Al Pavarotti di Modena è andata in scena ieri la seconda recita del Serse di Händel, già collaudato a ReggioE. la scorsa settimana e in procinto di approdare a Piacenza la prossima e a Ravenna in futuro.
Queste 15 battute, che introducono l’arioso di Serse (Ombra mai fu...) sono con tutta probabilità - insieme
alle 38 batture che seguono (appunto l’arioso) - fra le più conosciute di tutta
la storia della musica. Ma la loro notorietà è pari soltanto alla totale
ignoranza che il vasto pubblico ha dell’Opera in quanto tale, finita per due
secoli nel dimenticatoio, dopo le rappresentazioni del 1738, ed ancor oggi di
rara riproposizione.
Per di più, questo famoso ed orecchiabile
brano viene suonato e cantato proprio all’inizio dell’Opera, col che fa l’effetto
(scusate se scendo ai bassi livelli) di un’eiaculatio-precox
(in latino suona meno volgare) dopo la quale seguono due ore e mezza di...
noia.
No, effettivamente stavo
un filino esagerando, e devo dire che i quasi 50 numeri che seguono (salvo
tagli di prammatica) non sono certo da buttare alle ortiche: si tratta pur
sempre di Händel, in fin dei conti!
Il soggetto, tratto dal compositore da fonti non meglio precisate, anche se ipotizzabili, stanti alcuni precedenti lavori di compositori italiani del ‘6-‘700, è un risottone che non saprei se definire più ridicolo o deprimente. A leggere il titolo si sarebbe indotti a pensare ad un grande affresco storico, corredato da imprese guerresche, relazioni fra sovrani, atti di patriottismo (o di tradimento) e scenari consimili. E invece no, la trama tratta esclusivamente di complicati e contorti rapporti sentimentali fra due fratelli (Serse e Arsamene) e due sorelle (Romilda e Atalanta, figlie del comandante Ariodate) più una quinta incomoda (Amastre)... L’unico accenno a problematiche pubbliche riguarda un fantomatico ponte eretto a collegare Asia ed Europa, che però crolla miseramente sotto una tempesta (pare il Morandi, accidenti ai Benetton!)
Lo schemino che segue sintetizza - semplificando al massimo - le relazioni sentimentali in essere; la tabella va letta entrando a sinistra sul personaggio e salendo in alto al personaggio relazionato:
Il soggetto, tratto dal compositore da fonti non meglio precisate, anche se ipotizzabili, stanti alcuni precedenti lavori di compositori italiani del ‘6-‘700, è un risottone che non saprei se definire più ridicolo o deprimente. A leggere il titolo si sarebbe indotti a pensare ad un grande affresco storico, corredato da imprese guerresche, relazioni fra sovrani, atti di patriottismo (o di tradimento) e scenari consimili. E invece no, la trama tratta esclusivamente di complicati e contorti rapporti sentimentali fra due fratelli (Serse e Arsamene) e due sorelle (Romilda e Atalanta, figlie del comandante Ariodate) più una quinta incomoda (Amastre)... L’unico accenno a problematiche pubbliche riguarda un fantomatico ponte eretto a collegare Asia ed Europa, che però crolla miseramente sotto una tempesta (pare il Morandi, accidenti ai Benetton!)
Lo schemino che segue sintetizza - semplificando al massimo - le relazioni sentimentali in essere; la tabella va letta entrando a sinistra sul personaggio e salendo in alto al personaggio relazionato:
Serse
|
Arsamene
|
Romilda
|
Amastre
|
Atalanta
|
|
Serse
|
concupisce
|
promesso a
|
|||
Arsamene
|
ama
|
concupito da
|
|||
Romilda
|
concupita da
|
ama
|
|||
Amastre
|
promessa a
|
||||
Atalanta
|
concupisce
|
Le due
coppie di celle colorate rappresentano la stabilizzazione finale dei rapporti
interpersonali: come si nota, in questa particolare versione del gioco dei quattro-cantoni, è la povera Atalanta a restarci in mezzo, mentre quelle che si formano alla fine (Serse-Amastre e
Arsamene-Romilda) sono le due coppie già di fatto destinate ad unirsi fin
dall’inizio. In mezzo, la trama dell’opera presenta le azioni destabilizzanti
di Serse e Atalanta e le mille peripezie - intrighi, falsi ideologici,
calunnie, tentati suicidi e molte altre nefandezze, con qualche rara buona
azione - che portano alla normalizzante conclusione.
___
La struttura musicale completa comprende complessivamente 51 numeri (più l’Ouverture e due Sinfonie) così distribuiti nei tre atti ai sette personaggi e al coro:
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La struttura musicale completa comprende complessivamente 51 numeri (più l’Ouverture e due Sinfonie) così distribuiti nei tre atti ai sette personaggi e al coro:
aria
|
arietta
|
arioso
|
duetto
|
recitativo
|
coro
|
tot
|
tot
|
|
Serse
|
2-2-2
|
1-0-0
|
1-1-0
|
0-2-0
|
1-0-0
|
5-5-2
|
12
|
|
Romilda
|
1-3-1
|
2-0-0
|
1-0-0
|
0-1-1
|
0-1-0
|
4-5-2
|
11
|
|
Arsamene
|
2-2-1
|
0-1-0
|
0-0-1
|
2-3-2
|
7
|
|||
Atalanta
|
2-3-0
|
0-0-1
|
0-1-0
|
2-4-1
|
7
|
|||
Amastre
|
1-2-0
|
0-0-1
|
1-1-0
|
0-1-0
|
2-4-1
|
7
|
||
Elviro
|
1-2-0
|
0-1-0
|
1-3-0
|
4
|
||||
Ariodate
|
1-0-1
|
1-0-1
|
2
|
|||||
Coro
|
1-1-2
|
1-1-2
|
4
|
|||||
tot
|
9-12-5
|
4-2-2
|
3-5-0
|
0-2-1
|
1-1-0
|
1-1-2
|
18-23-10
|
51
|
tot
|
26
|
8
|
8
|
3
|
2
|
4
|
51
|
La
colonna dal titolo recitativo riporta
soltanto il numero di recitativi
accompagnati. Ma l’opera include anche una gran massa di recitativi secchi: 14, 15 e 8 rispettivamente, nei
tre atti.
Dalla tabella si deduce come Serse e Romilda siano i personaggi più ricchi complessivamente di numeri, mentre le singole arie sono più equamente distribuite anche ad Arsamene ed Atalanta (5, come Romilda, contro le 6 di Serse): quanto alla loro struttura, su 26 totali, in ben 21 (7-10-4) è presente il classico da-capo.
Dalla tabella si deduce come Serse e Romilda siano i personaggi più ricchi complessivamente di numeri, mentre le singole arie sono più equamente distribuite anche ad Arsamene ed Atalanta (5, come Romilda, contro le 6 di Serse): quanto alla loro struttura, su 26 totali, in ben 21 (7-10-4) è presente il classico da-capo.
Le voci. In assenza dei castrati, che spopolavano ai tempi di Händel,
già dall’800 (vedi le edizioni critiche di Friedrich
Chrysander) i ruoli dei fratelli Serse e Arsamene furono assegnati a voci
femminili (soprani e/o mezzosoprani) en-travesti.
E così avviene anche in questa produzione.
Lo specialista Ottavio Dantone (che - more solito - ha anche smanettato al
clavicembalo, dirigendo spesso con le... spalle) ha sforbiciato non poco, a
cominciare da un certo numero di recitativi secchi; poi, non avendo in cast il
coro, ha eliminato 3 dei 4 brani ad esso assegnati, per fortuna recuperando l’ultimo
(e anche il più corposo, che oltretutto sigilla il lieto-fine) affidato assai intelligentemente
alle 7 voci soliste. Quanto ad arie e consimili ha effettuato i seguenti sconti
ai cantanti: nel primo atto la seconda strofa e la ripresa dell’aria di Serse Più che penso; nel secondo un breve
arioso di Atalanta (A piangere ogn’ora);
poi ha soppresso la seconda strofa e il conseguente da-capo dell’aria di Atalanta
Dirà che non m’amò; quindi l’arioso
di Arsamene (Per dar fine alla mia pena)
e la successiva aria (con da-capo) Sì la
voglio; infine l’aria con da-capo che chiude l’atto (Chi cede al furore, di Romilda);
nel terz’atto la seconda strofa e il da-capo dell’aria di Serse (Per rendermi beato).
Ecco
perchè le circa 2h50’ nette di un’esecuzione integrale qui si riducono a 2h40’
includendo anche i 20 minuti dell’intervallo, il che significa almeno mezz’ora di
musica lasciata per strada. Ma tanto avevo cominciato col dire che, dopo l’Ombra era tutta una noia, giusto? Ovviamente
no, scherzavo e devo dire che questi tagli sono sempre dolorosi, anche se (e
proprio perchè) ciò che si è suonato, cantato e ascoltato merita largo
apprezzamento e giustifica ampiamente (almeno per le mie tasche) il costo di
ingresso e trasferta.
La durata ridotta dello spettacolo ha
suggerito ovviamente di dividerlo in due anzichè in tre parti: così l’unico
intervallo si ha a circa metà del second’atto, dopo l’aria di Romilda (É gelosia). Al termine del primo atto
solo una breve sosta, più che altro per consentire ai bravissimi strumentisti
dell’Accademia Bizantina di rimettere
a punto l’accordatura degli archi (che su strumenti d’epoca è sempre problematica).
Fra le voci metto su tutti la bravissima
Monica Piccinini, una convincente
Romilda, e con lei l’autorevole Serse di Arianna
Vendittelli e il fratellino Arsamene di Marina
De Liso. Ma bene han fatto anche gli altri quattro: efficaci i due bassi Luigi De Donato (Ariodate) e Biagio Pizzuti (che come Elviro fa anche
il buffo...); discrete l’Atalanta di Francesca Aspromonte e l’Amastre di Delphine Galou (cui alzerei il voto se
lei alzasse di più la... voce!)
___
Gabriele
Vacis
firma la regìa, coadiuvato da Roberto Tarasco
per scene, costumi e luci, e dal suo aiuto Danilo
Rubeca. Contrariamente ad altre opere di barocco-magico, qui nel Serse c’è poca o nulla azione e nessun mirabolante
avvenimento, se si esclude il crollo del famigerato ponte, di cui si fatica a giustificare
la presenza (e infatti in questa produzione è convenientemente cassato).
Per di più la ridotta presenza (qui poi
annullata del tutto) di cori priva il
regista del classico strumento utile a movimentare la scena. Così la regìa
diventa un’impresa non da poco, e Vacis ricorre ad una soluzione di fatto semi-scenica: orchestra sollevata quasi
al livello del proscenio, dove sono schierati i cantanti che - invece di
entrare e uscire dalle quinte come si fa di solito in caso di rappresentazioni
in forma concertante - restano lì in bella vista, ma accomodati quasi fossero
nei loro camerini, davanti a toilettes e specchiere.
La mancanza di azione viene affrontata
facendo intervenire, ad un livello assai più alto (almeno 2 metri) rispetto al
palcoscenico, dei ragazzi figuranti che riempiono lo spazio con movimenti e
spostamenti di oggetti più o meno (soprattutto meno, direi) relazionati con ciò
che i protagonisti si stanno raccontando in musica. Di tanto in tanto lo
schermo che separa i cantanti da ciò che li sovrasta serve a proiettarvi
immagini suggestive, come quella del gigantesco platano che Vacis ha scovato a
Torino e che pare abbia precisamente la stessa età del Serse!
Insomma, trovate se non altro poco
invasive e disturbanti per ravvivare la scena. I simpatici costumi e l’efficace
l’impiego delle luci hanno contribuito a rendere più che godibile lo spettacolo,
accolto alla fine dai convinti applausi del pubblico che affollava il Pavarotti in
ogni ordine di posti.
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