altri due principi azzurri (gli stessi di prima, che però loro nemmeno sanno riconoscere – figuriamoci! - dietro il goffo travestimento da albanesi o valacchi) si dimenticano dei primi e si innamorano anche dei secondi… a parti invertite. 

Poi ci sono uomini e donne che ragionano, con la testa o con… l'utero (smile!) Così DonAlfonso, avendone viste e vissute di cotte e di crude (Ho i crini già grigi, Ex cathedra parlo) dimostrerà ai due stolidi ufficiali che loro - proprio in quanto principi azzurri, pur travestiti – possono far innamorare di sé anche le due morigerate damigelle già precedentemente accasatesi con altri principi azzurri (loro medesimi… a ruoli invertiti). E la navigata plebea Despina darà lezioni di concreto savoir-faire (far all'amor come assassine
alle due nobili e angelicate sorelline estensi, ciascuna pronta - pur dietro pesanti e un tantino ricattatorie sollecitazioni - ad innamorarsi del nuovo principe azzurro di passaggio.

Alla fine Ferrando&Guglielmo dovranno realizzare che il supposto ruolo di principe azzurro – in un mondo dove ce ne sono diversi in circolazione, e quindi nessuno lo è per davvero! - non garantisce alcuna fedeltà femminile (Te lo credo, gioia bella, ma la prova io far non vo' dovranno loro malgrado ammettere, dopo le rinnovate quanto ormai inaffidabili attestazioni di fedeltà delle loro damigelle). E le coppie (ignote) che si riformeranno con la benedizione del filosofo saranno composte da esseri umani (né principi azzurri, né damigelle) che avranno meno certezze di cartapesta in testa ma un po' più di testa sulle spalle. 
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Torniamo ora a Michieletto, partendo dal suo finale, pessimista e nichilista. Un'idea tanto velleitaria quanto gratuita, che il regista si è inventato estrapolando in modo assurdo ed indebito un verso cantato nel primo atto da DonAlfonso. Come il regista stesso ricorda in un'intervista: ''E' proprio don Alfonso a usare le parole 'Mi fa da ridere questo lor ridere, ma so che in piangere dee terminar', e in questo mio allestimento le fila tessute da questa sorta di vecchio don Giovanni si risolvono in un finale drammatico''.

Intanto è inequivocabilmente chiaro dal libretto che il piangere cui fa riferimento DonAlfonso riguarda esclusivamente la perdita della scommessa che i due protagonisti maschi han fatto con lui riguardo la fedeltà delle partner. Insomma, un modo come un altro per dire ride bene chi ride ultimo, quando c'è una posta in palio. Poi basta sempre leggere il libretto e in particolare l'ultima strofe, per convincersi che il finale non sarà certo un lieto-fine bigotto e perbenista, ma tutto è fuorchè drammatico. È invece un mirabile invito – che tutti i protagonisti accolgono e condividono - a prender la vita per il giusto verso, con serenità, disincanto e filosofia (take-it-easy! come dicono efficacissimamente gli anglosassoni) abbandonando stupidi pregiudizi e superstizioni e facendosi guidare dal buon senso, dall'equilibrio e dalla ragione

Che è poi quella che guida il filosofo DonAlfonso, che per DaPonte-Mozart non è per nulla un vecchio alcolizzato-depravato, un perfido guastafeste e rovina-famiglie, come ce lo presenta pervicacemente il regista. Al contrario – basta sempre leggere con attenzione il libretto - lui è l'incarnazione del vecchio saggio, scettico quanto arguto e navigato (pare uscito da un racconto di Eduardo… siamo a Napoli!) Una figura che accoglie in sé tolleranza, realismo, disincanto, il tutto mescolato ad un pizzico di simpatico sadismo… E il cui obiettivo finale non è certo quello di distruggere i rapporti fra le coppie, portandole alla disperazione e al nichilismo, come ci è toccato purtroppo di vedere alla Fenice, ma di portare nel loro mondo un po' d'aria fresca e pulita, liberandolo dagli sgradevoli odori perbenisti e da tutte le ipocrisie che lo caratterizzano. 

Michieletto evidentemente ha voluto distinguersi dalle scelte (quasi) obbligate che i registi devono compiere nel rappresentare il finale dell'opera: si riformano le coppie originali, o quelle createsi nella finzione legata alla scommessa? Invece di proporci altre plausibilissime combinazioni (il formarsi di due coppie omosex, perché no… oppure di un quartetto di liberi pensatori, tipo comune del '68) lui ha voluto far l'originale e non ha trovato di meglio che negare che le coppie si riformino, in una visione del mondo ultra-pessimistica, come a dirci: se agli individui vengono aperti gli occhi si fa il loro danno, chè, privati delle loro ipocrite certezze, perderanno totalmente la capacità di relazionarsi fra loro in modo sereno e costruttivo.

Ma era questo ciò che DaPonte-Mozart hanno voluto proporci con la loro opera? La risposta ce la dà – manco a dirlo e come sempre, in questi casi – la musica del Teofilo! Dico, Michieletto, bastava ti facessi la domandina semplice-semplice (che ogni regista si dovrebbe porre quando ha maturato la sua idea e la sua concezione dell'opera): se gli facessi vedere il finale del mio allestimento e gli chiedessi di musicarlo, che musica ci scriverebbe sopra Mozart? Ecco, anche un bambino risponderebbe: ma proprio tutta diversa da quella che ha scritto! Perché, mai ciò che il regista propone qui ai nostri occhi è stato in così stridente contrasto con ciò che il rapsodo ha fatto arrivare alle nostre orecchie! E allora, che si fa? Chiamiamo il solito Allevi per musicare il finale di Michieletto?

Dato al regista ciò che gli spetta (nel bene e nel male) resta da confermare la bontà della prestazione sonora. Su tutti (per me) la Fiordiligi di Maria Bengtsson, che si cala benissimo nella personaggio più complesso – libretto e musica – dell'opera: di alto livello in particolare il suo Rondò. Discreta anche Jose' Maria Lo Monaco, una Dorabella a volte un po' urlacchiante. Caterina Di Tonno ha interpretato splendidamente la navigata Despina: le manca soltanto qualche decibel… 

Fra i signori, buono – a dispetto del regista (smile!) - Andrea Concetti come DonAlfonso e dignitosi il Guglielmo di Markus Werba e il Ferrando di Marlin Miller (applaudita la sua Un'aura amorosa). In forma anche il coro di Claudio Marino Moretti, nelle poche ma efficaci sortite. L'orchestra, invero mozartiana (non più di una trentina di strumentisti) ha supportato al meglio le voci, oltre a distinguersi per pulizia nei brani strumentali: merito dei professori e di chi li ha guidati.

In definitiva, uno spettacolo bello e accattivante, di cui Michieletto ha guastato proprio il finale (che però è il succo dell'opera) lasciandosi prender la mano dall'idea di strafare.
    

22 ottobre, 2011

Le simpatiche Nozze di Michieletto alla Fenice


Ieri sera in scena il (cosiddetto) secondo cast per le Nozze mozartiane alla Fenice, abbastanza affollata all'inizio, per poi mostrare evidenti vuoti - ostregheta! - dopo l'intervallo.

 
Spettacolo per me godibilissimo e ampiamente meritevole della trasferta in una Venezia (che il triestino Amfortas insiste a definire orrida) sempre affascinante, sulla pietra come sull'acqua, per quanto torbida… Il merito del mio abbastanza lusinghiero giudizio va suddiviso in parti equivalenti fra messinscena, cantanti e strumentisti, let alone il genio di un tal Gottlieb von Salzburg stimolato da un gaudente religioso italico.

 
Damiano Michieletto e i suoi collaboratori Paolo Fantin (scene) Carla Teti (costumi) e Fabio Barettin (luci) hanno realizzato un mix assai equilibrato di introspezione psicologica, di commedia umana e di farsa che inquadrano bene il multiforme capolavoro.

 
Nessuna velleità, nè pretesa, di svelare o proporre chissà quali arcani e reconditi significati dell'opera (col rischio di falsarne l'essenza, come accade nel 90% dei casi in cui il regista è convinto di essere l'unico furbo in un mondo di idioti) ma una (quasi sempre) efficace e intelligente interpretazione di ciò che l'originale del resto ci svela assai apertamente.

 
Centratissima (e centrale qual è nel libretto e nella musica) la figura di Cherubino, che è una specie di catalizzatore, in chimica definito come un componente presente in quantità minima, ma che è in grado di innescare reazioni, fra altri elementi in circolazione, che mettono in gioco quantità di energia di ordini di grandezza superiori. Ecco quindi il nostro ragazzino che – quasi taumaturgicamente, con la sua carica erotica – fa rinascere a nuova vita la contessa già data per morta (alla felicità, s'intende, durante l'ouverture) semplicemente imponendole la sua mano. E poi fa sentire la sua presenza sui sentimenti degli altri personaggi pilotandoli come un burattinaio – tirando con una cordicella un drappo appeso al soffitto. E poi ancora mette il suo alito (un volgare pallone da calcio, che rappresenta il suo strumento di svago innocente) addosso ai quattro individui che formano le due coppie (Bartolo-Marcellina e Susanna-Figaro) per suggellarne la ritrovata unione.

 
Altra idea non disprezzabile è quella di presentare in scena personaggi che sono oggetto di pensieri, maledizioni, aneliti… di altri che in scena sono prescritti da libretto e musica. A volte questa tecnica eccede in didascalismo (non ci vuol molto a sospettare che Figaro abbia qualcosa da recriminare nei confronti di Almaviva, e viceversa…) ma è assai efficace per guidare quegli spettatori (e sono probabilmente la maggioranza) che nemmeno ci provano a leggere e a capire la sostanza del libretto; ed anche ad animare scene che viceversa soffrirebbero di naturale staticità. Anche l'uscita di scena finale della contessa – nota pessimistica nella generale contentezza – non è poi così fuori dal contesto dell'opera: il personaggio è palesemente irrecuperabile – non per colpa sua, anzi – alla completa felicità e nemmeno il povero Cherubino – ormai accasato pure lui – ha più le facoltà per richiamarla in vita, come era accaduto all'inizio.

 
Non manca qualche eccesso di sottintesi goliardici, come il Cherubino che a Barbarina - che lamenta L'ho perduta, me meschina… - sflila la veste (metaforicamente: le mutande!) Oppure laddove – nella pantomima del IV atto – Almaviva si arrapa come uno scimpanzè quando la contessa (creduta Susanna) gli dice Io te la do… Ma si può perdonare, e i primi a farlo sarebbero di sicuro gli autori, ai loro tempi vincolati da censure e bigottismi diversi.

 
Efficaci le scene impiantate sulla piattaforma girevole e cangianti a vista. L'idea della tavolata dove si riuniscono di tanto in tanto i personaggi nelle scene di concertato non è nuova (ad esempio si vide nell'Onegin di Tcherniakov) ma intelligente e permette spettacolari effetti, come quello invero esilarante di chiusura del secondo atto, col tavolo fatto girare vorticosamente, come la testa dei protagonisti.

 
Sul fronte canoro nessun 30-e-lode, ma nemmeno riprovazioni inappellabili: una compagnia mediamente ben assortita, dove tutti han dato il massimo: Priante (non nuovo al ruolo di Figaro) e la Lo Monaco mi son parsi i più sicuri, ma tutti gli altri – vedi locandina - non hanno per nulla demeritato. Brave le voci di Moretti, sempre disposte nella buca dell'orchestra per i loro interventi.

 
A Manacorda darei un voto fra il discreto e il buono: basterebbe l'Ouverture ad assicurargli ampi consensi, ma in tutta l'opera mi è parso preciso, attento alle sfumature e soprattutto a supportare al meglio chi canta sul palco. Bravo a lui e agli orchestrali, che non hanno avuto una sola sbavatura. Pienamente rispettosa dell'originale – ma sempre discutibile sul piano estetico – la riapertura dei tagli delle due arie (di Marcellina e Basilio) del IV atto; arie che massimo Mila definiva scritte per ragioni sindacali (garantire gloria contrattuale al soprano e tenore minori) e che effettivamente, sul piano estetico, si fatica a credere che siano farina del sacco del Teofilo. Nella fattispecie a guadagnarci mi pare sia stato più Lazzaretti che la Martorana. A Michieletto l'aria di Basilio è servita per fargli fare uno scambio d'abiti col maggiordomo, quasi a volerci rappresentare uno spaccato di civiltà contemporanea: il povero musicista che aspira a diventare servo (asino!) di qualche potente…

 
Sono le 10 e mezza passate di sera, l'aria è proprio frizzantina, e sul vaporetto che solca il Canalgrande c'è ancora una gran folla multietnica che sale e scende a destra e a manca: vita a Venezia!
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