Aldo Ceccato,
fresco-fresco di compleanno (sono 80 e davvero non li dimostra!) torna anche in
questa stagione sul podio de laVerdi.
Ma non per dirigervi il suo adorato Dvorak (chissà se finirà mai il ciclo delle
sinfonie…) bensì l’altrettanto amato Ciajkovski.
Programma fin
troppo corposo (qui si rischia davvero l’indigestione, anzi - per dirla con Hanslick - l’ubriacatura da vodka, smile!) con tre pezzi davvero
impegnativi per tutti: suonatori, direttore e… pubblico.
Apre la
serata Romeo e Giulietta, un pezzo che l’Orchestra conosce
praticamente a memoria. Ovviamente (si fa per dire…) trattasi dell’ultima
versione dell’opera, del 1880, licenziata dall’Autore 11 anni dopo la prima e
10 dopo la radicale revisione seguita alle critiche di Balakirev. In questa, dell’originale
Ciajkovski tenne buoni i due temi principali: la guerra Montecchi-Capuleti e l’amore Giulietta-Romeo.
Sostituì invece il corale di ingresso (che si può ricondurre a Frate Lorenzo) con un altro che
vagamente si richiama al tema dell’amore (con il quale si… sposa proprio alla
fine) e arricchì il brano di più contrappunto fra i temi principali. Nella
versione del 1880 venne ristrutturato solo il finale.
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A dispetto
dell’indicazione del titolo (Fantasia)
l’Ouverture si può (più o meno arbitrariamente) ricondurre ad uno schema di forma-sonata: una lunga introduzione, poi l’esposizione dei due temi principali (tonalità di SI minore e REb
maggiore); un breve sviluppo, basato
sul primo tema e su quello dell’introduzione; la ripresa, dove il secondo tema si adegua al primo (RE maggiore); e
una coda che chiude sulla tonalità
del primo tema.
Come detto,
una delle differenze sostanziali fra le due versioni è il corale introduttivo, come
si può notare a prima vista:
Nello
specchietto qui sotto ho (parecchio!) sintetizzato la struttura delle due
versioni (1 e 3) indicando le rispettive battute musicali e la successione dei temi.
Le colonne estreme rappresentano i tempi di esecuzione, come dedotti dalle interpretazioni
di Geoffrey Simon e di ValeryGergiev, accessibili sul tubo.
Come si
può notare (ovviamente più all’ascolto che dalla tabella!) a parte la maggior
lunghezza (il che vuol dire poco e nulla) la versione definitiva mostra tutta
la sua maturità rispetto alla sorella
più anziana, opera di un Ciajkovski più acerbo, anche se forse più spontaneo
(quindi anche… ingenuo?) ed esuberante.
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Ceccato,
accolto da un lungo applauso all’ingresso, e poi da un altro - seguito ad un auguri! emerso dalla platea quando già
stava dando l’attacco – non ci ha fatto mancare proprio nulla delle preziosità
di questa partitura, perfettamente assecondato dai ragazzi.
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A seguire la Mozartiana
(ultima delle quattro Suite) già eseguita
qui tempo fa dalla Xian. Pezzo quasi
di circostanza (l’anniversario del Don)
non è certo da catalogare fra le vette della produzione del russo, anche se non
vi manca la maestrìa e la grazia. Però (parere mio) Mozart è meglio valorizzato
da Ciajkovski nelle Rococò…
In ogni caso è
l’occasione per far fare un figurone alle prime
parti dell’Orchestra, chiamate ad interventi solistici di gran pregio.
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Chiude questa
interminabile kermesse ciajkovskiana
quella che io considero essere la più insincera
delle opere del russo: la Quarta sinfonia. Voglio spiegarmi: l’appellativo
di insincera non va riferito tanto al compositore (che quando compone non è né sincero,
né insincero, semplicemente – e più o meno felicemente – ispirato) quanto a tutto
l’alone di cui quest’opera è stata circondata da un’agiografia da strapazzo: il
Ciajkovski distrutto, nichilista e sull’orlo del suicidio, che avrebbe riversato
tutte le sue turbe esistenziali nella sinfonia. Penso invece che si tratti più semplicemente
di un’ispirazione pedantemente e velleitariamente tardo-romantica, per non dire decadente. Discorso analogo (per me,
almeno) vale per la Sesta di Mahler, tanto per intenderci. E proprio
come accadrà al boemo (sentire parecchi anni più tardi proprio nella carne i
morsi della dura realtà immaginati in tempi di vacche grasse) anche per
Ciajkovski il momento del vero redde-rationem
con il destino che bussa alla porta arrivò
ben 15 anni dopo, e la Patetica (quella
sì, come la Nona di Mahler) fu testimone
della ineluttabile chiamata.
Ceccato qui ha
– lo dico con la più grande simpatia! – abbastanza gigioneggiato, calcando la
mano su un materiale già di per sé zeppo di enfasi e di retorica. E proprio il
primo movimento è stato quello più penalizzato (selon moi…) da un approccio
francamente troppo ricco di prosopopea e di affettazione. Ci sono stati anche
momenti pregevoli, soprattutto la resa delle parti più… intimiste dell’opera,
ad esempio quelle dove sono protagonisti gli archi, inclusa la sezione in pizzicato del terzo tempo. Poi il travolgente
finale ha come sempre trascinato il pubblico all’entusiasmo.
Beh, come compleanno
credo che il buon Aldo se lo sia passato bene; e poi ha anche fatto lui un bel regalo
all’Orchestra, dirigendo a-gratis!
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