XIV

da prevosto a leone
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14 dicembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.10

Un insolito accoppiamento caratterizza il decimo appuntamento della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano: ne sono protagonisti Händel e Mozart. Del quale ultimo ascoltiamo – siamo ormai sotto Natale! - la versione del Messiah in lingua tedesca, ottenuta per riorchestrazione (e modifiche varie) dell’oratorio originale in lingua inglese del primo.

Questa versione (di abbastanza rara proposta, forse perché trattasi di un… ibrido) intanto impiega - appunto - la lingua tedesca, facendo uso di testi della Bibbia di stampo luterano. Poi accoglie una delle diverse varianti che l’originale propone per alcune arie; muta talvolta l’assegnazione del pezzo solistico a voce diversa da quella impiegata dal compositore tedesco trapiantatosi in Albione.

Ma soprattutto arricchisce la compagine strumentale di suoni (soprattutto nella sezione dei fiati) ormai familiari e quasi irrinunciabili nella Vienna di fine ‘700, ma quasi assenti nell’originale di Händel. Il che peraltro – è Mozart, in fin dei conti! - non ne snatura affatto l’intima essenza. Però ieri (complice anche un’amplificazione - forse del continuo) la corposità del suono mi è parsa un tantino esagerata, ecco.

Christoph Koncz, cresciuto come violinista nei Wiener, ha guidato con autorevolezza la compagine de laVerdi e i quattro solisti SATB (Anna Prohaska, Chiara Tirotta, Ilker Arcayürek e Liviu Holender) tutti più o meno (più per la prima, meno per il terzo…) all’altezza del compito.

Al successo della serata, decretato a tutti da un pubblico calorosissimo, ha ovviamente dato un determinante contributo il Coro Sinfonico diretto da Massimo Fiocchi Malaspina. Si replica domenica 15, pomeriggio.


17 dicembre, 2023

Ruben Jais con laBarocca: Natale = Messiah

Il dimissionario Direttore Generale ed Artistico dell’Orchestra Sinfonica di Milano non ha voluto privare gli appassionati del suo tradizionale appuntamento natalizio con il monumentale Messiah di Händel. Sul palco, ai suoi comandi, l’ensemble strumentale e vocale (Jacopo Facchini, Maestro del Coro) de laBarocca, sua diretta creazione.

Negli anni Jais ha consolidato (apportandovi via via qualche variante) la sua personale struttura dell’oratorio da presentare al suo pubblico: eseguire l’integrale della prima parte così come pubblicata (da Friedrich Chrysander, inizio ‘900) seguito da un unico blocco della seconda e terza parte un pochino sfrondate, in modo da realizzare due sezioni più o meno equivalenti in termini di durata (60’ ciascuna). Ma ieri ha invece proposto l’intero corpus dell’opera (quasi 2h30’ di durata). Qui una mia succinta sinossi dell’opera.

I quattro solisti erano tutti maschietti (! e le quote rosa?!): il tenore Cyril Auvity e il baritono Renato Dolcini (già protagonisti di passate produzioni) cui si sono aggiunti i controtenori Mayaan Licht e Ray Chenez.

Auditorium letteralmente preso d’assalto, a dimostrazione che il barocco – se presentato come si deve – ha tuttora un seguito persino superiore al repertorio classico-romantico!

Successo strepitoso, premiato – come sempre – dalla riproposizione del trionfale Hallelujah!

12 novembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 7

Il 7° concerto di questa prima parte della stagione 21-22 (la seconda - gennaio-maggio ’22 - verrà annunciata martedi 16/11) propone, con qualche settimana di anticipo, il... Natale!

Quest’anno non è l’Orchestra della Fondazione ad esibirsi, ma l’Ensemble laBarocca del Direttore Artistico nonchè General Manager de laVerdi, Ruben Jais, con Luca Scaccabarozzi a dirigere il Coro.

Il Messiah è ormai un titolo consueto in Auditorium, ed anche la particolare impaginazione prevista da Jais (due sezioni di 60’ ciascuna: parte 1 integrale e parti 2+3 modicamente tagliate, con un solo intervallo) è diventata uno standard de-factu. (Nell’ormai lontano 2010 avevo proposto un bigino dell’opera, consultabile qui, dove sono anche indicate le parti omesse da Jais - con piccole differenze rispetto a oggi - circa 25’ sui 150’ complessivi.)

A parte Jais, la continuità con recenti presentazioni dell’opera è garantita dalla presenza del tenore Cyril Auvity (fin dal 2010) e del baritono Renato Dolcini. Il soprano Amanda Forsythe e il contralto controtenore Alex Potter completano il quartetto (SATB) delle voci.

Voci tutte all’altezza: la Forsythe per il suo timbro penetrante, Potter e Auvity per la nobiltà espressiva e Dolcini per la voce calda e la precisione nei passaggi più virtuosistici, culminata nel trascinante The trumpet shall sound, accompagnata dall’obbligato della tromba barocca di Simone Amelli, portatosi appositamente al proscenio per la circostanza. Coro (anzi... cori, 8 femmine e 8 maschi, posti come sempre ai lati della scena) in gran spolvero.

Auditorium (precauzionalmente ancora non al massimo della capienza nominale) assai affollato e pubblico prodigo di applausi per tutti. Non è ovviamente mancato l’ormai tradizionale (in omaggio alla patria del tradizionalismo...) bis dell’Hallelujah!

19 ottobre, 2019

Händel felicemente orfano della Cecilia


Ieri alla Scala è arrivato in Egitto Kuwait il Giulio Cesare di Händel, come sappiamo ormai da tempo orfano della sua tanto attesa Cleopatra, rimasta sdegnosamente a casa in compagnia di Semele (che si è fatta poi sostituire da... Agrippina) e Ariodante. Ciò non ha però fatto mancare il numero legale (di spettatori, nella fattispecie...): Piermarini con visibili vuoti in platea, ma al confronto con la prima di Quartett c’era un pienone... In ogni caso chi voglia apprezzare (o denigrare) la Cecilia-Cleopatra può sempre connettersi con youtube e vederle all’opera a Salzburg (con una regìa demenziale) compresi Antonini sul podio e Jaroussky come Sesto...
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Una prima osservazione riguarda i... tagli. L’opera (edizione originale del 1724) dura al netto circa 3 ore e 3/4. Con i due normali intervalli ci si avvicinerebbe a... Wagner. Ebbene, come già indicava la locandina online del Teatro, qui lo spettacolo ha quella durata, ma incluso intervallo: il che, conti alla mano, significa che dell’originale è stata tagliata circa mezz’ora. Magari con la lodevole intenzione di non far fare troppo tardi agli stoici spettatori accorsi nonostante tutto a teatro (oppure per esigenze registiche, o per entrambe le ragioni...) Ma ahinoi, a parte alcune parti in recitativo secco (e ci può stare) si tratta di tagli invero barbari, che ci privano di grande musica. I personaggi più penalizzati quantitativamente sono Achilla (che si perde due arie e l’intera scena della confessione dei suoi misfatti e del conseguente pentimento) e Cornelia (due arie in meno).

Nel dettaglio, scompaiono:

Atto I
- Aria n°9 di Cesare Non è sì vago e bello
- Aria n°10 di Cleopatra Tutto può donna vezzosa
- Seconda strofa (Qual sia di questo core) dell’aria n°13 di Cleopatra e ripresa della prima strofa (Tu la mia stella sei)
- Prima parte della scena XI con l’aria n°15 di Achilla Tu sei il cor di questo core

Atto II
- Seconda strofa (Se così Lidia vezzosa) dell’aria n°20 di Cesare e ripresa della prima strofa (Se in un fiorito ameno prato)
- Aria n°22 di Achilla Se a me non sei crudele
- Aria n°24 di Cornelia Cessa ormai di sospirare
- Seconda strofa (Mi sveglia all’ira) dell’aria n°31 di Sesto e ripresa della prima strofa (L’aura che spira)

Atto III
- Tutta la scena I di Achilla (aria n°32 Dal fulgor di questa spada spostata però nell’atto II, a fine della scena X)
- Confessione e morte di Achilla nella scena IV
- Aria n°38 di Sesto La giustizia ha già sull’arco
- Aria n°41 di Cornelia Non ha più che temere
- Seconda strofa (In me/te non splenderà) del duetto Cesare-Cleopatra n°43 (Caro/Bella Più amabile beltà)

Come si vede, ben sette arie cassate totalmente e altre tre in parte: una bella sforbiciata! Di conseguenza si opera un solo intervallo e, per non squilibrare troppo i tempi delle due parti, la pausa è posta all’interno del second’atto, ma non - come cita il libretto di sala - dopo il ricongiungimento Cornelia-Sesto (scena VI) ma assai prima, al termine della scena II, dopo l’aria n°20 (parzialmente tagliata) di Cesare.
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Un’altra considerazione riguarda gli interpreti: si sa che le parti di Cesare, Tolomeo e Nireno furono affidate in origine a (e quindi scritte per) contralti castrati, specie oggi lodevolmente estinta (almeno in ambito teatrale...) Ebbene, l’uso da qualche tempo invalso di impiegare dei controtenori (qui Mehta, Dumaux e Schifano) personalmente non mi convince del tutto: poichè la loro vocalità poco ha a che fare con quella potentissima (di cui esistono testimonianze concrete) dei castrati, che meglio è surrogabile - come si è quasi sempre fatto e spesso ancora si fa - con voci femminili, tipicamente di contralto. Qui - altra scelta discutibile - anche il ruolo di Sesto (in origine soprano en-travesti) è affidato ad un controtenore (Jaroussky). Insomma, si toglie l’en-travesti al personaggio per dirottarlo sulla voce!

Ma a parte queste considerazioni di principio, devo dire che tutti gli interpreti hanno mostrato grande padronanza dei rispettivi ruoli, a partire dalla Danielle de Niese, voce robustissima anche se spesso non tenuta adeguatamente a freno (mi riferisco alla tendenza a sbracare gli acuti a piena voce) e soprattutto alla Sara Mingardo, una Cornelia davvero perfetta, che non meritava lo scippo di due arie. Scippo subito anche dall’Achilla di Christian Senn, al quale però rimprovero (e non è la prima volta) un eccesso di forzature dei toni che finisce per compromettere una prestazione che sarebbe più che discreta. Oneste le figure di contorno e bene il coro di Casoni, impegnato poco (inizio e fine) ma sempre all’altezza. Giovanni Antonini si conferma solido interprete di questo repertorio e l’Orchestra barocca della Scala prosegue con successo il percorso di approfondimento di questo repertorio: impressionante in particolare lo schieramento di corni naturali.  
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Torno ora alla Mingardo per dire come già l’avessi apprezzata in Cornelia anni fa a Torino e per introdurre qualche considerazione sulla regìa di Robert Carsen. Non ripeto qui le premesse esposte proprio in occasione di quella produzione torinese, dove mettevo in evidenza le difficoltà che un regista creativo incontra con questo repertorio. Devo dire che Carsen, forte della sua esperienza, ha saputo metter su uno spettacolo godibilissimo senza minare la struttura e nemmeno i dettagli del soggetto originale.

L’ambientazione da subito pare spostata dall’Egitto al Golfo Persico, poichè si capirà alla fine che c’è di mezzo il petrolio (quasi introvabile nella terra dei Faraoni). Cesare potrebbe essere il generale Norman Schwarzkopf della guerra contro Saddam in Kuwait e Tolomeo uno sceicco troppo ambizioso che farà una brutta fine, lasciando spazio a colleghi di lui più accomodanti con gli yankee. Fin qui niente di nuovo sotto il sole, se è vero che il petrolio ha già sostituito persino l’oro in un Ring a Bayreuth!

Non manca qualche tocco di Kitsch, ma sempre contenuto entro i limiti del buon gusto. Un paio di cadute di tono e di stile (giudizio mio personale) nelle scene degli approcci di Tolomeo a Cornelia e poi dello stesso a Cleopatra, che sfiorano, pur senza valicarne i confini, la volgarità.

Carsen risolve, o cerca di risolvere, il problema capitale di come presentare le interminabili (quanto musicalmente divine!) arie col da-capo con invenzioni a volte geniali, altre un po’ meno. Ad esempio è strepitosa l’interpretazione dell’aria n°14 di Cesare (Va tacito e nascosto) nella scena IX del primo atto: trattandosi di un incontro diplomatico fra romani ed arabi, ecco che assistiamo ad un esilarante scambio di doni fra le due delegazioni, quella di Roma che porta preziosi oggetti targati FENDI e un pallone da calcio (Qatar-2022) e quella araba che reca capi d’abbigliamento locali e un’anguria!

Magistrale anche la resa della scena del Parnaso (aria n°19 di Cleopatra/Lidia V‘adoro, pupille) introdotta da immagini tratte da famosi film su Cleopatra. Un poco fredda l’ambientazione delle scene III e IV del second’atto (quelle del giardino): qui siamo in una palestra dove Cornelia lava il pavimento e dove Tolomeo canta l’aria n°23 (Sì, spietata, il tuo rigore) in cui Carsen rischia di cadere un po’ in basso, ecco... Come fa poi con l’aria n°34 (Domerò la tua fierezza) sempre di Tolomeo (scontro con Cleopatra, scena II del terz’atto).

Simpatica e intelligente la resa dell’aria di Cleopatra n°40 (Da tempeste il legno infranto) che comporta la presenza di una vasca da bagno in cui la principessa si immerge (come da leggenda) e ne esce, sempre schermata da un provvidenziale (o molesto, a seconda dei punti di vista...) lenzuolo retto dalle ancelle.

Anche Carsen però non sempre può tutto, e così spesso e volentieri si rifugia in... corner, o meglio in proscenio, dove relega il/la cantante per la conclusione di parecchie arie, calandogli/le alle spalle uno schermo, che serve anche a mascherare il cambio-scena. Sempre curata nei dettagli - ma qui il regista canadese è davvero un maestro - la recitazione di singoli e masse.

Alla fine ecco la sorpresa: i romani sono proprio... italiani! Barili di petrolio rossi e divise rosse di addetti alle trivellazioni recano un marchio inconfondibile: il cane cammello a sei zampe! Il coro finale vede un enorme oleodotto la cui saracinesca viene aperta da un romano e da un arabo e le due delegazioni (ENI e... Q8?) scambiarsi in pompa magna protocolli di accordo (e perchè non pensare, ehm, anche a qualche corposa mazzetta?)
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Grandissimo successo finale (dopo gli applausi seguiti sempre alle arie) con minuti e minuti di ovazioni per tutti indistintamente: complessi musicali e team di regìa.

Da non perdere! 

08 aprile, 2019

Xerxes a Modena


Al Pavarotti di Modena è andata in scena ieri la seconda recita del Serse di Händel, già collaudato a ReggioE. la scorsa settimana e in procinto di approdare a Piacenza la prossima e a Ravenna in futuro.

Queste 15 battute, che introducono l’arioso di Serse (Ombra mai fu...) sono con tutta probabilità - insieme alle 38 batture che seguono (appunto l’arioso) - fra le più conosciute di tutta la storia della musica. Ma la loro notorietà è pari soltanto alla totale ignoranza che il vasto pubblico ha dell’Opera in quanto tale, finita per due secoli nel dimenticatoio, dopo le rappresentazioni del 1738, ed ancor oggi di rara riproposizione.

Per di più, questo famoso ed orecchiabile brano viene suonato e cantato proprio all’inizio dell’Opera, col che fa l’effetto (scusate se scendo ai bassi livelli) di un’eiaculatio-precox (in latino suona meno volgare) dopo la quale seguono due ore e mezza di... noia.

No, effettivamente stavo un filino esagerando, e devo dire che i quasi 50 numeri che seguono (salvo tagli di prammatica) non sono certo da buttare alle ortiche: si tratta pur sempre di Händel, in fin dei conti! 

Il soggetto, tratto dal compositore da fonti non meglio precisate, anche se ipotizzabili, stanti alcuni precedenti lavori di compositori italiani del ‘6-‘700, è un risottone che non saprei se definire più ridicolo o deprimente. A leggere il titolo si sarebbe indotti a pensare ad un grande affresco storico, corredato da imprese guerresche, relazioni fra sovrani, atti di patriottismo (o di tradimento) e scenari consimili. E invece no, la trama tratta esclusivamente di complicati e contorti rapporti sentimentali fra due fratelli (Serse e Arsamene) e due sorelle (Romilda e Atalanta, figlie del comandante Ariodate) più una quinta incomoda (Amastre)... L’unico accenno a problematiche pubbliche riguarda un fantomatico ponte eretto a collegare Asia ed Europa, che però crolla miseramente sotto una tempesta (pare il Morandi, accidenti ai Benetton!) 

Lo schemino che segue sintetizza - semplificando al massimo - le relazioni sentimentali in essere; la tabella va letta entrando a sinistra sul personaggio e salendo in alto al personaggio relazionato: 


Serse
Arsamene
Romilda
Amastre
Atalanta
Serse


concupisce
promesso a

Arsamene


ama

concupito da
Romilda
concupita da
ama



Amastre
promessa a




Atalanta

concupisce




Le due coppie di celle colorate rappresentano la stabilizzazione finale dei rapporti interpersonali: come si nota, in questa particolare versione del gioco dei quattro-cantoni, è la povera Atalanta a restarci in mezzo, mentre quelle che si formano alla fine (Serse-Amastre e Arsamene-Romilda) sono le due coppie già di fatto destinate ad unirsi fin dall’inizio. In mezzo, la trama dell’opera presenta le azioni destabilizzanti di Serse e Atalanta e le mille peripezie - intrighi, falsi ideologici, calunnie, tentati suicidi e molte altre nefandezze, con qualche rara buona azione - che portano alla normalizzante conclusione. 
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La struttura musicale completa comprende complessivamente 51 numeri (più l’Ouverture e due Sinfonie) così distribuiti nei tre atti ai sette personaggi e al coro:


aria
arietta
arioso
duetto
recitativo
coro
tot
tot
Serse
2-2-2
1-0-0
1-1-0
0-2-0
1-0-0

5-5-2
12
Romilda
1-3-1
2-0-0
1-0-0
0-1-1
0-1-0

4-5-2
11
Arsamene
2-2-1

0-1-0
0-0-1


2-3-2
7
Atalanta
2-3-0
0-0-1
0-1-0



2-4-1
7
Amastre
1-2-0
0-0-1
1-1-0
0-1-0


2-4-1
7
Elviro

1-2-0
0-1-0



1-3-0
4
Ariodate  
1-0-1





1-0-1
2
Coro





1-1-2
1-1-2
4
tot
9-12-5
4-2-2
3-5-0
0-2-1
1-1-0
1-1-2
18-23-10
51
tot
26
8
8
3
2
4
51


La colonna dal titolo recitativo riporta soltanto il numero di recitativi accompagnati. Ma l’opera include anche una gran massa di recitativi secchi: 14, 15 e 8 rispettivamente, nei tre atti.

Dalla tabella si deduce come Serse e Romilda siano i personaggi più ricchi complessivamente di numeri, mentre le singole arie sono più equamente distribuite anche ad Arsamene ed Atalanta (5, come Romilda, contro le 6 di Serse): quanto alla loro struttura, su 26 totali, in ben 21 (7-10-4) è presente il classico da-capo.

Le voci. In assenza dei castrati, che spopolavano ai tempi di Händel, già dall’800 (vedi le edizioni critiche di Friedrich Chrysander) i ruoli dei fratelli Serse e Arsamene furono assegnati a voci femminili (soprani e/o mezzosoprani) en-travesti. E così avviene anche in questa produzione.

Lo specialista Ottavio Dantone (che - more solito - ha anche smanettato al clavicembalo, dirigendo spesso con le... spalle) ha sforbiciato non poco, a cominciare da un certo numero di recitativi secchi; poi, non avendo in cast il coro, ha eliminato 3 dei 4 brani ad esso assegnati, per fortuna recuperando l’ultimo (e anche il più corposo, che oltretutto sigilla il lieto-fine) affidato assai intelligentemente alle 7 voci soliste. Quanto ad arie e consimili ha effettuato i seguenti sconti ai cantanti: nel primo atto la seconda strofa e la ripresa dell’aria di Serse Più che penso; nel secondo un breve arioso di Atalanta (A piangere ogn’ora); poi ha soppresso la seconda strofa e il conseguente da-capo dell’aria di Atalanta Dirà che non m’amò; quindi l’arioso di Arsamene (Per dar fine alla mia pena) e la successiva aria (con da-capo) Sì la voglio; infine l’aria con da-capo che chiude l’atto (Chi cede al furore, di Romilda); nel terz’atto la seconda strofa e il da-capo dell’aria di Serse (Per rendermi beato).

Ecco perchè le circa 2h50’ nette di un’esecuzione integrale qui si riducono a 2h40’ includendo anche i 20 minuti dell’intervallo, il che significa almeno mezz’ora di musica lasciata per strada. Ma tanto avevo cominciato col dire che, dopo l’Ombra era tutta una noia, giusto? Ovviamente no, scherzavo e devo dire che questi tagli sono sempre dolorosi, anche se (e proprio perchè) ciò che si è suonato, cantato e ascoltato merita largo apprezzamento e giustifica ampiamente (almeno per le mie tasche) il costo di ingresso e trasferta.

La durata ridotta dello spettacolo ha suggerito ovviamente di dividerlo in due anzichè in tre parti: così l’unico intervallo si ha a circa metà del second’atto, dopo l’aria di Romilda (É gelosia). Al termine del primo atto solo una breve sosta, più che altro per consentire ai bravissimi strumentisti dell’Accademia Bizantina di rimettere a punto l’accordatura degli archi (che su strumenti d’epoca è sempre problematica).

Fra le voci metto su tutti la bravissima Monica Piccinini, una convincente Romilda, e con lei l’autorevole Serse di Arianna Vendittelli e il fratellino Arsamene di Marina De Liso. Ma bene han fatto anche gli altri quattro: efficaci i due bassi Luigi De Donato (Ariodate) e Biagio Pizzuti (che come Elviro fa anche il buffo...); discrete l’Atalanta di Francesca Aspromonte e l’Amastre di Delphine Galou (cui alzerei il voto se lei alzasse di più la... voce!)
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Gabriele Vacis firma la regìa, coadiuvato da Roberto Tarasco per scene, costumi e luci, e dal suo aiuto Danilo Rubeca. Contrariamente ad altre opere di barocco-magico, qui nel Serse c’è poca o nulla azione e nessun mirabolante avvenimento, se si esclude il crollo del famigerato ponte, di cui si fatica a giustificare la presenza (e infatti in questa produzione è convenientemente cassato).

Per di più la ridotta presenza (qui poi annullata del tutto) di cori priva il regista del classico strumento utile a movimentare la scena. Così la regìa diventa un’impresa non da poco, e Vacis ricorre ad una soluzione di fatto semi-scenica: orchestra sollevata quasi al livello del proscenio, dove sono schierati i cantanti che - invece di entrare e uscire dalle quinte come si fa di solito in caso di rappresentazioni in forma concertante - restano lì in bella vista, ma accomodati quasi fossero nei loro camerini, davanti a toilettes e specchiere.

La mancanza di azione viene affrontata facendo intervenire, ad un livello assai più alto (almeno 2 metri) rispetto al palcoscenico, dei ragazzi figuranti che riempiono lo spazio con movimenti e spostamenti di oggetti più o meno (soprattutto meno, direi) relazionati con ciò che i protagonisti si stanno raccontando in musica. Di tanto in tanto lo schermo che separa i cantanti da ciò che li sovrasta serve a proiettarvi immagini suggestive, come quella del gigantesco platano che Vacis ha scovato a Torino e che pare abbia precisamente la stessa età del Serse! 

Insomma, trovate se non altro poco invasive e disturbanti per ravvivare la scena. I simpatici costumi e l’efficace l’impiego delle luci hanno contribuito a rendere più che godibile lo spettacolo, accolto alla fine dai convinti applausi del pubblico che affollava il Pavarotti in ogni ordine di posti.