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06 aprile, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°24


In sostituzione del programmato Oleg Caetani, il concerto di questa settimana è diretto dal redivivo John Axelrod. In locandina opere (relativamente) minori e di non frequentissima esecuzione, di Brahms e Shostakovich.

Due opere abbastanza (ma solo apparentemente) leggere, e non certo disimpegnate: per il 24enne Brahms si trattò - insieme con il coevo Concerto per pianoforte - del primo approccio con la grande orchestra e quindi con un mondo assai vicino a quello della sinfonia, cui approderà da ultra-quarantenne; per Shostakovich, di un delicato passaggio della sua vicenda artistica ed esistenziale, sempre in bilico fra altari e polvere.

Si apre quindi con la Serenata op.11 del 1857, arrivata alla piena orchestra dopo essere nata come musica da camera. È un Brahms ancora romantico, per quanto il suo romanticismo sia quasi esposto con pudore, senza slanci velleitari o languide sdolcinature: e già fa intravedere il futuro, fatto di rigore e razionalità, di musica che si alimenta soltanto di se stessa (non per nulla Brahms diventerà quasi un modello assoluto per l’esteta Eduard Hanslick...)

Sono tre quarti d’ora di musica gradevole, orecchiabile, che infonde sentimenti di pace e tranquillità, senza allo stesso tempo annoiare o... addormentare. L’Orchestra la affronta per la terza volta nella sua ormai lunga storia, e di certo questo Brahms giovanile dev’essere un ottimo trampolino di lancio per la prossima, più impegnativa avventura delle quattro sinfonie, che Robert Trevino dirigerà qui prossimamente in due serate che si prospettano del massimo interesse.

Auditorium piacevolmente affollato e pubblico assai caloroso nell’accoglienza a questo brano che meriterebbe più presenza nei palinsesti concertistici.
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Ed eccoci alla Sesta di Shostakovich, del 1939. Sinfonia dalle caratteristiche così eterodosse da lasciare tuttora perplessi i musicologi sulla sua intima natura e sul suo (criptico?) programma interno. Sinfonia acefala, si dice, comportando un ipertrofico Largo seguito da due brevi movimenti veloci, ergo mancante di un classico Allegro di apertura. O viceversa, secondo il modello dell’ultimo Mahler (del quale il Largo evoca l’Adagio-Andante della Decima) mancando di un nuovo Adagio finale, a chiudere il discorso.

Sinfonia che viene dopo la trionfale e trionfante Quinta (1937) un autentico autodafè del musicista, costrettovi per difendersi dalle accuse (1936) di tradimento degli ideali sovietici (con la sua Lady del 1934) e per evitare di finire all’altro mondo sotto i colpi di Zdanov&C.

Ma la Quinta, per quanto insincera (stando alle ammissioni fatte in privato dallo stesso compositore) è una grande sinfonia proprio sul piano della forma e dei contenuti, tutt’al più accusabile di anacronismo. Invece questa Sesta lascia interdetti sia per la forma che per i contenuti. Chi ne ha dato una spiegazione accattivante (più o meno condivisibile) è il grande Lenny Bernstein, che senza mezzi termini ne individuò come caratteristica fondamentale l’ipocrisia. Ipocrisia impiegata dall’Artista per sbugiardarne un’altra ben più grave e colpevole: quella di un regime dispotico e sanguinario che in nome del comunismo aveva appena stretto un patto scellerato con Hitler!

Sul fronte musicale, sempre secondo Bernstein, esiste un legame - nemmeno troppo criptico - fra il Largo della Sesta di Shostakovich e l’Adagio lamentoso che chiude un’altra e più famosa Sesta, la Patetica ciajkovskiana, entrambi incardinati nel cupo SI minore: si tratterebbe nei due casi di una dolorosa presa d’atto di condizioni di vita difficili, per non dire intollerabili. Ma a differenza di Ciajkovski, dove si distinguono e si alternano due temi, il primo lugubre e il secondo più elegiaco, che poi sfuma lentamente nelle tenebre, in Shostakovich abbiamo un continuo susseguirsi di spettrali melopee degli archi, interrotte sporadicamente, ora dall’ottavino nel registro acutissimo, ora dai clarinetti o dalle trombe con brevi segnali, ora dai due flauti soli e da un recitativo del clarinetto basso; tutto in un’atmosfera che evoca rassegnazione e totale assenza di prospettive.

Poi ecco che, come nulla fosse, si passa schizofrenicamente dal buio pesto dello sconforto ad una irresponsabile orgia sonora, uno Scherzo continuo (cioè senza Trio) che sembra evocare fallaci entusiasmi. E il Rondò finale rincara la dose, immergendoci in una specie di happening da discoteca, una vera ubriacatura di danze e ritmi, qualcosa che pare voler stordire l’ascoltatore, iniettandogli una droga che gli faccia dimenticare... ?             

E allora ascoltiamo la lettura che ne diede proprio Bernstein con i Wiener nel 1987. Per confronto ecco come l’interpretò nel 1965 Yevgeny Mravinski (grande amico del compositore, colui che aveva diretto la prima del ’39). E infine come l’ha interpretata di recente (2016) Paavo Järvi. La tabellina che segue riporta sinteticamente i tempi delle tre esecuzioni citate, insieme ad una teorica durata delle tre parti della sinfonia, dedotta dalle indicazioni metronomiche dell’Autore presenti in partitura: 

Shostakovich
movimento
Bernstein
Mravinsky
Järvi
17’ 10”
Largo
21’ 45”
15’ 00”
18’ 30”
7’ 40”
Allegro
8’ 00”
5’ 30”
6’ 05”
6’ 00”
Presto
7’ 30”
6’ 20”
6’ 30”
30’ 50”
sinfonia
37’ 15”
26’ 50”
31’ 05”
-
scostamento
+20,8%
-13,0%
+1,0%

Rispetto alle teoriche volontà dell’Autore: macroscopica la differenza di tempi (soprattutto nel Largo) di Bernstein; velocissimo (a parte il finale) Mravinsky e complessivamente in tempo Järvi. Qui in Auditorium a dirigere la Sinfonia è, guarda caso, un allievo del grande Lenny: Axelrod però ha (curiosamente) imitato il maestro nei due movimenti veloci (8’ e 7’) mentre è stato più rapido in quello lento (18’) totalizzando comunque 33’, quindi un approccio fra i più... tranquilli. (Chissà se invece Caetani avrebbe seguito le orme di Mravinsky... i ragazzi dell’Orchestra potrebbero saperne qualcosa, visto che con lui hanno inciso l’intero corpus sinfonico di Shostakovich.)

Va da sè che questi freddi numeri costituiscono poco più che curiosità, e non possono certo essere utilizzati per emettere condanne o innalzare monumenti. Rappresentando oltretutto solo uno (e magari non il più importante) elemento di valutazione di un’interpretazione, che va giudicata anche secondo le mille sfumature agogico/dinamiche che la caratterizzano: come sempre, sarà il gusto di ciascuno a decidere quale lettura privilegiare.  

E il folto pubblico di ieri sera pare proprio aver gradito, riservando a tutti un’accoglienza quasi trionfale, con ripetute chiamate e applausi, anche ritmati, per il Direttore.

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