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20 ottobre, 2017

La Resurreziona di Gatti alla Scala

 

Ieri sera Daniele Gatti ha diretto per la terza volta nel giro di pochi giorni l‘ipertrofica Auferstehungssymphonie di Gustav Mahler, che è tornata a risuonare nel Piermarini precisamente dopo 16 anni (Gergiev con i suoi del Marinski).   

No, nel titolo non c’è alcun refuso: è che Gatti ha - selon moi – esagerato un filino con la prosopopea mahleriana, ecco. Questi grandi affreschi musicali (è un vecchio titolo del 5° Canale della Filodiffusione) sono già di per sè problematici da digerire (richiedono all’ascoltatore non passivo un approccio da esercizi spirituali, con tanto di coinvolgimento razionale ed emotivo): perchè dietro le note ci sono filosofie, psicologie, idiosincrasie, velleità, ingenuità, sogni e incubi, insomma un coacervo di ingredienti che – se non dosati più che attentamente – rischiano di trasformare il grande affresco in una mappazza piuttosto dura da mandar giù.

Il primo ad avere una reazione di rigetto verso la Sinfonia, anzi precisamente verso la Totenfeier, che ne divenne in seguito il primo movimento, fu uno che di musica d’avanguardia (ai tempi) se ne intendeva parecchio ed anzi ne era un acceso fautore, a dispetto delle disavventure coniugali che ciò gli aveva procurato: parlo di tale Hans von Bülow, fanatico lisztiano e wagneriano che, ascoltando a fine settembre 1891 la Totenfeier suonatagli al pianoforte da Mahler (che fu suo vice ad Amburgo) diede letteralmente in escandescenze, esclamando: Se questa è musica, allora significa che io di musica non capisco più un accidente! Dopodichè Mahler, ironia della sorte, trasse l’ispirazione per il Finale della Sinfonia proprio dai funerali di Bülow, ascoltando il testo di Klopstock colà declamato!

Sappiamo che nella sua seconda Mahler, trasformando e arricchendo quella specie di poema sinfonico che era in origine la Totenfeier (una copia noir della contemporanea straussiana Tod und Verklärung) ha tracciato, per giustapposizione (apparentemente?) bislacca di altri 4 movimenti, un percorso che parte dalla morte dipinta come un evento senza... futuro, per poi arrivare – attraverso il riandare a fasi serene, ma anche cupe e/o grottesche, dell’esistenza terrena – fino allo spalancarsi della porta che dà sul... Paradiso! Beh, un programma velleitario per davvero, tipico del romanticismo tardo-decadente nei contenuti e ibrido nella forma (l’ostentata teatralità trasferita di peso nel mondo sinfonico): e il rischio quindi di eccedere in enfasi, retorica e kitsch è sempre dietro l’angolo.   

Ecco, la direzione di Gatti – sempre per me, ovvio – ha contribuito a far materializzare quel rischio, certo non in maniera clamorosa (per dire, Flor con laVerdi anni fa aveva fatto di peggio, ma lo stesso grande Lenny Bernstein ai suoi tempi non lesinava su gigionerie assortite...): vai a sapere se si è trattato di una scelta programmatica del Direttore (che nei recenti Meistersinger aveva invece lodevolmente adottato un approccio del tutto anti-retorico) o invece di un esito magari indesiderato, ma tant’è, questo è ciò che è arrivato alle mie orecchie. Ma anche al mio orologio, se è vero che, a fronte degli 80 minuti previsti dallo stesso Mahler come durata di riferimento, Gatti ha sforato di (minimo) 10 minuti (escludendo i più di 5 impiegati per far entrare il coro dopo la Totenfeier...)

In particolare a sembrarmi decisamente troppo sostenuti sono stati i due movimenti esterni, dove affettazione e magniloquenza degne francamente di miglior causa l’hanno fatta da padrone. Accettabile il Ländler e decisamente buona la predica di SantAntonio ai pesci, che è propriamente una parodia della serietà e come tale è stata suonata.

Le due voci coinvolte nell’avventura hanno dato il loro contributo emotivo alla sinfonia: in particolare la Christianne Stotijn con quel REb (maggiore) che attacca il Lied della rosellina, salendo dal DO (minore) del predicozzo ai pesci, primo passettino musicale che porterà alla fine al glorioso, religioso ed eroico MIb maggiore che accoglierà l’esito supremo della Resurrezione; e poi con la fede che ha messo – con la Miah Persson - in quel O glaube di parsifaliana ascendenza.

Poderoso, non solo nelle esplosioni finali, ma più ancora nel misterioso ppp all’attacco dell’Auf-er-steh’n, il Coro di Mario Casoni, sempre perfetto, nelle geniali sguaiatezze del Freischütz di queste stesse sere, come nelle retoriche perorazioni di Klopstock.    
  
Infine una nota di colore: Gatti si è portata sul leggìo – e l’ha sfogliata pagina dopo pagina – l’immensa partitura: niente di male in ciò, sia chiaro. Però io ricordo un Gatti che nel 2008 diresse alla Scala un Wozzeck e poi un intero Don Carlo a memoria, e poco tempo dopo, sempre qui, lasciò in camerino la tremenda partitura dello stravinskiano Sacre! (Domanda: scherzi dell’età... ?)

In ogni caso... sempre di Mahler si tratta – nel bene e nel male – e il pubblico che riempiva il Piermarini lo ha accolto con tripudio e ripetute ovazioni per tutti i Musikanten. Quindi una serata comunque positiva, di quelle che ti mandano a nanna facendoti dimenticare (per una notte almeno) le miserie quotidiane: renzi, vischi e boschi, per capirci... 

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