Der Freischütz
è arrivato ieri alla sua terza delle otto recite alla Scala, dove è tornato
dopo quasi 20 anni di latitanza. Myung-Whun
Chung, lo dico subito, è l’autentico artefice del successo di questa
produzione.
Come per tutti i Singspiel (dal Ratto al Flauto, al Fidelio, e giù fino alla prima Carmen)
anche qui nasce il problema di quanto parlato
conservare, rispetto a quanto convenga buttare nel cestino. Mi pare che la
scelta di questa produzione sia sostanzialmente equilibrata, conservando ciò
che è assolutamente essenziale per la comprensione della vicenda, ed eliminando
il superfluo. Al proposito è condivisibile la scelta (non è un’invenzione) di
Chung riguardo l’inizio del terz’atto. Weber, forse con l’intenzione di creare
uno stacco dopo l’infernale Wolfsschlucht che chiude l’atto secondo, ha previsto un’Entre
Act brillante che anticipa quasi letteralmente lo Jägerchor che più tardi precederà
il finale. Introduzione che è seguita da un lungo parlato, dove un paio di cacciatori si scambiano banali battute di
carattere meteorologico (e queste per davvero sarebbero insopportabili) ma dove
poi Caspar e Max discutono animatamente sulla distribuzione fra loro e l’impiego
delle sette pallottole magiche fuse la notte precedente. Questa parte del dialogo
è di fondamentale importanza per comprendere poi ciò che avverrà nel finale (la
schioppettata di Max verso la bianca colomba che invece il diavolo Samiel
indirizza a colpire Agathe, anzi... Caspar). Bene, Chung elimina l’Entre Act e l’intero parlato che segue,
attaccando l’atto con la sublime melodia del violoncello solo che introduce la cavatina di Agathe. Quindi, per
rimettere le cose a posto sul piano della comprensibiltà della vicenda
successiva, piazza il breve incontro fra Caspar e Max subito prima dello Jägerchor.
La direzione del Maestro coreano è assolutamente di prima classe: forse, mi verrebbe
da dire, fin troppo raffinata ed elegante anche in quei non pochi momenti in
cui Weber – credo intenzionalmente – carica la musica (e i cori) di accenti
piuttosto sbracati e colmi di rozzezza contadina. Ma in compenso il nitore e la
trasparenza del suono sono precisamente da incorniciare!
Il Coro
di Casoni, appunto, dà ancora una
volta una prova della sua compattezza e del suo affiatamento, creando in modo
brillante ed efficace sia le atmosfere villerecce che caratterizzano la
vicenda, sia quelle da tregenda che accompagnano la spaventevole scena alla Gola del lupo.
Compagnia di canto bene assortita. Su
tutti la Agathe di Julia Kleiter,
davvero emozionante nelle sue due prove più impegnative: l’aria del second’atto e la cavatina
che apre il terzo, lungamente applaudite. Con lei il convincente Caspar di Günther Groissböck, voce corposa e
penetrante, perfettamente attagliata al sinistro personaggio.
Michael
König
è un dignitoso Max, a cui manca forse qualche decibel per meritare l’eccellenza. La voce è bella, squillante (la
parte peraltro non mi pare proibitiva) ma appunto fatica a riempire il grande
spazio scaligero. Sul suo piano metterei la Äennchen di Eva Liebau,
le cui due fatiche solistiche (arietta
del second’atto e romanza-aria del terzo)
sono state superate onorevolmente, e quindi apprezzate dal pubblico.
Gli altri quattro comprimari (la cui presenza
canora in scena è abbastanza sporadica) hanno pure ben meritato. Farei una
menzione per Stephen Milling, imponente
ed autorevole Eremita.
Alla fine il pubblico non oceanico ha
riservato meritati applausi a tutti quanti.
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L’allestimento di Matthias Hartmann è improntato al minimalismo della
scenografia (di Raimund Orfeo Voigt)
accompagnato dalla bizzarrìa dei costumi della coppia Susanne Bisovsky e Josef
Gerger. Efficaci le luci (a parte i profilati di neon, davvero ridicoli) di Marco Filibeck.
Un misto di kitsch e goliardia che ci può anche stare, data la natura del
soggetto, che per la verità potrebbe prestarsi anche ad interpretazioni più
profonde o magari intellettualoidi.
In definitiva, un ritorno alla Scala (almeno
per quanto mi riguarda) assai gradito.
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