Ieri sera Daniele Gatti ha diretto per la terza
volta nel giro di pochi giorni l‘ipertrofica Auferstehungssymphonie di
Gustav Mahler, che è tornata a
risuonare nel Piermarini precisamente dopo 16 anni (Gergiev con i
suoi del Marinski).
No, nel titolo non c’è alcun refuso: è che Gatti ha - selon moi – esagerato un filino con la
prosopopea mahleriana, ecco. Questi grandi
affreschi musicali (è un vecchio titolo del 5° Canale della Filodiffusione)
sono già di per sè problematici da digerire (richiedono all’ascoltatore non
passivo un approccio da esercizi
spirituali, con tanto di coinvolgimento razionale ed emotivo): perchè
dietro le note ci sono filosofie, psicologie, idiosincrasie, velleità,
ingenuità, sogni e incubi, insomma un coacervo di ingredienti che – se non
dosati più che attentamente – rischiano di trasformare il grande affresco in
una mappazza piuttosto dura da mandar giù.
Il primo ad avere una
reazione di rigetto verso la Sinfonia, anzi precisamente verso la Totenfeier, che ne divenne in seguito il
primo movimento, fu uno che di musica d’avanguardia (ai tempi) se ne intendeva
parecchio ed anzi ne era un acceso fautore, a dispetto delle disavventure
coniugali che ciò gli aveva procurato: parlo di tale Hans von Bülow, fanatico lisztiano e wagneriano che, ascoltando a fine settembre
1891 la Totenfeier suonatagli al pianoforte da Mahler (che fu suo vice ad
Amburgo) diede letteralmente in escandescenze, esclamando: Se questa è musica, allora significa che io di musica non capisco più un accidente! Dopodichè Mahler, ironia della sorte, trasse l’ispirazione per il Finale della Sinfonia proprio dai
funerali di Bülow, ascoltando il testo di Klopstock colà declamato!
Sappiamo che nella sua seconda
Mahler, trasformando e arricchendo quella specie di poema sinfonico che era in origine la Totenfeier (una copia noir della contemporanea straussiana Tod und Verklärung) ha tracciato, per giustapposizione (apparentemente?) bislacca di altri
4 movimenti, un percorso che parte dalla morte dipinta come un evento senza...
futuro, per poi arrivare – attraverso il riandare a fasi serene, ma anche
cupe e/o grottesche, dell’esistenza terrena – fino allo spalancarsi della porta
che dà sul... Paradiso! Beh, un programma velleitario per davvero, tipico del
romanticismo tardo-decadente nei contenuti e ibrido nella forma (l’ostentata
teatralità trasferita di peso nel mondo sinfonico): e il rischio quindi di
eccedere in enfasi, retorica e kitsch
è sempre dietro l’angolo.
Ecco, la direzione di Gatti
– sempre per me, ovvio – ha contribuito a far materializzare quel rischio,
certo non in maniera clamorosa (per dire, Flor
con laVerdi anni fa aveva fatto di
peggio, ma lo stesso grande Lenny
Bernstein ai suoi tempi non lesinava su gigionerie assortite...): vai a
sapere se si è trattato di una scelta programmatica del Direttore (che nei
recenti Meistersinger aveva invece lodevolmente
adottato un approccio del tutto anti-retorico) o invece di un esito magari
indesiderato, ma tant’è, questo è ciò che è arrivato alle mie orecchie. Ma anche
al mio orologio, se è vero che, a fronte degli 80 minuti previsti dallo stesso
Mahler come durata di riferimento, Gatti ha sforato
di (minimo) 10 minuti (escludendo i più di 5 impiegati per far entrare il coro
dopo la Totenfeier...)
In particolare a sembrarmi
decisamente troppo sostenuti sono stati i due movimenti esterni, dove
affettazione e magniloquenza degne francamente di miglior causa l’hanno fatta
da padrone. Accettabile il Ländler e decisamente buona
la predica di SantAntonio ai pesci,
che è propriamente una parodia della serietà e come tale è stata suonata.
Le due voci coinvolte
nell’avventura hanno dato il loro contributo emotivo alla sinfonia: in
particolare la
Christianne
Stotijn con quel REb (maggiore) che attacca il Lied della rosellina, salendo dal DO
(minore) del predicozzo ai pesci, primo passettino musicale che porterà alla
fine al glorioso, religioso ed eroico MIb maggiore che accoglierà l’esito
supremo della Resurrezione; e poi con
la fede che ha messo – con la Miah
Persson - in quel O glaube di parsifaliana
ascendenza.
Poderoso, non solo nelle
esplosioni finali, ma più ancora nel misterioso
ppp all’attacco dell’Auf-er-steh’n,
il Coro di Mario Casoni, sempre
perfetto, nelle geniali sguaiatezze del Freischütz di queste stesse
sere, come nelle retoriche perorazioni di Klopstock.
Infine una nota di colore:
Gatti si è portata sul leggìo – e l’ha sfogliata pagina dopo pagina – l’immensa
partitura: niente di male in ciò, sia chiaro. Però io ricordo un Gatti che nel
2008 diresse alla Scala un Wozzeck e
poi un intero Don Carlo a memoria, e
poco tempo dopo, sempre qui, lasciò in camerino la tremenda partitura dello
stravinskiano Sacre! (Domanda:
scherzi dell’età... ?)
In ogni caso... sempre di Mahler si tratta – nel bene e nel male – e il
pubblico che riempiva il Piermarini lo ha accolto con tripudio e ripetute ovazioni
per tutti i Musikanten. Quindi una serata
comunque positiva, di quelle che ti mandano a nanna facendoti dimenticare (per
una notte almeno) le miserie quotidiane: renzi, vischi e boschi, per capirci...
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