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19 marzo, 2025

Scala: Bruckner può aspettare…

Un’indisposizione di Riccardo Chailly ci ha mandato a meretrici (almeno per il momento) il privilegio di poter godere di una delle tradizionali primizie che il Direttore Musicale è solito propinarci: in questo caso la prima esecuzione italiana della Nona di Bruckner arricchita del Finale ricostruito (o forse… immaginato?) da John A.Phillips, sulla scia di altre analoghe fatiche di addetti ai lavori. [Chissà se saranno più fortunati a Reggio Emilia, dove l’evento è in programma per il prossimo 12 maggio.]

E così abbiamo dovuto accontentarci (ma chissà che non sia stata una fortuna!) di un sempre grande e sempre più… ieratico Myung-Whun Chung, che ci ha portato in paradiso con Schubert e Beethoven!

Un programma che, date le circostanze, è evidentemente stato approntato cercando innanzitutto di andare-sul-sicuro, minimizzando i rischi e quindi scegliendo due opere perfettamente familiari a Direttore e Orchestra e indubitabilmente gradite al vasto pubblico, che avrebbe potuto considerare la proposta originaria come rivolta a pochi (relativamente) addetti-ai lavori.

E così ci siamo goduti queste musiche che non rischiano mai di restare… sullo stomaco! Soprattutto se dirette ed eseguite in modo davvero impeccabile, per non dire eccellente. 


Il Maestro coreano si è presentato sul podio in tenuta da jogger, precisamente la stessa che indossava l’ultima volta che l’ho visto dirigere, la scorsa estate alla sagra riminese.

Il suo Schubert mi sentirei di definirlo proprio confuciano: un Allegro moderato con il primo tema dolente, sforzato, con corone puntate a dividere le frasi, poi l’Andante con moto quasi una catarsi, quella che i tedeschi chiamano Verklärung. Memorabile!

Il Beethoven della Settima più che una danza (copyright Wagner) è un viaggio nell’eros, direi. Nel quale spicca l’Allegretto, quasi una presa di fiato e di… recupero di energie vitali per precipitarsi nelle due restanti orge sonore.

Tifo da stadio per Chung, che ha chiamato il pubblico agli applausi per ogni sezione dell’Orchestra, che evidentemente ha condiviso con lui (e con noi!) questa emozionante serata. [Della serie: non tutto il male vien per nuocere.]


02 settembre, 2024

Chung e gli olandesi a Rimini.

La serie dei Concerti Sinfonici della 75ma Sagra Musicale Malatestiana è stata aperta ieri sera, nella monumentale cornice del Teatro Galli, dalla prestigiosa Concertgebouworkest diretta da Myung-whun Chung.

Ad aprire il programma è stata eseguita l’Ouverture del Freischütz di Carl Maria vonWeber, un’opera che deve essere assai cara al Maestro coreano, che ne diresse l’ultima apparizione alla Scala, nell’ottobre del 2017.

Si tratta di una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, incentrato sulla lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nell’arcano scenario della natura, a sua volta splendente, maestosa oppure oscura e minacciosa.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada alla seducente melodia in DO maggiore dei quattro corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. Essa si chiude però in modo minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

Compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando dal DO minore, che aveva occupato la scena, alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi, è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato dalla pia Agathe, e la sua nobile aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare il DO minore, con il truce motivo di Caspar, poi ricomparire Agathe, ora in SOL maggiore, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora al DO minore dei motivi di Max e Caspar, e poi ancora alla sinistra presenza di Samiel.

Dopo un drammatico, interminabile silenzio, una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, adesso in forma enfatica e trionfale, poi ancora ripreso a chiudere in gloria.

Strepitosa invero, e accolta da un uragano di applausi, l’esecuzione dei tulipani, che Chung ha guidato con il suo proverbiale (apparentemente distaccato) atteggiamento ascetico.

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Avrebbe dovuto toccare ad András Schiff di sedersi alla tastiera per interpretare quello che è comunemente ritenuto il più difficile dei cinque concerti beethoveniani: l’Op.58, in SOL maggiore. Purtroppo, il pianista ungherese ha dovuto dare forfait per improvvisa indisposizione, e così il suo posto è stato preso da un conterraneo del Direttore, il trentenne Seong-Jin Cho, vincitore nel 2015 del più prestigioso concorso pianistico del pianeta, quello intitolato a Chopin

E lui non ha mancato di dare la sua impronta fin dalle cinque battute con le quali si apre – nel silenzio generale – questo autentico capolavoro.

Per poi farsi un pisolino mentre l’orchestra suona da sola (per 68 battute!) i temi principali dell’esposizione.

Da qui però il simpatico quanto riservato Seong ha avuto modo di inebriarci con il suo tocco delizioso, facendo sgorgare dallo strumento mirabili cascatelle di note, culminate nella massacrante cadenza dell’iniziale Allegro moderato. Quasi espressionista la resa del centrale Andante con moto, e nuovamente liquido il conclusivo Rondò, che Chung ha accompagnato evitando eccessiva enfasi.   

Gran trionfo per lui, che ringrazia suonando, anzi sognando, un (Kinder) Schumann!

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Chiusura davvero in bellezza con Brahms e la sua ultima Sinfonia, l’Op. 90. Che Chung cesella da par suo, coniugando la severità del burbero amburghese con il suo confuciano distacco.

Ovazioni per il Maestro e per tutta la splendida Orchestra, che ci mandano a nanna (…) con un altro Brahms: la prima Danza magiara! 


12 settembre, 2019

MITO-2019 - Chung-Romanovsky agli Arcimboldi


Ieri sera il vasto anfiteatro degli Arcimboldi - riempito più di un uovo! - ha ospitato la Filarmonica scaligera per un concerto tutto russo. Sul podio il redivivo orientale-estremo Myung-Whun Chung e alla tastiera l’orientale-semplice (ma svezzato qui da noi, nel bolognese) Alexander Romanovsky.

É curioso ricordare il diverso atteggiamento tenuto (ai suoi tempi) verso i due brani in programma da tale Gustav Mahler. Il quale, nel 1911 a New York, si adoperò allo spasimo per ribadire il successo al nuovissimo Terzo concerto di Rachmaninov con la NY Philharmonic, un paio di mesi dopo la prima eseguita dalla NY Symphony con Damrosch sul podio. Lo stesso Autore (e interprete) rimase stupefatto dal rigore e dal perfezionismo di Mahler, che non esitò a strapazzare gli orchestrali, costringendoli ad un super-lavoro nelle prove per raggiungere l’eccellenza nell’esecuzione.

Ecco invece come lo stesso Mahler, nell’estate di 10 anni avanti, a Vienna, aveva descritto a Guido Adler la Patetica ciajkovskiana:

Si tratta di un lavoro superficiale e senza profondità. Anche il colore dovrebbe darci qualcosa di più di se stesso, altrimenti rimane un mero ornamento e polvere negli occhi! Osservandolo da vicino, non ne resta poi gran cosa. Questi arpeggi, che vanno dal grave all’acuto, queste concatenazioni armoniche insignificanti non possono dissimulare il vuoto e l’assenza di invenzione.

Apperò!
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Dopo il consueto pistolotto (in senso non salviniano!) della maestrina Gaia Varon, che è incorsa in un tipico lapsus da lateral-thinking (attribuendo l’idea di appiccicare alla Sesta il titolo di Patetica a Modest... ehm, Musorgski) il 35enne ukraino si è quindi cimentato con il famigerato Rach3, da lui caricato di tutto il possibile tardo-decadente-romanticismo, che da sempre suscita nel pubblico e nei critici ampie divisioni, fra ammiratori estasiati e detrattori nauseati. Ma il ragazzo (non sembra cambiato molto dal lontano 2001 quando si impose al Premio Busoni) ha una tal carica espressiva, coniugata con una innata modestia (temprata dagli anni duri che lui e famiglia passarono dopo l’emigrazione) da garantirsi un successo clamoroso e ripetute chiamate, alle quali risponde dapprima con un altro Rachmaninov e poi con un Bach... adulterato!      
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Chiusura quindi in grande con la Patetica, dove Chung ha avuto modo di smentire ampiamente il velenoso giudizio di Mahler, mettendo in risalto di questa ormai inflazionata partitura il carattere di sguardo-all’indietro (come sarà, ma guarda un po’ la nemesi, la Nona mahleriana) a ripercorrere una vita artistica accidentata e costellata di grandezze - lo spontaneo applauso arrivato alla fine dell’Allegro molto vivace ne è stato testimone - e di miserie, destinata inesorabilmente a chiudersi nel silenzio, dopo le ultime battute della triade di SI minore esalate dagli archi bassi, sull’indicazione Molto ritenuto (e non... Morendo, come la simpatica Gaia ha inventato, anche qui parlando di Mahler!)   

Pubblico entusiasta e prodigo di battimani e ovazioni per Direttore e Professori.

12 gennaio, 2019

Alla Scala sempre la stessa Traviata


È dal 1990 che La traviata che si rappresenta alla Scala è sempre la stessa: sì, certo, quella di Verdi. Ma io mi riferisco alla messa in scena da Liliana Cavani. Per dir la verità un’eccezione (ma proprio unica) si è registrata negli ultimi tempi: fu a SantAmbrogio del 2013 con la produzione del genio Tcherniakov (Gatti sul podio e Lissner alla soprintendenza). Poi già nel 2017 tornò quella che era stata impiegata in ben altre 8 stagioni (91-92-95-97-01-02-07-08) dopo quella dell’esordio.

Delle due l’una: o nei magazzini del teatro sono andate a fuoco le scene (ma anche i testi della sceneggiatura) del regista russo, oppure mi sa proprio che quella del 2013-14 non fosse una produzione destinata ad entrare nella storia...
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Ecco, sistemati rapidamente l’epicedio per Tcherniakov e l’epinicio per Cavani, vengo al sodo, cioè alla parte strettamente musicale della serata. Che ha avuto per protagonista Myung-Whun Chung, già da come si è presentato con il Preludio, attaccato con un ppppp quasi impossibile, e poi caratterizzato (in ciò farà il paio con l’altro preludio) da sapienti incertezze di agogica che sembravano descrivere l’instabilità fisica (e pure psichica) della protagonista.

La quale è Marina Rebeka da Riga, che mi è parsa progredire nel corso dei quattro quadri dell’opera, dopo un avvio non proprio impeccabile, compreso l’attacco del primo Sempre libera. Forse (e senza forse) erano per lei gli isolati ma chiari buh piovuti dalla seconda galleria all’uscita dopo il primo atto: certo, se motivati solo dall’assenza del famigerato MIb finale, allora sarebbe da buare il buatore. Non particolarmente memorabile anche l’interpretazione, un po’ carente di... carisma; tutto sommato una Violetta appena discreta, che però, come detto, è cresciuta via via e ha finito per meritarsi i consensi arrivati alla fine. Adesso, passata quasi indenne dalla rottura del ghiaccio, c’è da aspettarsi che possa solo migliorare ancora.   

Francesco Meli è invece un Alfredo ben centrato sul personaggio. Mi pare stia ultimamente un po’ esagerando con l’impiego della mezza-voce, voce che per il resto è sempre un piacere ascoltare.

Leo Nucci ormai ha l’età di... nonno Germont! Ma è un nonno che canta ancora come e meglio del figlio (cioè di Germont-padre, sia chiaro, non vorrei offendere Meli). Efficace anche (come sempre, del resto) la sua interpretazione, efficacia già manifestatasi all’entrata in scena, proterva e minacciosa. Così come il progressivo... ammorbidimento, fino al conclusivo mea-culpa.

Tutti gli altri - la Flora di Chiara Isotton, Douphol di Costantino Finucci, Grenvil di Alessandro Spina e Obigny di Antonio Di Matteo - su standard più che dignitosi, come quelli degli accademici Caterina Piva (Annina), Riccardo Della Sciucca (Gastone), Sergei Arbkin (Giuseppe) e Jorge Martiniz (domestico).

Tutto sommato, una compagnia bene assortita cui ha... tenuto compagnia il solito splendido coro di Bruno Casoni (anche qui dopo una partenza non centratissima).

Durante la recita applausi a scena aperta sempre piuttosto contenuti; alla fine e alle singole uscite invece il consenso è cresciuto e i protagonisti - compresa l’immarcescibile Liliana Cavani - hanno avuto la loro buona dose di applausi.  Per il Direttore, anche ovazioni e bravo! (pienamente meritati).

Che dire, questa è una di quelle proposte dove i rischi superano di gran lunga le speranze di successo; quando invece il successo (pur contenuto) arriva... la scommessa è vinta.

22 giugno, 2018

Fidelio redivivo alla Scala


La produzione che aprì a SantAmbrogio la stagione 14-15 viene ripresa in questo periodo alla Scala: dove ieri è andata in scena la seconda recita di Fidelio. Immutata ovviamente la regìa della Warner, che compie 17 anni (la regìa, of course...) mentre è tutto cambiato nei protagonisti canori e nella guida musicale. Sulla messinscena mi limito quindi a link-are il mio commento di allora, non avendo nulla da aggiungere o emendare; mentre ovviamente sarà da articolare diversamente, rispetto ad allora, il giudizio sulla resa musicale.

Parto da un’osservazione riguardo la scelta dell’Ouverture: Barenboim ai tempi aveva - scelleratamente, per me - rispolverato la Leonore 2, in base a considerazioni francamente peregrine e tipiche di chi vuol entrare nel Guinness-dei-primati in fatto di bizzarrìe. Orbene, l’ascetico Chung ha deciso diversamente, rimpiazzando la Leonore 2 con la più celebre (perchè immensamente migliore!) Leonore 3. Il che però rappresenta solo un mezzo passo in avanti: pochè si tratta pur sempre di un travisamento bello e buono della definitiva volontà di Beethoven, che compose l’Ouverture Fidelio e mai più tornò sui suoi passi, anche perchè l’opera, con quell’Ouverture, è entrata a pieno titolo nella storia della musica, prima ancora che nel repertorio di tutti i teatri del pianeta. Insomma, da Chung mi sarei aspettato più... rispetto, ecco.

A parte ciò, il Maestro coreano ha confermato tutta la sua classe, con una lettura ispirata, anche se non scevra (per i miei gusti) da taluni eccessi di sostenutezza che avevano caratterizzato anche quella di Barenboim. Da incorniciare comunque proprio due momenti di sospensione attonita dell’atmosfera: il quartetto del primo atto (Mir ist so wunderbar) e l’estatico passaggio del finale (O Gott! Welch’ ein Augenblick!) da far venire il magone. Ma tutto è stato degnamente proposto, dal coro dei prigionieri alla rabbrividente introduzione allo sfogo di Florestan, dalle violente esternazioni di Pizarro alle paternali di Rocco. Qualche riserva l’avrei proprio sull’Ouverture, dove il bilanciamento archi-ottoni mi è parso carente (a tutto sfavore dei primi). Per il resto l’Orchestra ha risposto bene, e come e meglio di lei ha fatto il Coro di Casoni, che è chiamato a finezze celestiali (nel primo atto) e poi a impervie scalate da sesto grado superiore nel finale, non meno impegnativo di quello dell’An die Freude.  

Note così-così sul fronte delle voci. La protagonista Leonore/Fidelio, Ricarda Merbeth, che avevo ascoltato a Torino nello stesso ruolo nel 2011, purtroppo non mi pare abbia fatto progressi da allora; e se sette anni fa era promettente, oggi, ahilei, sta cominciando a deludere: centri e gravi poco udibili e acuti sbracati, stessa impressione fattami un anno fa sempre a Torino in Isolde. Il suo marito salvato Florestan, al secolo Stuart Skelton mi ricorda (per l’origine australiana e il fisico, ma un po’ anche nella voce) tale Ian Storey che proprio a Torino aveva dignitosamente affiancato la Merbeth. Ieri si è onorevolmente guadagnato la pagnotta (quella che gli porta Leonore giù nella cisterna, perlomeno...)

Passabili i due personaggi leggeri dell’opera: la Marzelline di Eva Liebau, cui fanno difetto un po’ di decibel nell’ottava bassa, e il patetico Jaquino di Martin Piskorski, voce squillante e ben impostata. Il Rocco di Stephen Milling se la cava discretamente, facendo sempre emergere la sua voce autorevole in ogni circostanza (leggi: aria, terzetti, quartetti e concertati). Alla sua altezza anche il Pizarro di Luca Pisaroni: il basso-baritono venezuelano interpreta abbastanza efficacemente il ruolo del cattivone di turno, cui forse musicalmente fa proprio difetto un po’ di cattiveria in più...

Onesta la prestazione di Martin Gantner (il Ministro salvatore) e degne di menzione le brevi apparizioni solistiche dei due membri del Coro scaligero, il tenore Giuseppe Bellanca e il baritono Massimo Pagano

Che dire in conclusione? Qualcosa di meglio rispetto a 4 anni fa, ma niente da ricordare negli annali, ecco. Altra nota dolente: il teatro con vistosissimi vuoti. Per contro i rari-nantes non hanno fatto mancare applausi per tutti.

21 febbraio, 2018

Un Simone di routine alla Scala (gentilonizzata)


Ieri sera: Piazza Scala transennata come neanche a SantAmbrogio. Poliziotti adibiti a maschere-aggiunte cui mostrare il tagliando d’ingresso per poter avvicinarsi al teatro. Ohibò, ci si chiedeva: timori di attentato dinamitardo dell’ISIS? Minacce nucleari dei nord-coreani contro il direttore sud-coreano? Ma no, tutto a posto: c’è solo Gentiloni che, essendo capitato per caso a Milano per sostenere la candidatura di tale Gori a Governatore longobardo, si è fatto invitare dal tenutario-pro-tempore del teatro (tale Sala) nel Palco Reale, così, tanto per vedere l’effetto che fa.

Per la verità il nostro PM è sempre schivo e modesto, e pochi si sono accorti del suo ingresso alla chetichella nel suddetto Palco Reale (ci mancava pure che Chung attaccasse, per par-condicio, Fratelli d’Italia!) Così qualche adepto zelante ha pensato bene di fargli uno spot-tino elettorale. Quando, verso la fine, la regìa di Tiezzi (copiando il DonGiovanni di Carsen) prevede di collocare in quel palco privilegiato il Capitano che declama le sue tre righe di testo, ecco che un occhio-di-bue illumina a giorno il Capitano e, con lui, il  Premier! Evabbè, tanto qui la par-condicio è comunque salva, dato che il nostro è ben visto da (quasi) tutto  l’arco inciucionale costituzionale...
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In questi ultimi anni il corsaro Boccanegra ha infestato veleggiato nel vasto mare del Piermarini con frequenza pari almeno a quella registrata negli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso: ben quattro incursioni negli ultimi 8 anni (10-14-16-18). Si tratta della terza ripresa della produzione di Federico Tiezzi, che ha visto sul podio Barenboim, Ranzani e queste ultime due volte Chung. Quanto al protagonista, Domingo si è baritonizzato per le prime tre edizioni, Nucci ha cantato di sua natura nelle ultime tre. 

A parte Nucci, nel cast il decano di queste quattro programmazioni è Ernesto Panariello (Pietro) sempre sul pezzo dal 2010; lo segue Fabio Sartori (Adorno) che torna dopo il 2010 e il 2014; con lui i due accademici Luigi Albani (Capitano) e Barbara Lavarian (Ancella) già in pista nel 2014 e 2016; infine Krassimira Stoyanova (Amelia) e Dmitri Belosselskiy (Fiesco) tornano dopo il 2016. Esordiente il Paolo di Dalibor Jenis. Insomma, una squadra, almeno sulla carta, sufficientemente rodata. 

E ieri sera, alla quinta delle otto recite della stagione, l’affiatamento fra tutti (coro di Casoni e orchestra inclusi) ha prodotto un dignitoso risultato, che un pubblico non oceanico ha accolto con unanimi, pur non esagitati, applausi.

27 novembre, 2017

Un Ballo in gondola


La Fenice ha aperto la stagione 17-18 con una nuova produzione del Ballo verdiano, di cui ieri pomeriggio - sala piacevolmente affollata - è andata in scena la seconda recita. La prima, trasmessa venerdi da Radio3, (mi) aveva lasciato una discreta impressione, confermata nella sostanza dall’ascolto dal vivo.

Per l’occasione il sito web che pubblica i contenuti multimediali dell’Archivio Storico del Teatro ha reso disponibile una fulminante conferenza tenuta da Massimo Mila in occasione della produzione del Ballo del lontano 1971 (un breve estratto di essa è stato messo in onda durante il collegamento di Radio3): trattasi di un documento che chiunque voglia apprezzare in pieno quest’opera (invece di limitarsi a gustarla passivamente) dovrebbe ascoltare con attenzione.

E credo che farebbero bene ad ascoltarlo anche tanti registi che si esercitano ad inventare interpretazioni cervellotiche del soggetto di (Scribe-)Somma-Verdi. Per nostra fortuna non è il caso di Gianmaria Aliverta, che già in questa interessante intervista lasciava intendere come lui... intenda la messinscena di un’opera e in particolare del Ballo. Anche lui non si è sottratto alla tentazione di cambiare qualcosa nell’ambientazione, avanzando l’epoca di un paio di secoli (da fine-600 a fine-800) il che comporta inevitabilmente qualche disallineamento con il testo, ma senza stravolgerlo più di tanto, nè soprattutto adulterare i caratteri di fondo delle personalità dei protagonisti del dramma: insomma, una cosa meno pretenziosa ma in compenso molto meno perniciosa di questa.


I riferimenti al problema nero sono enunciati in teoria dal regista, ma in pratica si riducono a qualche moderato maltrattamento di un servitore proprio durante l’esecuzione del Preludio, per il resto rimangono... nella testa di Aliverta, ecco. Le scene di Checchetto e i costumi di Tieppo richiamano l’800 più che altro per qualche stars&stripes e per la fiaccola e la testa della Statua della Libertà, in grandezza quasi naturale (!) dove nel finale si appostano, a sinistra, i 7 elementi dell’orchestrina di archi che Verdi prevede sulla scena e, a destra, i due innamorati per l’ultimo addio, che verrà brutalmente interrotto da un colpo di pistola che Renato esplode proprio dalle scale che conducono alla fiaccola (evabbè).

Altre amenità riguardano il second’atto, dove in scena troviamo un luogo effettivamente lugubre, ma che ha più l’apparenza di uno scavo archeologico (a Boston evidentemente abbondano... !) e dove – per convincere lo spettatore che la figura dello zombie che si para dinanzi ad Amelia non sia un’allucinazione, ma invece un moribondo in carne ed ossa - Aliverta ci mostra un vero agguato di sicari che lasciano sul posto l’anonimo malcapitato. Comunque, cose infantili e tutto sommato perdonabili: come detto, c’è in giro di molto peggio.

La festa finale all’ombra dei pezzi di Statua è stata dignitosamente proposta dai movimenti coreografici di Barbara Pessina. Appropriato l’impiego delle luci di Barettin, forse discutibile la serie di fari accecanti posti sul fondo-scena nella fase cruciale del second’atto.
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Il cast di questa produzione fenicea è (in 4/5 dei ruoli principali, Ulrica l’eccezione) lo stesso che anni fa aveva cantato l’opera al Regio di Parma sotto l’esperta direzione di Gelmetti. Qui le redini sono state affidate al sommo Myung-Whun Chung, che ancora una volta non ha deluso le attese, con una lettura di altissimo livello ed una concertazione che non definisco perfetta solo per via di un paio di... coperture di voci.

Meli su tutti: non solo per la voce (di Pavarotti non ne son più nati...) ma anche per la sensibilità nel porgere le diverse anime del personaggio: qui spaccone e goliardico, là capo autorevole-illuminato, ma soprattutto poi innamorato sincero ed appassionato. La Lewis conferma di essere in crescita con una prestazione all’altezza: acuti ben portati (inclusa la salita al DO nel second’atto) a fronte di qualche centro meno efficace.

Il Renato di Stoyanov (che Aliverta-Tieppo dotano di parrucchino a coprire la naturale capigliatura di uomo di mezz’età, mah...) non incanta, ma nemmeno scontenta, ecco: la voce è solida e ben impostata, il suo eri tu porto con passione e varietà di accenti.

Le due donne co-protagoniste hanno ben meritato: la Gamberoni (che dice di voler appendere al chiodo il ruolo di Oscar) ha sciorinato agilità e brillantezza nei suoi interventi sbarazzini, oltre che una perfetta rispondenza al ruolo en-travesti, sempre di difficile interpretazione in un’opera del secondo ‘800. La maga-sibilla di Silvia Beltrami ha sciorinato sufficiente brutalità e protervia, coerenti peraltro con il ruolo e la musica che Verdi le appiccica addosso, evitando eccessive volgarità o forzature: in complesso una prestazione da accogliere favorevolmente.

I comprimari (Corrò, Lim e Denti) se la son cavata con onore, Giannino e D’Ostuni han fatto diligentemente le loro piccole parti. Benissimo il Coro di Moretti, compresi i piccoli di Diana D’Alessio, rispolverati per l’occasione.
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Che dire, in conclusione? Che la Fenice ha proposto aperture di stagione più eccitanti di questa? Forse, ma credo – parlo per me, ovviamente - che ci si possa accontentare.

18 ottobre, 2017

Chung esalta Weber alla Scala


Der Freischütz è arrivato ieri alla sua terza delle otto recite alla Scala, dove è tornato dopo quasi 20 anni di latitanza. Myung-Whun Chung, lo dico subito, è l’autentico artefice del successo di questa produzione.

Come per tutti i Singspiel (dal Ratto al Flauto, al Fidelio, e giù fino alla prima Carmen) anche qui nasce il problema di quanto parlato conservare, rispetto a quanto convenga buttare nel cestino. Mi pare che la scelta di questa produzione sia sostanzialmente equilibrata, conservando ciò che è assolutamente essenziale per la comprensione della vicenda, ed eliminando il superfluo. Al proposito è condivisibile la scelta (non è un’invenzione) di Chung riguardo l’inizio del terz’atto. Weber, forse con l’intenzione di creare uno stacco dopo l’infernale Wolfsschlucht che chiude l’atto secondo, ha previsto un’Entre Act brillante che anticipa quasi letteralmente lo Jägerchor che più tardi precederà il finale. Introduzione che è seguita da un lungo parlato, dove un paio di cacciatori si scambiano banali battute di carattere meteorologico (e queste per davvero sarebbero insopportabili) ma dove poi Caspar e Max discutono animatamente sulla distribuzione fra loro e l’impiego delle sette pallottole magiche fuse la notte precedente. Questa parte del dialogo è di fondamentale importanza per comprendere poi ciò che avverrà nel finale (la schioppettata di Max verso la bianca colomba che invece il diavolo Samiel indirizza a colpire Agathe, anzi... Caspar). Bene, Chung elimina l’Entre Act e l’intero parlato che segue, attaccando l’atto con la sublime melodia del violoncello solo che introduce la cavatina di Agathe. Quindi, per rimettere le cose a posto sul piano della comprensibiltà della vicenda successiva, piazza il breve incontro fra Caspar e Max subito prima dello Jägerchor.

La direzione del Maestro coreano è assolutamente di prima classe: forse, mi verrebbe da dire, fin troppo raffinata ed elegante anche in quei non pochi momenti in cui Weber – credo intenzionalmente – carica la musica (e i cori) di accenti piuttosto sbracati e colmi di rozzezza contadina. Ma in compenso il nitore e la trasparenza del suono sono precisamente da incorniciare!

Il Coro di Casoni, appunto, dà ancora una volta una prova della sua compattezza e del suo affiatamento, creando in modo brillante ed efficace sia le atmosfere villerecce che caratterizzano la vicenda, sia quelle da tregenda che accompagnano la spaventevole scena alla Gola del lupo.

Compagnia di canto bene assortita. Su tutti la Agathe di Julia Kleiter, davvero emozionante nelle sue due prove più impegnative: l’aria del second’atto e la cavatina che apre il terzo, lungamente applaudite. Con lei il convincente Caspar di Günther Groissböck, voce corposa e penetrante, perfettamente attagliata al sinistro personaggio.

Michael König è un dignitoso Max, a cui manca forse qualche decibel per meritare l’eccellenza. La voce è bella, squillante (la parte peraltro non mi pare proibitiva) ma appunto fatica a riempire il grande spazio scaligero. Sul suo piano metterei la Äennchen di Eva Liebau, le cui due fatiche solistiche (arietta del second’atto e romanza-aria del terzo) sono state superate onorevolmente, e quindi apprezzate dal pubblico.

Gli altri quattro comprimari (la cui presenza canora in scena è abbastanza sporadica) hanno pure ben meritato. Farei una menzione per Stephen Milling, imponente ed autorevole Eremita.

Alla fine il pubblico non oceanico ha riservato meritati applausi a tutti quanti.
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L’allestimento di Matthias Hartmann è improntato al minimalismo della scenografia (di Raimund Orfeo Voigt) accompagnato dalla bizzarrìa dei costumi della coppia Susanne Bisovsky e Josef Gerger. Efficaci le luci (a parte i profilati di neon, davvero ridicoli) di Marco Filibeck.

Un misto di kitsch e goliardia che ci può anche stare, data la natura del soggetto, che per la verità potrebbe prestarsi anche ad interpretazioni più profonde o magari intellettualoidi.

In definitiva, un ritorno alla Scala (almeno per quanto mi riguarda) assai gradito. 

10 ottobre, 2017

I tiratori tornano alla Scala


Alla Scala torna dopo quasi 20 anni di assenza Der Freischütz, unanimemente riconosciuta come il prototipo dell’opera romantica, tedesca ma non solo.

La prima apparizione dell’opera alla Scala risale al 1872 (50 anni dopo l’esordio tedesco) con il titolo Il franco cacciatore e con la traduzione dall’originale di Friedrich Kind fatta da Arrigo Boito (si noti l’esotico Freyschütz, di moda nell’800 e non solo in Italia):


Il titolo italiano non fu però farina del sacco di Boito, ma si trova già nella traduzione di Francesco Guidi (1843, Pergola di Firenze). Intanto: perchè franco? Escluso che vada inteso etnicamente, come francese, o francone (chè la vicenda si svolge in Boemia); ma neanche come schietto, o sincero (Max non pare proprio un tipo così irreprensibile). Si potrebbe allora interpretare come bravo, preciso, ma il nostro non sembra proprio tale, se deve ricorrere alla magìa per diventarlo. In realtà, se ci basiamo sul finale dell’opera, oltre che sulla traduzione letterale dal tedesco (dove frei sta per libero, ma viene usato nell’ambiente commerciale a significare franco-domicilio, porto-franco, etc.) il protagonista è franco nel senso di affrancato (sfuggito infatti all’esilio che gli aveva comminato il Principe). C’è poi chi – partendo dall’indizio delle pallottole magiche, frutto di diavoleria - azzarda che frei sia da interpretare come stregato, allucinato.

Poi: cacciatore non è certo la traduzione letterale di Schütz, che sta per tiratore (di doppietta) termine letteralmente più aderente al soggetto dell’opera, che tratta - più che di battute di caccia – di gare di tiro. Però da noi cacciatore è anche un termine militaresco, che denomina corpi di fanteria leggera esperti nel tiro, come ad esempio i bersaglieri...

E al proposito: il citato Francesco Guidi aveva precisamente tradotto il titolo come Il franco bersagliere (fantastico qui l’italianizzato De Weber: perchè non... Del Tessitore?):

 
E chissà se il Guidi, oltre ad impiegare un termine come da dizionario, abbia anche voluto rendere omaggio al corpo militare, formatosi proprio pochi anni prima.
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Quanto alla forma, l’opera è un classico Singspiel, con numeri musicali alternati a parlati, tipo Serraglio o Flauto o Fidelio, ecco. E quindi si ripropone il solito dilemma: quanto tagliare di ciò che non suona? Staremo a sentire (a proposito: Radio3 trasmette in diretta venerdi 13).

Sappiamo che Wagner fu un ammiratore entusiasta di Weber e in particolare del Freischütz, nei quali vedeva precisamente il creatore e la creazione di un teatro musicale autenticamente Deutsch... Tale fu la devozione che nel 1844 andò in Albione a riesumare le spoglie del Maestro morto lassù 18 anni prima, onde trasferirle in patria e dar loro una seconda, trionfale sepoltura! E gli rese poi omaggio improntando l’entrata del coro femminile della Wartburg nel Tannhäuser al Vivace con fuoco dell’aria di Agathe del second’atto.

Wagner è sinonimo di Leit-Motive e Weber ne fu certamente un pioniere, in specie con Euryanthe. Qui nel Freischütz c’è invece un piccolo ma significativo esempio di impiego reiterato di un motivo, poco più di un segno, di una traccia, quasi un’impronta che ricompare in momenti e contesti diversi e con diversi accenti: un piccolo tema con variazioni nascosto fra le pieghe di questo capolavoro.

Parto dalla coda, cioè dal terzo atto, e da quella celestiale aria di Agathe Und ob die Wolke sie verhülle, introdotta e poi accompagnata dalla calda melodia del violoncello. Ecco qui:

Le note riquadrate in rosso coprono un intervallo di nona (da dominante a sesta) con ricaduta sulla dominante: una cellula di una bellezza davvero sbudellante. E riappaiono più volte, nello strumento e nella voce, nel corso della cavatina.

Andando a ritroso al primo atto, ecco che ritroviamo quelle cinque note (tonalità a parte) a costituire l’incipit del 
Walzer, n°3, come certificato di seguito:

Certo, mentre con Agathe eravamo in un sognante adagio, qui manca ogni indicazione agogica, così il walzer può essere attaccato con diverso piglio: abbastanza letargico per essere abbordabile da due solerti bambinette allieve di pianoforte nel Baden-Württemberg; oppure come un comodo Ländler dal compaesano Rafael Kubelik; o anche come una rincorsa di bersaglieri (toh!) dietro un indiavolato Carlos Kleiber! Sentiremo poi Chung...

Ma non finisce qui, perchè, con tempo ancora più lesto (Molto vivace) quella cellula era apparsa ancor prima, proprio alla fine del primo coro Victoria, Victoria! (qui Sinopoli a 59”):



Sì, va bene, qui la terzina iniziale è sull’arpeggio di dominante e non di tonica... ma di fatto è la stessa cellula (che appena dopo viene precisamente replicata) degli altri due riferimenti. 

Un discorso a parte merita l’Ouverture, che è una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa. Seguiamola dalla bacchetta del grande Giulini (che diresse l’opera alla Scala nel lontano 1955) qui con la New Philharmonia nel 1970.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada (1’04”) alla seducente melodia dei corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. La mirabile melodia si chiude però (2’39”) in DO minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

A 3’39” compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita (4’09”) dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che (4’48”) i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando da DO minore alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi (4’55”) è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce (5’33”) il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare (6’02”) il truce motivo di Caspar, poi (6’57”) ricomparire Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max (7’38”) e Caspar (7’55”) e poi (8’19”) ancora alla sinistra presenza di Samiel.

A 915 una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata (936) dal motivo di Agathe, ripreso ancora (1011) a chiudere in gloria.
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A parte queste spigolature, si tratta di un’opera che non ha perso la sua carica di vitalità e il fascino che continua ad esercitare sull’ascoltatore. Grazie - a dispetto di un libretto non entusiasmante - alla bellezza e all’ispirazione delle melodie (le arie di Agathe da sole meritano un monumento) che la percorrono da cima a fondo, agli squarci altamente drammatici che la caratterizzano (la gola del lupo...), alla grandiosità dei cori e alla lussureggiante orchestrazione (la scelta dei timbri, in particolare) ancor oggi esempio e riferimento assoluti.

Insomma, la grande musica c’è, quindi ci sono tutte le premesse per potersi godere anche un dignitoso spettacolo.

09 febbraio, 2017

Alla Scala ultime recite dell’ibrido Don


Ieri sera al Piermarini una delle ultime recite del nuovo (si fa per dire, essendo un altro auto-imprestito di Pereira da Salzburg) Don Carlo. Si tratta dell’ibrido 5-atti-in-italiano cui Verdi mai diede il suo imprimatur, ma che dalla comparsa originaria (1886, Modena) ha cominciato ad apparire saltuariamente sui vari cartelloni e con ulteriori varianti. Qui in Scala risale al 1977-78 l’ultima produzione di tale ibrido (diretta da Abbado) che però innestò sulla già di per se apocrifa versione-Modena (i quattro atti della versione ufficiale italiana, Scala 1884, a cui fu anteposto l’atto di Fontainebleau della prima parigina) anche parti che Verdi aveva tagliato già prima-della-prima (il preludio e coro dei boscaioli a Fontainebleau e il cordoglio di Filippo per Posa, divenuto in seguito il Lacrymosa del Requiem) e parti della versione francese che Verdi aveva deciso di omettere al momento di approntare quella ufficiale italiana (il Coro e il travestimento Elisabetta-Eboli che aprono il terzo atto – ma non, attenzione, la Peregrina! - il duetto Filippo-Carlo prima del Lacrymosa e il finale dell’opera con il coro dei Frati). Tutte le parti che non erano mai tradotte prima in italiano, lo sono state successivamente ad opera di Piero Faggioni. 

Di queste innovazioni qui Chung ha mantenuto soltanto l’inizio dell’opera e la scena iniziale del terz’atto (travestimento). Sull’opportunità di questi recuperi si discute da sempre, ma a registi e direttori non par vero di poter farsi belli inventando nuove combinazioni fra tutti i pezzi di questo meccano in cui le due versioni autenticate da Verdi (la prima di Parigi del 1867, in francese, e quella in italiano del 1884) sono state smembrate. Così, tanto per dire, nel 2008 il rigoroso Gatti si permise di resuscitare, nel Don in 4 atti, il Lacrymosa, che Verdi aveva ormai da tempo inserito nel Requiem...

Detto questo, aggiungo che trattasi di uno spettacolo complessivamente discreto, cui il pubblico (deprimente lo spettacolo di serie di palchi deserti...) ha tributato un’accoglienza calorosa, ma non entusiasta.

Sul piano musicale, Chung ha confermato la sua grande sensibilità, peccando però di eccessivo bandismo in alcuni momenti, col risultato di coprire irrimediabilmente le voci. Fra le quali voci spicca l’eterno, inossidabile Furlanetto, di gran lunga il più convincente. Benino anche l’Inquisitore di Kares, voce profonda senza essere sgradevolmente cavernosa, così come l’accademico Summer (Frate). Sui suoi standard, ma un poco appannato il Carlo di Meli, la cui voce mi è parsa meno squillante del solito. Una (mezza) delusione il Posa di Piazzola: il baritono veronese ha bella voce e bene impostata, ma ahilui non riesce a farla giungere appropriatamente in sala: così, salvo quando non si esibisca in perfetta solitudine e nel silenzio generale (vedi A me il ferro...) lui resta sepolto dalle altre voci (vedi terzetti e quartetti) e/o dal fracasso orchestrale. Convincente la Stoyanova, voce robusta nei centri e gravi, quasi da drammatico, e sufficientemente limpida negli acuti. Un filino sotto la Eboli di Semenchuk, un poco sfibrata negli acuti, comunque dignitosa in una parte impervia. A tutti gli altri una sufficienza... di gruppo. Benissimo come (quasi) sempre il coro di Casoni.

Regia minimalista (nelle scene, spoglie o... dozzinali) quella di Stein, che gioca con gli occhi di bue per illuminare i personaggi in una generale penombra (Atocha esclusa). Curato il lavoro sugli interpreti, che reagiscono bene (Furlanetto, che non ha bisogno di lezioni...) o benino (le due donne) o così-così (i due giovani). Costumi più o meno appropriati (compresi i pinocchi dell’autodafè, dove peraltro si raccontavano solo bugie...)

In definitiva, una proposta dignitosa e non di più.