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12 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°29

 

Sappiamo che Zhang Xian è venuta su (musicalmente parlando) in casa di Lorin Maazel (a NewYork) e che dal Maestro e mentore ha mutuato approccio e stile direttoriale. Così deve aver deciso di festeggiare le sue (di lui!) recenti 84 primavere per metterne in programma il pastiche sul Ring

Solitamente questa trovata del simpatico Lorin viene condannata senza appello per i reati di vilipendio e scempio di capolavoro. Raro invece che gli stessi reati vengano imputati a registi che impiegano il Ring (o altri consimili capolavori) per farsi i cazzi loro i loro belli affari a buon mercato e a spese di tutti: opera, autore e pubblico. Amen.

Detto ciò bisognerà pur riconoscere a Maazel almeno l’onestà intellettuale di non pretendere di spiegarci in 75 minuti di soli suoni ciò che Wagner racconta in 15 ore di musica, canto, testi e didascalie (gli ultimi due sostantivi sono per i registi di cui sopra). Lui ha semplicemente messo insieme una suite del Ring pescando i brani di musica che più riteneva appropriati. E sulle sue scelte si può ovviamente discutere e dissentire, salvo il proporre di… vietarle!

Insomma, nessuna pretesa di surrogare l’originale, ma solo l’opportunità offerta al pubblico di ascoltare della musica che è grande di per se stessa e – perchè no! e per chi il Ring lo conosce almeno un filino – di vivere un piacevole amarcord, riandando mentalmente alle emozioni che si provano quando si ascolta un Ring vero. Immagino (potrei sbagliare) che proprio pensando a quest’ultima fascia di ascoltatori Maazel abbia voluto rispettare rigorosamente, nella sua antologia, la sequenza drammaturgica originale: considerandomi appartenente a quella fascia, gliene sono sommamente grato.

E allora vediamo cosa ha scelto per noi il maestro della Xian (lo specchietto sottostante riassume in modo sintetico le componenti principali del lavoro, con riferimento sonoro ad un’incisione dello stesso Maazel con i Wiener, ascoltabile sul tubo):



Intanto, un’occhiata alla distribuzione dei tempi (per quanto possa valere, intendiamoci): dei 75 minuti totali, Rheingold ne occupa meno di 12; Walküre meno di 17; Siegfried circa 7 e Götterdämmerung i restanti 40 minuti. Che dire? Che Maazel ha sfacciatamente privilegiato il Crepuscolo a scapito degli altri drammi, e soprattutto di Siegfried?  

Possiamo intanto notare come l’inizio e la fine dell’universo wagneriano vengano presentati praticamente nella loro completezza; così come il Rheinfahrt e la Trauermarsch, che sono classici pezzi da antologia.

Dal punto di vista strettamente musicale, Maazel ha cercato di cucire i pezzi nel modo più… indolore possibile: qua e là peraltro emergono inevitabilmente delle soluzioni di continuità, avvertibili anche da un non-esperto-wagneriano.

In definitiva, un lavoro che non ha pretese stratosferiche e che va – secondo me – apprezzato per quel che è e non disprezzato per ciò che non è e non avrebbe mai potuto essere.
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In questa occasione, chissà, forse per non… esagerare, Xian ha pensato bene di proporre un bigino-del-bigino! Rispetto ai contenuti elencati più sopra, ha cassato tutta la parte del primo atto della Walküre e le ultime battute (tema del Patto) dopo l’addio di Wotan. Poi ha anche eliminato tutta la parte derivata dall’Atto I del Siegfried. Infine, del terz’atto di Götterdämmerung, niente Rheintöchter e niente ultimo accorato saluto di Siegfried a Brünnhilde, si è in pratica partiti dalla Trauermarsch. Il tutto è quindi durato meno di un’ora. 

Quanto ai ragazzi, loro si sono impegnati al massimo e il risultato è stato più che dignitoso… date le circostanze. Del resto il gene wagneriano non è qualcosa che si possa acquisire dall’oggi al domani: una interessante esperienza per loro e una serata tutto sommato rilassante per noi che li siamo stati ad ascoltare.

24 marzo, 2010

Direttori rampanti

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La Münchner Philharmoniker ha trovato un nuovo, giovanissimo sostituto del ripudiato Christian Thielemann: si tratta di tale Lorin Maazel.
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02 ottobre, 2009

Partito il festival verdiano con il Requiem

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Dopo l’anteprima del 28 settembre a Busseto, si è inaugurato ieri sera a Parma, nella Cattedrale, il Festival Verdi 2009. In programma il Requiem.

Anche qui non sono mancati i contrattempi, primo fra i quali nientemeno che il cambio di Kapellmeister! Poichè Yuri Khatuevich Temirkanov (71 anni, da quest’anno Direttore musicale del Regio, tuttora citato qui) è stato rimpiazzato da Lorin Maazel, vecchio marpione (79 anni!) rotto a tutte le avventure e a tutti i compromessi, quindi buono per tutte le stagioni (e quindi i maligni insinuano… per nessuna?)

Qui una presentazione non burocratica dell’evento.

Recuperato a fatica un ticket in internet, ho raggiunto Parma in un pomeriggio quasi estivo (26 gradi, al termometro del cruscotto…) e ho anche trovato il tempo per un’esplorazione rapida del Battistero, questa gigantesca costruzione a pianta ottagonale all’esterno e esadecagonale all’interno, con le sue pareti esterne che salgono a nascondere la cupola, e con le sue bizzarre simmetrie (finestroni, finestre e lucernari) ed asimmetrie (loggetta interna, spioncino unico, lanterne grandi e piccole sulla sommità…)

Si entra in cattedrale solo dopo le 19:30, io ho un posto non proprio felice (navata laterale, con un paio di robusti pilastri a farmi da schermo a parte degli esecutori) e faccio solo a tempo a dare un’occhiata in giro: orchestra con disposizione moderna (violoncelli avanti) e assenza dell’oficleide di ordinanza, sostituito come ormai consuetudine da un’argenteo contrabbasso-tuba. Le trombe fuori scena stanno appollaiate sul matroneo, verso metà navata, all’altezza del pulpito. I solisti trovano posto davanti, fra le prime file dell’orchestra, invece che fra orchestra e coro, come è usanza: scelta che mi ha lasciato perplesso. Pubblico? Anche Verdi deve proprio essere un dio, se riesce a gremire una Cattedrale più che per Natale e Pasqua. Un religioso in rappresentanza della diocesi dà il benvenuto, dopo un buon quarto d’ora accademico, e verso le 20:20 Lorin Maazel fa partire il MI dei violoncelli.

Sotto voce, poi il più piano possibile, e poi ancora sempre ppp, prescrive Verdi al coro per l’incipit del Requiem, fino al luceat eis. Effetto grande, al tacere dell’orchestra – che ha suonato in pp e ppp - il forte con cui il coro attacca a canone il Te decet hymnus: questo è uno dei momenti toccanti dell’opera, e Verdi ce lo presenta subito, quasi a voler accattivarsi fin dalle prime battute la partecipazione dell’ascoltatore. Cosa che Maazel&Faggiani hanno saputo fare con gran mestiere, diciamo la verità (il maestro ha avuto poche ore per familiarizzare con gli interpreti). Poi i 4 solisti si presentano (in sequenza: tenore, basso, soprano, alto) e devo dire che non è una presentazione molto felice – l’emozione? - salvo che per la Daniela che, oltre che alto, è proprio alta e impone, oltre alla statura fisica, anche bravura ed esperienza. Meno male che, dopo l’avvio stentato, la resa del Kyrie sia di buon livello. Vinogradov ha una voce che nei bassi pare quella di Titurel quando si fa sentire dal suo giaciglio-sarcofago (nella circostanza ci può anche stare… chissà se la colpa è dei suoi armonici che vanno in risonanza con le volte del duomo). La Vassileva sembra più che altro mancare di esperienza, a volte è imprecisa negli attacchi, sembra quasi stonare, ma vedremo che saprà cavarsela almeno nei passi più tecnicamente difficili. Meli direi senza infamia né lode, una prestazione comunque più che sufficiente. Invece è il coro di Faggiani a mostrare da subito grande affiatamento e precisione. Anche l’acustica del locale sembra meno peggio del paventabile (Titurel a parte).

Lo strafamoso Dies Irae (il cui incipit martellante torna tre volte nell’opera, sempre in SOL minore) è prescritto da Verdi con metronomo di 80 minime al minuto: una cosa davvero feroce! Maazel lo fa forse un filino più trattenuto. Davvero travolgenti le 8 quartine di semicrome degli archi, che sprofondano dal SOL sovracuto per ben 4 ottave, in sole due battute! Verdi scrive – quale meticolosità! - le prime 6 di tali quartine con due note legate e due puntate, quasi il respiro strozzato e il tremor di chi fugge a rotta di collo… ma obiettivamente è difficile, a quella velocità, per un orecchio normale cogliere una tal sottigliezza (ed è obiettivamente difficile anche eseguirla al meglio); qui davvero non resta che immaginare

Impressionante poi il Tuba mirum, col suo incipit arcano e le trombette dall’alto in stereofonia. Dove poi le terzine di archi e ottoni e le sestine degli strumentini creano un effetto davvero di finimondo, che copre la voce del basso, non quelle del coro, prima dello spettrale Mors stupebit, che Alex Vinogradov espone sulle figurazioni, proprio da stupore, degli archi e i rintocchi fatali della grancassa. Ancora la Barcellona a far da protagonista (Liber scriptus) con la precisa scansione delle sillabe forte>piano e poi con grande efficacia sui FA# dello Judex e poi del Quid e ancora al culmine dello Judicetur (LAb acuto, che regge al meglio il fortissimo di tutta l’orchestra). Dopo il nuovo Dies irae, l’Adagio religioso in cui le tre voci alte cantano il Quid sum miser, dove tocca alla Vassileva mostrare di avere anche buone qualità, con una salita al SI naturale. E siamo al Rex tremendae introdotto dai maschi del coro, che conduce al Salva me, al culmine del quale la soprano sale benissimo al DO acuto, la prima delle tre difficoltà vocali per lei in questa partitura. Bravissime poi le due soliste nel Recordare, con l’emozionante crescendo della soprano fino al SIb (Ante diem).

Ora tocca a Francesco Meli con l’Ingemisco. Il tenore lo canta col dovuto portamento supplicante, ed esegue sufficientemente bene i due crescendo fino al SIb acuto. Nel passo Inter oves bravissimi oboe e poi flauto e clarinetto, ad accompagnare il tenore. Bravo poi Vinogradov nel Confutatis, dove alterna assai efficacemente, come Verdi ordina, il canto con forza al dolce cantabile. E poi tiene bene i MI cui Verdi lo spinge prima della seconda comparsa del Dies Irae. Il quale prelude al Lacrymosa, aperto in modo esemplare dalla Danielona, cui si aggiungono poi gli altri, magari non sempre esemplari, solisti (toccante però il contrappunto con il basso) e infine il coro, con un impressionante crescendo sonoro fino alla chiusa in SIb minore del parce Deus. Poco dopo, rabbrividente il tremolo degli archi che introduce, modulando dal SIb minore al maggiore, l’Amen, sugli arcani accordi di SOL e SIb che chiudono il N°2.

Nell’Offertorio, lo dico subito, Maazel mi ha pienamente convinto. Già nel tempo che ha staccato, a orecchio e croce assai vicino a quello prescritto dal metronomo di Verdi (Karajan e peggio Abbado – per fare esempi rintracciabili su Youtube - lo eseguono con eccessiva lentezza, dopodiché si possono anche gradire…) Lo aprono magnificamente violoncelli e flauti, ad introdurre mezzosoprano e tenore, cui si aggrega presto il basso (sul Libera). Più avanti c’è l’altra difficoltà per la soprano, il Sed, un legato di 7 misure (andante mosso in 6/8: 5 battute sul MI naturale, dal pianissimo crescendo sempre e portando la voce, e 2 battute in MIb, tornando al ppp) che comporta – stando al metronomo – circa 13 secondi di tenuta. La Vassileva – oltre al tempo spedito di Maazel-Verdi - evidentemente ha un bel serbatoio d’aria incorporato, e riesce a superare l’ostacolo, sfumando benissimo il MIb. Grande effetto fa il Quam olim, un Allegro mosso incastonato fra il precedente andante e l’Adagio dell’Hostias, con i 4 solisti e tutta l’orchestra a chiudere in religioso diminuendo sul SOL.

Nell’Hostias, Meli rispetta alla lettera Verdi (dolcissimo e lente le semicrome) ben seguito poi dagli altri tre. Tutti bravi nel sottovoce parlando del faceas, Domine, de morte transire ad vitam, che significativamente, dal tempo Adagio, ci riporta all’Allegro del Quam olim, stavolta sfociante in quei tre feroci promisisti, che conducono poi alla chiusa, sul primo tempo dell’andante mosso, e all’estremo morendo del clarinetto e poi degli archi.

Potente e impressionante l’attacco del Sanctus. Qui il coro è sdoppiato (Verdi prevede proprio due cori). Il risultato è comunque efficace, il contrappunto ben eseguito. Strepitosi gli svolazzi degli strumentini (ottavino in testa) a punteggiare la gigantesca fuga. Dal Benedictus si aggiungono le crome puntate degli archi in contrappunto e alla fine dell’Hosanna tutta l’orchestra esplode in fortissimo le crome puntate ascendenti e discendenti, creando tre autentiche ondate sonore (la seconda solo forte, di fagotti e archi bassi) fino alla cadenza conclusiva, con i classici e melodrammatici 6 accordi sulla perfetta trìade di FA maggiore. Davvero travolgente!

Senza un solo attimo di respiro Maazel attacca l’Agnus Dei che fa da intermezzo, con le soliste femminili che introducono la forma allargata, rispetto all’iniziale requiem, del Dona, una parola qui cantata su 7 semiminime, contro le 3 dell’incipit dell’opera (tempo pressoché identico): un chiaro segnale di un cammino compiuto, di una speranza di pace che qui si sta facendo certezza. Dopo il coro, ancora le soliste, con l’Agnus in DO minore. Ma il coro ristabilisce il maggiore, imitato ancora dalle soliste, fino alla chiusa, sul definitivo dona del coro, che accompagna il sempiternam delle due voci.

Il Lux Aeterna è totale responsabilità della Daniela, che lo espone sul misterioso tremolo di tutti i violini divisi in 4 parti, con interventi poi delle voci soliste maschili. La nostra se la cava assai dignitosamente, con il supporto eccellente dell’ottavino, che sul Lux perpetua disegna i suoi trilli a quartine molto staccato in modo davvero impeccabile! Ancora bravi gli strumentini, poi gli archi in staccato, a supportare i solisti, prima della cadenza conclusiva, aperta dal toccante arpeggio di flauto e clarinetto.

Il Libera me si apre con il declamato della Vassileva, seguito da quello del coro. Non efficacissimo l’urlo della soprano sul LAb dell’ignem. Drammatico invece il timeo, che chiude in maggiore la sezione di DO minore, quasi un atto di fede nella misericordia divina, a dispetto dell’ira che irrompe ancora, per la terza volta, sempre uguale a se stessa. Ma adesso, dopo il secondo urlo dell’Ignem cambia tutto… l’ira sbolle e si stempera e oboi e corni introducono il Requiem aeternam, e da qui è tutto in mano (anzi… in bocca!) alla Vassileva che lo chiude con un pulitissimo SIb acuto. Al suo nuovo stentoreo Libera rispondono ora i contralti del coro interpretando al meglio la scansione delle sillabe in forte>piano come puntigliosamente scrive Verdi. La fuga che segue, di proporzioni gigantesche, lascia sempre senza fiato, davvero degna di quelle del Requiem brahmsiano.

La Vassileva si cimenta ancora con un altro paio di SI acuti, ben eseguiti. E si arriva all’esplosione del Domine, dove tutti ci mettono tutta la forza possibile. La Svetla fa lo sforzo supremo, salendo al DO acuto sul Libera me, prima dell’epilogo, dove il DO minore sfuma impercettibilmente in maggiore. Gli ultimi Libera me non sono più cantati, ma sussurrati con un fil di voce (pppp!) quasi un rantolo che si può udire solo accostando l’orecchio alla bocca di un moribondo che esala le ultime sue sillabe. La cattedrale è prossima ad un vuoto pneumatico, l’orchestra cerca a sua volta di suonare ppp, ma i fiati specialmente faticano a fare il morendo e a rendere pienamente quella sensazione di suono terreno che sfuma nel silenzio dell’aldilà… Maazel chiude e ottiene almeno 10 secondi di silenzio. Qui ci vorrebbe a dir il vero il minuto di raccoglimento, ma qualcuno non ne può più e così – appena Lorin abbassa le braccia - scoppia l’applauso, che poi diventa ovazione per tutti.

Che dire? Son quelle esperienze che – se non si fanno di persona dal vivo – non si possono importare da CD, DVD, Youtube, Webcast, iPod e consimili. Poiché queste ultime sono – per l’appunto - diavolerie. Quindi, finchè si può, conviene farle ed anche ripeterle, queste esperienze; nel nostro caso: il 29 ottobre (Orchestra e Coro Verdi all’Auditorium, con Zhang) e il 20 novembre (Orchestra e Coro della Scala al Piermarini, con Barenboim).

Fuori la sera è mite, almeno 20 gradi ancora, e rischiarata da una luna ormai prossima al tondo perfetto.
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31 agosto, 2008

MaaZeff vs Carsen&C

In questi ultimi giorni di agosto il Corriere ha ospitato una polemica piuttosto accesa sul cosiddetto Regietheater (la regia teatrale di opere liriche e drammi musicali) anzi, più propriamente su quel fenomeno “di costume” che viene etichettato sprezzantemente (ma non senza ragione, secondo me) Eurotrash (spazzatura europea).

Da una parte due vecchi (in tutte le accezioni - buone-cattive - del termine): Lorin Maazel e Franco Zeffirelli; dall’altra un regista canadese (Robert Carsen) in rappresentanza della nutrita schiera dei giovani registi-di-teatro che, soprattutto in Europa, imperversa da anni in molti teatri - non solo tedeschi, dove la practice è nata - con allestimenti controversi e spesso davvero indecenti, di opere e drammi musicali.

MaaZeff sostengono il principio sacrosanto - che sulla carta nemmeno Carsen&C contestano, altrimenti passerebbero subito dalla parte del torto - della supremazia dell’opera d’arte originale e del rispetto che le si deve.

Casren&C - i C si chiamano Bieito, Herheim, McVicar, Guth, Decker, Sellars, Vick, Wilson, Barlow, Brockhaus, Wagner (Kathi), Schlingensief... e hanno come maestri-tutori i vari Konwitschny, Kupfer... e come più lontani campioni Chéreau, Friedrich e addirittura Wieland Wagner - sostengono la necessità che l’ambientazione di un’Opera vada rinnovata, rispetto all’originale e alla tradizione interpretativa, in modo da renderla meglio e più comprensibile e godibile da parte di un pubblico che ha sulle spalle 50 anni, o uno o due o tre secoli di storia, di esperienza e di evoluzione della civiltà, rispetto a quello dei tempi in cui l’Opera fu creata. Lo slogan che tipicamente viene impiegato per supportare tale necessità è: se non viene innovata, un’opera lirica (o un dramma musicale) si trasforma in un museo.

Aperta parentesi: già, un museo. Come quell’obbrobrio del Louvre, vero? dove tuttora ci si interstardisce ad esporre (ma perchè mai milioni di persone la vanno ancora e sempre a vedere?) la Gioconda, proprio come il maestro la dispinse, senza cambiarle una virgola, che so, l’antiquato abbigliamento, o la ridicola pettinatura. Oppure gli Uffizi, dove si può sostare per un tempo limitato (dalla massa di visitatori che premono) ad ammirare capolavori del passato. O l’Ermitage, il Museo Egizio di Torino (o del Cairo) e tutti gli altri musei grandi e piccoli sparsi in tutto il pianeta. Insomma, il museo - per l’opera lirica e il dramma musicale - sarebbe equiparabile ad una discarica maleodorante e impresentabile! Chiusa parentesi.

In sostanza, i campioni del Regietheater sostengono la necessità - quindi il diritto addirittura - di regista, scenografo e costumista (e aggiungiamo pure del responsabile delle luci) di intervenire di testa propria su regia, scene e costumi di un’Opera musicale, con il nobile scopo di mantenere alti l’interesse e la partecipazione del pubblico verso questo genere di Arte.

Tutto ciò rappresenta un fine per nulla disprezzabile. A patto che non si superi un certo limite: quale? Quello oltre il quale l’operazione si trasforma in un vero e proprio sequestro di un capolavoro (come tale universalmente riconosciuto) da parte del regista, allo scopo di promuoverne la sua propria (del regista) visione, con ciò distorcendo però quella del creatore dell’opera medesima, fino a renderla irriconoscibile, privando quindi l’opera delle qualità che ne hanno determinato, nel tempo, l’universale riconoscimento di capolavoro.
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E proprio Carsen ci ha dato quest’anno un’esemplificazione perfetta di cosa significhi valicare o meno quel limite: le sue interpretazioni italiane di Salome e di Elektra.