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15 ottobre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 3

Alpesh Cauhan sta ormai diventando di casa all’Auditorium: il giovane Direttore albionico - terminato il mandato a Parma con la Toscanini è tornato al luogo natìo e al ruolo di Direttore Musicale dell’Opera di Birmingham - vi ricompare questa settimana per proporre un programma di musiche italiane di autori stranieri innamorati del BelPaese: Stravinski e Mendelssohn

Del primo ascoltiamo la versione originale di Pulcinella, completa delle parti di canto riservate a soprano, tenore e basso. Non solo si tratta di un genere (balletto-con-canto) ben poco esplorato nella letteratura musicale, ma ciò che stupisce (positivamente) è come gli autori del misfatto (al servizio del patron Diaghilev) abbiano saputo tenere insieme: musiche (e testi annessi) di origine eterogenea (Pergolesi fu dato per l’unico autore, ma si scoprì poi che era solo primus-inter-pares...) con la trama del balletto, ideata dal coreografo Léonide Massine sulla base del pezzo di commedia dell’arte settecentesco I quattro Pulcinelli simili, che ha legami assai labili con i testi cantati (non parliamo poi delle scene di Pablo Picasso, già oggetto di contestazioni dagli altri autori nella fase di creazione dell’opera).

Gli interessati possono esplorare i contenuti del balletto nelle note in calce al post.

L’esecuzione è stata più che apprezzabile e le tre voci si sono ben distinte in queste parti per nulla facili: in testa metterei il basso Johannes Held, voce calda e ben impostata, poi il tenore James Way, voce chiara e penetrante e infine il soprano Francesca Lombardi Mazzulli, la cui voce mi pare manchi un po’ di penetrazione.

Devo dire però che l’esecuzione delle musiche comprensive delle parti cantate ma senza il balletto desta qualche perplessità, poichè viene a mancare -  a causa dell’eterogeneità dei testi - il sostrato narrativo dell’opera, quello che rende almeno vagamente comprensibili gli accostamenti fra le parti puramente strumentali e quelle cantate. Assai più appropriato sarebbe invece - in assenza di balletto - proporre la Suite, che si può più agevolmente gustare come musica pura.
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A chiudere è poi arrivata l’Italiana di Mendelssohn, che Chauhan ha affrontato con piglio garibaldino, forse fino eccessivo: parlo dei due movimenti esterni, dove la velocità è andata un poco a scapito della pulizia e della perfetta definizione delle linee melodiche mendelssohniane. Discutibile anche il taglio del ritornello dell’iniziale Allegro vivace. Molto meglio i due movimenti interni, in particolare l’Andante con moto.

In ogni caso il successo non è mancato, in una sala che ancora non è tornata al (consentito dalla legge) 100% di tasso di occupazione.
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Pulcinella

La partitura reca i riferimenti ai personaggi della vicenda e una succinta descrizione della trama, tratta come detto da I quattro Pulcinelli simili. Quattro perchè, oltre al vero e autentico Pulcinella, ne compaiono altri tre: uno è Fourbo, amico e sodale del protagonista; gli altri due (Caviello e Florindo) sono giovani innamorati di due fanciulle (Prudenza e Rosetta) che li snobbano, preferendo rincorrere il seducente Pulcinella (che per parte sua ha una fidanzata gelosa, tale Pimpinella). Il Dottore e Tartaglia con rispettive consorti completano il quadro dei personaggi del balletto (più altri figuranti).

La trama è coì presentata:

Tutte le ragazze del luogo sono innamorate di Pulcinella, ma tutti i ragazzi cui sono fidanzate sono pazzi di gelosia e tramano per ucciderlo. Proprio quando pensano di esservi riusciti, s'impadroniscono di costumi simili a quello di Pulcinella e si presentano alle innamorate così travestiti. Ma Pulcinella - astuto - è riuscito a farsi sostituire da Furbo, il suo doppio, che finge di soccombere ai colpi dei nemici di Pulcinella. Il vero Pulcinella ora si traveste da mago e resuscita il suo doppio. Nel momento in cui i quattro uomini, pensando di essersi liberati del loro rivale, vengono a reclamare le innamorate, Pulcinella ricompare e combina i matrimoni. Egli poi sposa Pimpinella, ricevendo la benedizione di Furbo, che a sua volta, assume l'aspetto di mago.

Seguiamo il balletto messo in scena tempo addietro dal coreografo Nils Christe con lo Scapino Ballet di Rotterdam e con la London Symphony diretta da Claudio Abbado e le voci di Teresa Berganza, Rayland Davies e John Shirley-Quirk. Lo facciamo con l’ausilio della tabella sottostante che reca, oltre alla suddivisione in numeri del balletto, anche le opere che hanno ispirato Stravinski (secondo lo studio di Helmut Hucke) i testi cantati e una (mia) plausibile esplorazione della trama, ovviamente dedotta dall’interpretazione del soggetto originale proposta da Christe, che può chiaramente differire nei dettagli da altre produzioni (ad esempio nella realizzazione del personaggio del Mago).


10 giugno, 2021

Ancora nuova musica da laVerdi

Alpesh Chauhan sta ormai diventando ospite abituale dell’Auditorium: è infatti al suo terzo appuntamento in tre anni con laVerdi. Per l’occasione dirige un concerto ben assortito, con musica che va dall’oggi a ieri all’altroieri!    

Dopo quella recente di Colasanti, ecco una nuova primizia a testimonianza della vitalità dei nostri compositori: Hello, World, uscito dalla penna di quella vecchia voce di Radio3 che risponde al nome di Nicola Campogrande.  

L’aquilana Vittoriana De Amicis ha prestato la sua bella voce sopranile a questo ciclo di 4 Lieder che ci racconta qualche arcano dell’informatica: come far dire (o comparire sullo schermo) al computer il messaggio Hello, World impiegando quattro diversi linguaggi di programmazione!

1. Linguaggio B

main( ) {

extrn a, b, c;

putchar(a); putchar(b); putchar(c); putchar(’!*n’);

}

a ’hell’;

b ’o, w’;

c ’orld’;

2. Linguaggio Unix Shell

#!/bin/sh

echo “Hello world”

3. Linguaggio Delphi

program Project1;

uses

qdialogs;

const

s = ‘Hello World’;

begin

showmessage(s);

end

4. Linguaggio Malbolge

(=<`#9]~6ZY32Vx/4Rs+0No-&Jk)”Fh}|Bcy?`=*z]Kw%oG4UUS0/@-ejc(:’8dc

Va da sè che i simboli - che nei linguaggi di programmazione abbondano, rispetto alla normale lingua scritta - non siano musicabili, quindi (in italiano, visto che l’Autore è italiano) ne viene musicata la pronuncia, tipo chiuse le virgolette o anche chiocciola o parentesi aperta, cancelletto, e così via. Insomma, un moderno... divertimento. Tutto sommato gradevole, poichè Campogrande è un esponente di quella che chiamerei corrente nostalgica (in senso assolutamente buono!) della musica contemporanea. Tanto per dire, il primo brano attacca in RE maggiore à-la-Korngold e poi presenta un cantabile in LA (!) Proprio sull’ultima nota la De Amicis sfoggia un MIb sovracuto degno di...Violetta!

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Due fratelli tulipani, rispondenti ai nomi di Lucas e Arthur Jussen (di 28 e 25 anni rispettivamente) si cimentano poi con il Concerto per due pianoforti di Poulenc. Eccoli qui in una prestazione di pochi anni fa. Invece qui qualche mia nota in proposito, scritta più di 8 anni orsono in occasione di un’esecuzione in Auditorium di Lupo & Pedroni.

Brano di tutta gradevolezza, che i due giovani interpretano quasi (o senza quasi) divertendosi, e così raccolgono un meritato trionfo, che ci ripagano con un Mozart in salsa italo-svizzera... e poi con il sommo Bach.  

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Infine si retrocede in pieno ottocento con il 15enne Mendelssohn e la sua Prima Sinfonia in DO minore per orchestra a ranghi completi, sfornata precisamente fra il 3 e il 31 marzo del 1824 (prima ne aveva composte, in soli due anni e tanto per farsi le ossa... ben 12 per orchestra d’archi!)  

È un frutto ancora piuttosto acerbo e velleitario, se lo si confronta con capolavori quali l’Ottetto e l’Ouverture del Sogno che arriveranno nel giro di nemmeno 3 anni. Qui il ragazzo sembra ancora affetto da eccessiva carica Sturm-und-Drang, per dire: se si esclude l’Andante, un’oasi di pace e tranquillità, ricca di spunti degni di nota, la Sinfonia è tutto un succedersi di motivi dal piglio asfissiante e da dinamiche che raramente scendono sotto il forte, con rari momenti meditativi; insomma, una narrativa piuttosto... aggressiva, ecco. E non è escluso che l’Autore stesso fosse cosciente di ciò, se per le esecuzioni londinesi del 1829 rimpiazzò il concitato Menuetto con l’etereo Scherzo del suo recentissimo Ottetto! 

L’Allegro molto di apertura (4/4) presenta subito il primo tema nervoso in DO minore, che sfocia poi verso la relativa MIb maggiore, dove ospita dapprima un inciso di sapore beethoveniano (Imperatore) e un motivo di transizione verso il secondo tema. Che a prima vista sembrerebbe più cantabile, quindi efficacemente contrastante con il primo. Ma (purtroppo?) solo per poco, poichè anch’esso si fa ben presto contagiare dalla veemenza dell’altro. Dopo la canonica ri-esposizione, ecco lo sviluppo, dove Mendelssohn mostra una certa fantasia nell’intrecciare i motivi e nel divagare su tonalità, come il SIb maggiore e il RE, poi il FA minore. La ricapitolazione vede il secondo tema portato a LAb maggiore. Segue una lunga coda basata sul primo tema che transita temporaneamente a DO maggiore. Nella concitazione permanente viene inserita una breve oasi di calma, 8 battute dove due corni suonano un SIb in ottava, seguite da lamenti di legni e archi. Pian piano riprende il primo tema che va a chiudere pesantemente - ricordando il Mozart della K550 -  sul DO minore di impianto.

L’Andante (3/4, MIb maggiore) è come detto il movimento più ispirato dei quattro. È sostanzialmente bitematico, ma con i due temi che hanno grande affinità. Dopo che il primo ha aperto, scendendo nei violini dalla dominante SIb sulla tonica, il secondo subentra imprevedibilmente, nel flauto, in DOb maggiore, salendo dalla dominante SOLb alla mediante MIb per poi degradare lentamente verso SIb. Dopo breve transizione è su questa tonalità che l’oboe ripropone il primo tema, che viene ripetuto dai legni. Violini contrappuntati dall’oboe, poi raggiunto dal flauto, espongono per due volte un motivo che sale di una settima, da dominante a sottodominante, per poi ripiombare velocemente sulla mediante (RE).

Un ostinato sforzato degli archi modula provvisoriamente a FA# maggiore dove i violoncelli ripropongono il secondo tema, poi ripreso dai violini e dai flauti in SI maggiore. Una transizione ci riporta al Sib e da qui al MIb dove torna il primo tema nei violini, poi nell’oboe, con il flauto ad accompagnare con veloci volate in semicroma. Ancora nei violini contrappuntati da flauto e oboe riappare per due volte il motivo che scala una settima per calare sulla mediante. Una coda di 12 battute chiude mirabilmente questo piccolo gioiello.

Ecco ora il Menuetto, Allegro molto, 6/4, DO minore. Ha una struttura e il piglio di uno Scherzo indiavolato. Come di prammatica presenta due sezioni (da ripetersi) di cui la seconda è un’estensione della prima. Quest’ultima inizia con il tema energico esposto dai violini, tema che ben presto sfocia sulla relativa MIb maggiore. La seconda sezione, più vasta, ripresenta il trema con diverse modulazioni: dapprima a REb e poi a DO maggiore. Il ritorno a DO minore sopraggiunge per chiudere questo pseudo-minuetto.

Il Trio - due sezioni da ripetersi più una terza - scende plagalmente alla sottodominante LAb maggiore, con un specie di corale di clarinetti e fagotti, che i flauti chiudono tornando a MIb. La seconda sezione riprende il motivo in REb per poi chiudere sul LAb. La terza sezione inizia (fagotti e flauti) degradando dalla settima abbassata (SOLb) alla dominante MIb. Qui arriva una sommessa transizione, protagonisti archi e... timpani (secondo molti osservatori: Beethoven Quinta) che ci riporta a DO minore: sono gli archi ad introdurre - a mo’ di rincorsa - il ritmo che prepara il ritorno al Menuetto (senza ripetizioni).

Il conclusivo Allegro con fuoco (4/4, DO minore) prosegue e conclude quest’opera in modo davvero ossessionante, esasperando se possibile l’atmosfera mozartiana del finale della K550. È in forma-sonata, quindi l’esposizione presenta due temi contrapposti: il primo è composto da due frasi, una concisa, da ripetersi, che riprende veloci discese degli archi già comparse nell’Allegro iniziale (e richiamate anche nel Menuetto) e chiude sul SOL; l’altra caratterizzata da tre lamenti dei clarinetti e chiusa dagli archi sul DO. Dopo la reiterazione, questa seconda frase viene sviluppata assai, riproponendo le discese negli archi e virando appropriatamente verso la tonalità di MIb minore. Chiude una melodrammatica discesa di clarinetto e fagotto verso il MIb maggiore, dove si presenta il secondo tema.

Tema curiosamente abbordato dai soli archi con un lungo pizzicato di 28 battute, dalla 13ma delle quali si modula a SIb maggiore, dove il clarinetto espone il suo tema; che poi, sul terminare del pizzicato degli archi, modula al MIb maggiore. E qui abbiamo - in luogo di un canonico sviluppo - un lungo passaggio dal cipiglio marziale, pare una pesante cadenza di fine opera, preannuncia il finale del futuro celebre concerto per violino, chiude su 5 trilli del flauto ma... vira repentinamente e sommessamente a DO minore, dove gli subentra sorprendentemente una fuga in piena regola! Evidentemente Bach era già ben presente nel mondo estetico del ragazzo, che 5 anni più tardi a Berlino riesumerà in modo spettacolare la Matthäus-Passion.

La fuga (in due sezioni) esplora principalmente le tonalità di SOL minore e poi MIb maggiore, chiudendo sul DO minore e sulla seconda parte della prima frase del primo tema, per preparare la ricapitolazione. Il primo tema viene ripresentato senza le due ripetizioni (11 battute in meno) e con un piccolo ulteriore taglio di 6 battute. Questa volta non modula a MIb, ma chiude sulla settima di dominante di DO minore dove riudiamo in clarinetto e fagotto, più il flauto, la caduta dalla sottodominante FA alla tonica DO. Riudiamo le battute in pizzicato degli archi che introducono il secondo tema, esposto ora in DO minore dal flauto, partendo dalla dominante SOL. Dopo una rapida escursione a LAb maggiore si torna a DO minore, con il passaggio marziale che porta alla ricomparsa della fuga, sempre nella tonalità di impianto, ma qui accorciata alla sola prima sezione.

Subitaneamente si passa da DO minore a DO maggiore (Più stretto) per la perorazione finale, 30 battute assai retoriche, tutte in ff (ma solo perchè ancora fff e ffff non erano stati inventati...)  

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Maiuscola la prova dell’Orchestra, che Chauhan ha impegnato allo spasimo, tenendo tempi serratissimi, come da copione. In compenso, dall’Andante ha saputo cavar fuori tutto il lirismo e la poesia che lo caratterizzano.

Anche lui ormai è un beniamino del pubblico e dell’Orchestra, che gli ha riservato un applauso ritmato, cui il giovane maestro ha risposto con parole di ammirazione e ringraziamento.

09 ottobre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°3

L’appuntamento di questa settimana è per un concerto idillico... A dirigerlo torna sul podio dell’Auditorium un giovane che vi aveva esordito nella scorsa stagione, meno di un anno fa: il Direttore Musicale della Toscanini di Parma, il bel (!) britannico Alpesh Chauhan.

Il pericolo nascosto nel programma del concerto è quello di... conciliare il sonno (!) Scherzo, naturalmente, ma mi riferisco alle dolci e cullanti ninna-nanna che mamme e nonne amorose canticchiano sussurrando ai bebè, e che hanno un effetto infallibile. Qui abbiamo tre brani che in tutto presentano si e no un paio di impennate, rimanendo per il resto su agogiche e dinamiche assolutamente riposanti. Due dei tre sono, di fatto o di nome, delle serenate; quello centrale è una... dichiarazione d’amore.

Wagner, Brahms, e in mezzo Webern: i due capi-fazione della musica del tardo ‘800 e uno dei rivoluzionari del primo ‘900, ma ancora, per così dire, con i calzoni corti, e quindi rispettoso dei sacri padri e caso mai loro solerte seguace.

Ed è proprio un brano che reca Idillio nel titolo quello che apre la serata: il wagneriano Siegfried-Idyll, della cui genesi ho già riferito (per bocca di Teodoro Celli) in questo precedente scritto. É un regalo di compleanno composto per una compagine domestica, quindi tipicamente Covid-compliant (haha!) perchè fatta di 8 fiati e 5 archi in tutto. Qui gli archi sono 23, 3 in eccesso (una viola, un cello e un basso) rispetto ai 20 prescritti da Wagner al momento di far stampare la partitura.

Insomma, qui ascoltiamo questo patchwork (in senso buono) dal terz’atto dell’opera quasi come lo udì, nuovo di zecca, la Cosima col piccolo in braccio, quel Natale svizzero del 1870. E l’Orchestra smagrita non ha deluso le attese, suono leggero, etero e dinamiche che Chauhan ha mantenuto sempre contenute, anche nel passaggio più eroico, quello che evoca il Siegfried erede della potenza del mondo.

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Adesso i fiati restano lì seduti a riposare, mentre i 23 archi ci propongono un inaspettato (perchè... diatonico!) Anton vonWebern, con il suo Langsamer Satz, composto originariamente (1905) per quartetto d’archi e poi arrangiato (1995) per ensemble - così lo si esegue qui - da Gerard Schwarz. Per curiosità, questo era uno dei brani eseguiti al Quirinale il 1° giugno di quest’anno - unico spettatore, il Presidente Mattarella - dagli strumentisti dell’Opera di Roma diretti da Daniele Gatti per accompagnare la fine del famigerato lockdown (e - coi numeri di questi giorni - tocchiamo tutto ciò che c’è da toccare per scongiurarne la recidiva!)  

Tornando a bomba, erano tempi in cui un tale Hanslick era appena stato seppellito, ergo la musica aveva finalmente il permesso di recapitare all’ascoltatore sensazioni, stati d’animo, immagini, gioie-dolori o anche incubi, insomma: musica a programma! Ora, questo pezzo, rimasto nel cassetto per 50 anni e pubblicato abbondantemente dopo la morte di Webern, non reca indicazioni programmatiche semplicemente perchè esse furono affidate ad un tweet (!) dell’Autore (allora poco più che ventenne) che informava del suo stato d’animo salito al settimo cielo (accanto alla mia amata, ...totalmente in armonia con l'universo) durante un trekking nella pace idilliaca di boschi e prati, insieme ad amici e in particolare alla cugina Wilhelmine, sua futura moglie, della quale era perdutamente infatuato.

Sul piano musicale, non si sbaglia sospettando che l’ispirazione per questo movimento di quartetto sia venuta a Webern dalla Verklärte Nacht del suo insegnante Schönberg, che gli aveva assegnato dei compiti-a-casa. Il brano è persino pre-atonale, come certifica anche la presenza di accidenti-in-chiave (3 bemolli, salvo una parentesi senza accidenti). Ecco, siamo ancora in pieno fervore tardo-romantico, pur con venature espressioniste, e la glacialità della dodecafonia dovrà aspettare parecchio... Non saprei dire se si tratti di pura coincidenza, o se Webern lo abbia fatto di proposito, ma l’attacco del brano (DO minore che vira rapidamente a MIb maggiore) mi ricorda Rossini (Mosè) e la frase Pietà de’ figli tuoi, del popol tuo pietà, che parte in SOL minore e sfocia in SIb maggiore. Ebbene, Webern è più diatonico di Rossini: la sua frase percorre inizialmente tutte e sette le note della scala di DOm-MIbM e solo più avanti introduce qualche alterazione cromatica; mentre Rossini ne introduce una (una quarta eccedente) già sulla quinta nota della melodia!

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Ora è il momento di seguire una pregevole esecuzione della versione originale, proposta dall’indimenticabile Quartetto Italiano. La figura riporta i principali temi e motivi del brano:

Lo specchietto qui sotto reca invece i principali traguardi dell’esecuzione proposta, che possono orientare la comprensione della struttura del brano, che si presenta come una forma-sonata assai liberamente interpretata, con un’esposizione di tre temi e una successiva ripresa che si tinge anche di sviluppo, prima della coda conclusiva:

Qui invece è il trascrittore che dirige il suo lavoro per ensemble di archi.

Come si nota, il centro tonale del brano è costituito dalla coppia di relative DOm-MIbM, tonalità che, fin dalla seconda battuta, sembrano fondersi e trascolorare l’una nell’altra; ma poi troviamo frequenti modulazioni o brevissimi incisi anche verso tonalità lontane: una testimonianza dell’omaggio che il giovane Webern tributa alla tradizione tardo-romantica cercando al contempo di spingersi oltre, come dimostra anche la distorsione della forma-sonata, che Webern porta all’estremo con il contemporaneo Quartetto.

Un’esecuzione, quella dei 23 alfieri de laVerdi guidati da Dellingshausen, che mi sentirei di definire davvero eccellente, per la pulizia di suono e - grazie ai tempi staccati da Chauhan, mai troppo letargici - per il giusto grado di pathos che emana da ogni battuta di questa partitura giovanile. 

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Ha chiuso la serenata la Serenata Op.16 di Brahms. È il secondo approccio a questo genere musicale che servì al burbero amburghese (con l’altra Serenata Op.11 e il primo Concerto per piano Op.15) a prendere le misure alla Sinfonia, cui approderà tre lustri dopo e ormai lungo-barbuto (!)

Particolare curioso: alla sezione degli archi mancano proprio i violini (!) che forse Brahms temeva schiarissero troppo il colore del brano, che lui evidentemente voleva morbido, ombroso e discreto. E in effetti, a differenza della prima, questa Serenata ha un tono dimesso, intimistico, che nemmeno lo Scherzo altera troppo, e dove solo il Finale si anima un poco, ma proprio poco.

Rientrati quindi a casa anzitempo i violinisti, le viole, che stavano prima al proscenio, si sono trasferite sulle sedie (opportunamente sanificate, come i leggii, non si sa mai!) dei secondi violini, cosicchè il proscenio è rimasto occupato da sole sedie vuote... Il che non ha per nulla guastato l'impasto sonoro fra i fiati - che fanno la parte del leone in questa partitura - e gli archi guidati dall'ottimo Gabriele Mugnai.  


Successo caloroso - e meritatissimo! - per strumentisti e Maestro.

16 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°7


Cambio volante di direzione per il settimo concerto de laVerdi: assente-il-residente (!?) Bignamini, lo sostituisce un giovane che con la Brexit ha trovato un impiego non lontano da qui, che risponde al nome di Alpesh Chauhan, 29enne albionico ma con evidenti ascendenze afro-indiane.

Programma piuttosto insolito, essendo costituito da quattro brani dello stesso genere (poema sinfonico o giù di lì, tutti fra i 15 e i 20 minuti di durata) che rischia quindi di apparire un filino monotono, un po’ come un menu articolato su quattro portate di soli formaggi (!!) per di più di due soli produttori. E quattro lavori che si chiudono in tragedia o comunque... al cimitero! Alle estremità due vicende d’amore impossibile e quindi votato ad una inevitabile brutta fine (come quella dell’Autore... Ciajkovski); all’interno due esempi di esistenze a loro modo scapestrate e destinate a chiudersi anzitempo (qui l’Autore - Strauss - invece fa il becchino...)

A metà degli anni ’50 (dell’800) Franz Liszt aveva inventato (insomma... perfezionato) il genere musicale del poema sinfonico, con la sua serie di 13 lavori: l’idea programmatica era di evocare con la sola musica (Hanslick ne rimase orripilato) sensazioni, emozioni, pensieri, indotti da soggetti di natura (prevalentemente) letteraria: storie d’amore, avventure, e pure concetti filosofici. Berlioz già ci aveva osato anni prima con la sua Fantastique, e persino Beethoven (nella Pastorale) aveva minuziosamente dipinto in note usignoli, quaglie e cuculi!

Liszt fece proseliti ovunque (la moda del poema sinfonico contagiò molti altri compositori, da Dvorak a Franck, poi Sibelius e giù giù fino al ‘900 con Schönberg e Respighi) ma prima di tutto in Russia dove Ciajkovski (titolandoli, per distinguersi, fantasie) ne sfornò una mezza dozzina, due dei quali (fine anni ’80) vengono presentati in apertura e chiusura del concerto. Poi, a partire da una decina d’anni dopo il russo, fu Richard Strauss a prendere decisamente il testimone da Liszt con i suoi 7 Tondichtungen (poemi in suoni) cui si possono aggiungere, per far numero, le due Sinfonie a programma e la giovanile Aus Italien.
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Si inizia con 35 minuti di ritardo, causa... disastro ambientale. No, a Milano è piovuto, però non c’è (ancora) acqua alta, ma - come ha spiegato il general manager Jais - il fumo uscito dal camino di uno stabile adiacente all’Auditorium è stato risucchiato dal sistema di condizionamento ed ha invaso la sala. In effetti entrando si avvertiva ancora un vago odor di carbonella...

Poco prima si era anche appreso che il Direttore chiamato al posto di Bignamini (e chi, se non lui?) aveva letteralmente rovesciato l’ordine di esecuzione dei quattro brani (come ancora presentato nella locandina online). Potrei sbagliare, ma la nuova sequenza mette subito in tavola i vini più buoni (perlomeno i più noti) e poi (quando gli invitati sono ormai un po' brilli) quelli... un po’ meno (vedi l’usanza richiamata nella storia evangelica delle nozze di Cana, ma prima del miracolo!)

Quindi si parte con Romeo&Giulietta, una Ouverture-Fantasia che Ciajkovski, dedicandola a Balakiriev, produsse dapprima nel 1869 per poi rivederla abbastanza radicalmente nel 1879 e darle un definitivo ritocco nel 1880: e quest’ultima è la versione normalmente (anche qui) eseguita. Tempo fa mi ero preso la briga di sintetizzare le principali differenze fra le due versioni estreme, confrontandone le strutture e facendo riferimenti pratici a due esecuzioni: quindi rimando i curiosi a quel post.

Devo dire che il giovine Chauhan si è presentato nel migliore dei modi: gesto sobrio e bando alle gigionate, ma soprattutto grande maturità nell’interpretazione, impreziosita da alcune efficaci sfumature agogiche e dinamiche che si spiegano solo col fatto che il ragazzo deve aver studiato molto, oltre a possedere evidentemente un istinto che lo porta a valorizzare ciò che dirige. Al resto ovviamente ci pensano i ragazzi dell’Orchestra, che rispondono alla grande alle sue sollecitazioni.
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Dopo una tragedia amorosa, ecco una leggenda amorosa libidinosa, quella di Don Juan. C’è chi (per bocca di Leporello) lo dipinge come un RoccoSiffredi-ante-litteram (uno che ne scopa 1003 solo in Spagna) ma allo stesso tempo avanza seri dubbi sulle millanterie del burlador (in tutta l’opera della premiata coppia DaPonte-Mozart sfido chiunque a riscontrare una sola avventura andata-a-buon-fine!)

Strauss crede più alla leggenda (meglio: a Nikolaus Lenau...) che a Mozart, così il suo Don Juan sprizza esuberanza, vitalità, perenne ricerca dell'ideale femminino spinta – oltre l'erotismo - fino all'eroismo. Mirabili sono i due intermezzi amorosi (il primo in SI, l’altro in SOL maggiore) i corteggiamenti e gli abbandoni che vi sono disseminati, fino all’esplosione nei corni del tema eroico del Don.

Romantica fino all'estremo la conclusione dell'esistenza dell'eroe: quasi un tristaniano suicidio, sottolineato dal dissonante FA naturale delle trombe, poi dei corni, che cade sul MI, la tonalità del Don, che a sua volta va scemando, prima da maggiore a minore, per trovare pace sul MI all'unisono (archi in pizzicato, controfagotto, tromboni, tuba e timpano) delle due conclusive semiminime.

Qui Chauhan lascia libero sfogo alla lussureggiante orchestrazione di Strauss, certo che l’Orchestra saprà tenere i suoi tempi davvero indiavolati: ne esce un’esecuzione davvero trascinante, che il pubblico sottolinea con applausi convinti.
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Dopo l’intervallo arriva lo scapestrato Till Eulenspiegel (lo specchio del gufo?!) del 1895, dove Strauss fa un regalino al padre (famoso cornista) scrivendo quel tremendo passaggio che l’interprete deve suonare a freddo (battuta 6) e che prevede, dopo tre scalate apparentemente facili, un precipitare sulla triade di FA di quasi tre ottave, dal RE acuto al FA grave, oltretutto da suonarsi piano, il che non aiuta di certo...

Come in tutta la musica a programma, la pertinenza dei suoni con il programma è lasciata alla nostra capacità di giudizio, o alle nostre reazioni di fronte ai suoni medesimi, una volta che ci sia stato chiaramente spiegato da chi, cosa o quant’altro siano stati, quei suoni, ispirati al musicista.

Che l’assolo del corno, come quello più avanti del clarinetto in RE, ci sbozzino la personalità del burlone Till è concetto che arriviamo a condividere soltanto dopo che siamo stati informati della figura che sta dietro quelle note. Mai e poi mai – ignorando tale informazione – avremmo potuto sbottare, ascoltando di primo acchito quei temi: ma certo, come no! è quel mattoide di Till, lo si riconosce da lontano!

Insomma, sulla natura della musica aveva mille ragioni il tanto vituperato Eduard Hanslick, e se la musica a programma ci può piacere è solo - ed esclusivamente – quando è grande musica di per se stessa, alla faccia del programma!

Seguiamo le avventure del nostro burlone (sulla base dei commenti lasciati da Strauss) insieme al tardo Furtwängler con i Berliner.
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Anche questa, come tutte le storie e leggende, comincia con il famoso c’era una volta... Sono le prime 5 battute suonate dai violini, accompagnati da clarinetti e fagotti. E torneremo appropriatamente a sentirlo proprio alla fine della storia!

Ecco quindi (16”) il primo corno presentare il famoso tema in FA maggiore che dipinge la bizzarra e scanzonata personalità di Till. Tema subito ripetuto, poi variato nella chiusa dall’oboe, quindi dal clarinetto, ancora da fagotti, viole e celli, e infine portato al parossismo da tutta l’orchestra, che lo sigilla con tre schianti sulla sottodominante SIb e sulla dominante DO.

A 1’01” lo sberleffo del clarinetto ci dice che Till era un gran briccone! E subito (1’11”) ci vengono esposti altri motivi che lo caratterizzano. Un passaggio apparentemente innocente (2’28”) introduce la prima avventura del nostro, che attraversa di gran carriera a cavallo un mercato (3’02”) creando pandemonio fra le donne colà presenti, fuggendo quindi con gli stivali delle sette leghe.

Poi (3’25”) il nostro sembra rintanarsi in un nascondiglio, dal quale lentamente emerge per prepararsi ad una nuova bravata: travestito da prete (3’58”) proclama grazia e moralità. Ma la sua vera natura non tarda a rifarsi viva (4’31”) e subito dopo ecco un sinistro presentimento (4’47”, la premonizione) di ciò che gli verrà a costare questo dileggio della religione.

Adesso però (5’13”) il nostro si prepara ad una nuova avventura, questa volta di carattere sentimentale! Ecco quindi (5’19”) Till scambiare galanterie con belle ragazze e addirittura cadere innamorato! Il suo tema (5’41”) nel corno assume risvolti davvero romantici. Ma la ragazza del suo cuore non lo degna di attenzioni e così lui se la prende a morte, come mostra il montare protervo del suo tema, mentre lui giura (6’44”) di vendicarsi contro il mondo intero.

E con chi se la prende quindi? Con professori e pedagoghi (6’54”) rappresentati da un pedante motivo di fagotti e clarinetto basso. Till comincia (7’02”) con spezzoni del suo tema principale e poi del secondo a porre domande pretestuose per mettere in difficoltà i cosiddetti saggi, che rispondono con pachidermica quanto vuota prosopopea, finchè lui non li aggredisce (8’19”) con quattro abbaiate del suo secondo impertinente tema, coprendoli quindi di ridicolo (8’23”) con un gigantesco sberleffo!

Se ne va quindi (8’33”) fischiettando lungo la strada, per poi (8’45”) quasi svanire misteriosamente. Ora segue (9’16”) una pausa di tranquillità, un’oasi di pace nell’esistenza movimentata del nostro, il cui tema principale ritorna però (9’55”) stentoreo e quindi si riproduce continuamente, contrappuntato qua e là dal secondo, fino a sfociare (10’52”) in una grandiosa perorazione in corni e tromboni, con tempi assai dilatati. Successivamente (11’06”) ecco il tema ripreso dapprima quasi saltellando ma poi con un successivo crescendo di agitazione (e contrappunto del secondo tema) che porta ad un‘autentica orgia sonora chiusa (12’07”) dal ritorno tracotante del tema di Till-prete!

È la goccia che fa traboccare il vaso: adesso (12’12”) sarà la giustizia a fare il suo corso, e al povero Till poco serviranno (12’31”) piagnucolose giustificazioni, vanamente opposte ai reiterati, tremendi accordi dell’intera orchestra, trasformatasi in un’inesorabile e inflessibile corte. Torna a farsi sentire (13’21”) anche il tema della premonizione, che introduce le due battute dei fiati (13’40”) che annunciano, con una impressionante caduta FA-SOLb, la sentenza capitale. L’anima di Till se ne va con un ultimo svolazzo velleitario del clarinetto, cui segue la mesta cerimonia della composizione della salma.

Ecco (14’24”): c’era una volta... ripetono gli archi, variando sottilmente ma stupendamente la chiusa del motivo: all’inizio saliva da tonica a sopratonica e mediante (la storia sta per cominciare); adesso scende da mediante a sopratonica a tonica (la storia è finita). Ancora qualche battuta di commiato (14’37”) per ricordare sommessamente il poveretto che ha pagato a caro prezzo la sua sfrontatezza: ma in fondo, sembra dire (15’04”) il suo tema ormai reso innocuo, era soltanto un ragazzo...

Poteva finire qui, invece (15’23”) pare proprio che il bricconcello voglia ancora sbeffeggiare tutti anche dall’aldilà!
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Esecuzione davvero degna di encomio, senza una sola sbavatura, gratificata di unanimi consensi da parte del pubblico che non mostra segni di appagamento. 
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Si chiude la serata con Francesca da Rimini del 1876 che parecchi anni dopo (1914) verrà ripresa in melodramma verista da Riccardo Zandonai. Ma mentre il compositore novecentesco si varrà di D’Annunzio e relegherà Dante sullo sfondo dell’ispirazione originale, ignorando bellamente gironi infernali e connesse trombe d’aria per concentrarsi sulla scabrosa e trasgressiva, modernissima quanto antichissima vicenda terrena, Ciajkovski si cala proprio nella Commedia, per evocarci in musica precisamente i gironi infernali e la punizione meteorologica che laggiù ne subiscono i fedifraghi umani che si macchiarono di colpe contro la più bigotta delle morali...

Per una casereccia analisi dei contenuti del brano (con annesso esercizio di ascolto) rimando i curiosi a questo vecchio post del 2014, mentre riguardo all’esecuzione di ieri dirò che - a dispetto del carattere ostico della partitura - ne è uscita un’esecuzione apprezzabilissima, accolta da lunghi applausi per l’Orchestra e (anche ritmati) per il Direttore. Vuoi vedere che ha fatto anche lui il miracolo di Cana?!