Ieri sera al Piermarini è andata in
scena la prima di Manon
Lescaut, che Riccardo
Chailly ci ha proposto nella stesura originale del 1893 (Torino). Fra altre
di scarsa entità, le differenze principali rispetto alle versioni successive
riguardano la chiusura dell’atto primo e - in misura minore - l’aria finale di
Manon.
Sulla prima mi sono già dilungato nel precedente
post e non posso che confermare - all’ascolto dal vivo - come
Puccini (con Illica) avesse avuto mille buone ragioni per buttare nel cestino
questo finale originario, rimpiazzandolo con quello che (attenzione!) mai più verrà rimesso in discussione.
Ergo, si è proposta al pubblico una Skoda-ante-caduta-del-muro
al posto di una venuta dopo. Evabbè, siamo in tempi di ristrettezze e
austerità, che ci vogliamo fare...
La seconda novità riguarda Sola...
perduta, abbandonata.
L’aria fu da Puccini continuamente rimaneggiata, fin quasi sul letto di
morte... (e nel 1909 addirittura cassata del tutto per essere subito
ripristinata). Qui l’originale si differenzia dalla versione tradizionalmente
eseguita per alcune ripetizioni di versi e battute al centro dell’aria e poi per
un breve postludio strumentale, per dar tempo a Des Grieux di tornare da Manon
dopo la sua infruttuosa esplorazione: credo che pochi riescano ad avvertire al
volo queste differenze.
Insomma, tutta l’enfasi data a questa
proposta filologica del Direttore mi pare un filino fuori luogo, e morta lì.
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A parte le sue discutibili iniziative,
Chailly ha mostrato ancora una volta di padroneggiare come pochi questo Puccini
sinfonico, che da buon seguace
wagneriano impiega l’orchestra proprio come fosse un personaggio dell’opera. La
sua è una direzione secca, nervosa, dove non si risparmiano esplosioni di fortissimo (come da partitura)
affiancate da momenti (vedi ovviamente il second’atto) di raffinata e leziosa souplesse. E l’Orchestra ha risposto
assai bene, impiegando al meglio la pucciniana tavolozza dei colori.
Sempre apprezzabile il Coro di Bruno Casoni, che ha una parte non
proibitiva (ma in compenso si è dovuto studiare la caotica scena finale del
primo atto).
Quanto alle voci, bene la Maria José Siri, voce corposa e dal timbro caldo e
morbido anche negli acuti, cui fa difetto qualche decibel nei centri e gravi. Ma tutto sommato al soprano uruguagio
va la palma del migliore-in-campo.
Marcelo Álvarez è stato (per
me) un più che discreto Des Grieux, salvo qualche incertezza iniziale, ma per
il resto sfoggiando buona proiezione di voce e acuti squillanti. Fatico
francamente a comprendere le contestazioni di cui è stato fatto segno alla
fine.
Su livelli apprezzabili le prestazioni del Lescaut di Massimo Cavalletti e del Geronte di Carlo Lepore, che accomuno con il bravissimo Marco Ciaponi (Edmondo) in un
elogio senza riserve.
Alla fine, tranne i buh un po’ troppo severi (secondo me) per Álvarez (e qualcuno isolato anche per il Direttore) applausi
per tutti.
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Ma in fatto di buh,
chi ne è stato subissato è David Pountney
con il suo team di regìa (Leslie Travers
alle scene, Marie-Jeanne Lecca ai
costumi e Fabrice Kebour alle luci,
più Denni Sayers per le coreografie, del second’atto, per
lo più). Team già protagonista meno di un anno fa di una Francesca da Rimini non proprio esaltante.
Beh, devo dire che a me la messinscena
non è per nulla dispiaciuta. Per spiegarci l’inafferrabile personalità di Manon
il regista ce la mostra da subito (ben prima quindi del suo arrivo) abbigliata
in modo pacchiano e sdraiata su un carretto americano (dove morirà quattro atti
più tardi). Quindi impiega delle controfigure per evocare un’immagine di Manon
tutta pudicizia e innocenza (abbigliamento da educanda): Des Grieux, al primo
incontro, si rivolge ad una delle controfigure e lei sembra cantare (ma è la Siri
ovviamente a farlo) Manon Lescaut mi chiamo... Insomma, da un lato
la ragazzina innocente e timida, dall’altro una donna di (annacquo) non difficili costumi!
Ah, dimenticavo di premettere che
l’ambientazione è nell’800 di Puccini (o pure prima) e quindi i mezzi di
trasporto sono i treni, mica le
carrozze: siamo alla stazione di Amiens e su uno di essi arrivano Lescaut,
Geronte e la Manon-controfigura, e uno dei quali sequestrano per fuggire (!) i
due amanti alla fine del primo atto.
Ma in un Orient-express è ambientato anche il second’atto, con un paio di
vagoni adibiti a boudoir di Manon e a
sala da ballo, dove la nostra eroina si mostra quasi nelle vesti di una
maitresse di postriboli di lusso itineranti (ci sta?) Geronte da parte sua
circola armato di macchina fotografica, forse per pubblicare le foto del suo
locale su qualche sito... ehm, ci siamo capiti.
Treno abbinato (per far economie) a nave
per il terz’atto: nei vagoncini Manon e prostitute assortite, che dopo
l’appello salgono direttamente a bordo, dove saranno raggiunte dall’aspirante-popolatore-di-americhe Des
Grieux.
La stazione ferroviaria di Amiens in
fatiscente abbandono fa da sfondo nel quarto atto alla landa di New-Orleans (ma
a quei tempi i Vanderbilt non stavano
ricoprendo l’America di nuovissime tracks
e stazioni?) Mentre Manon muore lentamente sul suo carretto (portato da
Amiens!) ecco Edmondo aggirarsi con movenze irridenti e poi Geronte passarle
accanto con l’inseparabile macchina fotografica. Non so se il pubblico abbia
buato Pountney anche per questo, ma direi che il richiamo qui è pertinente,
visto che nella sua aria Manon (magari un po’ cripticamente) accenna a qualche
brutto affare in cui si deve essere cacciata anche oltreoceano...
Per farla breve, un’idea registica non
peggiore di molte altre che si vedono in giro, Scala compresa. Ma al povero
Pountney, oltre ai buh, è pure toccato - all’uscita da solo con il suo team -
di finire, fino al collo, nella trappola della buca del suggeritore... così
impara (!)
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