In sostituzione
del programmato Oleg Caetani, il concerto di questa settimana è diretto dal redivivo John Axelrod. In locandina opere (relativamente) minori e di non
frequentissima esecuzione, di Brahms
e Shostakovich.
Due opere
abbastanza (ma solo apparentemente) leggere, e non certo disimpegnate: per il
24enne Brahms si trattò - insieme con il coevo Concerto per pianoforte - del primo approccio con la grande
orchestra e quindi con un mondo assai vicino a quello della sinfonia, cui
approderà da ultra-quarantenne; per Shostakovich, di un delicato passaggio
della sua vicenda artistica ed esistenziale, sempre in bilico fra altari e
polvere.
Si apre
quindi con la Serenata op.11 del 1857, arrivata alla piena orchestra dopo
essere nata come musica da camera. È un Brahms ancora romantico, per quanto il suo romanticismo sia quasi esposto con
pudore, senza slanci velleitari o languide sdolcinature: e già fa intravedere il
futuro, fatto di rigore e razionalità, di musica che si alimenta soltanto di se
stessa (non per nulla Brahms diventerà quasi un modello assoluto per l’esteta Eduard Hanslick...)
Sono tre
quarti d’ora di musica gradevole, orecchiabile, che infonde sentimenti di pace e
tranquillità, senza allo stesso tempo annoiare o... addormentare. L’Orchestra
la affronta per la terza volta nella sua ormai lunga storia, e di certo questo
Brahms giovanile dev’essere un ottimo trampolino di lancio per la prossima, più
impegnativa avventura delle quattro sinfonie, che Robert Trevino dirigerà qui prossimamente in due serate che si
prospettano del massimo interesse.
Auditorium piacevolmente affollato e pubblico assai
caloroso nell’accoglienza a questo brano che meriterebbe più presenza nei
palinsesti concertistici.
___
Ed eccoci
alla Sesta
di Shostakovich, del 1939. Sinfonia
dalle caratteristiche così eterodosse da lasciare tuttora perplessi i
musicologi sulla sua intima natura e sul suo (criptico?) programma interno.
Sinfonia acefala, si dice, comportando un ipertrofico Largo seguito da due brevi movimenti veloci, ergo mancante di un
classico Allegro di apertura. O viceversa,
secondo il modello dell’ultimo Mahler
(del quale il Largo evoca l’Adagio-Andante della Decima) mancando di un nuovo Adagio
finale, a chiudere il discorso.
Sinfonia che
viene dopo la trionfale e trionfante Quinta
(1937) un autentico autodafè del musicista, costrettovi per difendersi dalle
accuse (1936) di tradimento degli ideali sovietici (con la sua Lady del 1934) e per evitare di finire
all’altro mondo sotto i colpi di Zdanov&C.
Ma la Quinta,
per quanto insincera (stando alle ammissioni fatte in privato dallo stesso
compositore) è una grande sinfonia proprio sul piano della forma e dei
contenuti, tutt’al più accusabile di anacronismo. Invece questa Sesta lascia
interdetti sia per la forma che per i contenuti. Chi ne ha dato una spiegazione
accattivante (più o meno condivisibile) è il grande Lenny Bernstein,
che senza mezzi termini ne individuò come caratteristica fondamentale l’ipocrisia. Ipocrisia impiegata dall’Artista
per sbugiardarne un’altra ben più grave e colpevole: quella di un regime dispotico
e sanguinario che in nome del comunismo aveva appena stretto un patto
scellerato con Hitler!
Sul fronte musicale, sempre secondo Bernstein, esiste un legame - nemmeno
troppo criptico - fra il Largo della Sesta di Shostakovich e l’Adagio lamentoso che chiude un’altra e
più famosa Sesta, la Patetica ciajkovskiana, entrambi
incardinati nel cupo SI minore: si
tratterebbe nei due casi di una dolorosa presa d’atto di condizioni di vita
difficili, per non dire intollerabili. Ma a differenza di Ciajkovski, dove si
distinguono e si alternano due temi, il primo lugubre e il secondo più
elegiaco, che poi sfuma lentamente nelle tenebre, in Shostakovich abbiamo un continuo
susseguirsi di spettrali melopee degli archi, interrotte sporadicamente, ora
dall’ottavino nel registro acutissimo, ora dai clarinetti o dalle trombe con
brevi segnali, ora dai due flauti soli e da un recitativo del clarinetto basso;
tutto in un’atmosfera che evoca rassegnazione e totale assenza di prospettive.
Poi ecco che, come nulla fosse, si passa schizofrenicamente dal buio pesto dello
sconforto ad una irresponsabile orgia sonora, uno Scherzo continuo (cioè senza Trio)
che sembra evocare fallaci entusiasmi. E il Rondò
finale rincara la dose, immergendoci in una specie di happening da discoteca, una vera ubriacatura di danze e ritmi,
qualcosa che pare voler stordire l’ascoltatore, iniettandogli una droga che gli
faccia dimenticare... ?
E allora ascoltiamo la lettura che ne diede proprio Bernstein con i Wiener nel
1987. Per confronto ecco come l’interpretò nel 1965 Yevgeny Mravinski (grande
amico del compositore, colui che aveva diretto la prima del ’39). E infine come l’ha interpretata di recente (2016) Paavo Järvi. La tabellina che segue riporta
sinteticamente i tempi delle tre esecuzioni citate, insieme ad una teorica durata delle tre parti della
sinfonia, dedotta dalle indicazioni metronomiche dell’Autore presenti in
partitura:
Shostakovich
|
movimento
|
Bernstein
|
Mravinsky
|
Järvi
|
17’ 10”
|
Largo
|
21’ 45”
|
15’ 00”
|
18’ 30”
|
7’ 40”
|
Allegro
|
8’ 00”
|
5’ 30”
|
6’ 05”
|
6’ 00”
|
Presto
|
7’ 30”
|
6’ 20”
|
6’ 30”
|
30’ 50”
|
sinfonia
|
37’ 15”
|
26’ 50”
|
31’ 05”
|
-
|
scostamento
|
+20,8%
|
-13,0%
|
+1,0%
|
Rispetto alle teoriche volontà dell’Autore: macroscopica la differenza di tempi
(soprattutto nel Largo) di Bernstein;
velocissimo (a parte il finale) Mravinsky e complessivamente in tempo Järvi. Qui in
Auditorium a dirigere la Sinfonia è, guarda caso, un allievo del grande Lenny: Axelrod però ha (curiosamente)
imitato il maestro nei due movimenti veloci (8’ e 7’) mentre è stato più rapido
in quello lento (18’) totalizzando comunque 33’, quindi un approccio fra i più...
tranquilli. (Chissà se invece Caetani avrebbe seguito le orme di Mravinsky... i
ragazzi dell’Orchestra potrebbero saperne qualcosa, visto che con lui hanno
inciso l’intero corpus sinfonico di
Shostakovich.)
Va da sè che
questi freddi numeri costituiscono
poco più che curiosità, e non possono certo essere utilizzati per emettere
condanne o innalzare monumenti. Rappresentando oltretutto solo uno (e magari
non il più importante) elemento di valutazione di un’interpretazione, che va
giudicata anche secondo le mille sfumature agogico/dinamiche che la
caratterizzano: come sempre, sarà il gusto di ciascuno a decidere quale lettura
privilegiare.
E il folto
pubblico di ieri sera pare proprio aver gradito, riservando a tutti un’accoglienza
quasi trionfale, con ripetute chiamate e applausi, anche ritmati, per il
Direttore.
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