XIV

da prevosto a leone
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22 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (4)


Dopo aver fatto la conoscenza con l’integrale dell’opera nella versione-Shostakovich, e prima di dare una scorsa a quella tradizionale di Rimski, prendiamo in considerazione le esecuzioni di due direttori che, come si dice in gergo, hanno lasciato il segno nella storia interpretativa dell’opera così come strumentata e completata dal grande Dimitri. Cercherò di essere il più asettico possibile, limitando al minimo personali giudizi sulle diverse (in alcuni casi diversissime) scelte dei due direttori. Ripropongo il riferimento al libretto multi-uso, che può facilitare l’ascolto, specie in presenza di tagli al testo.

Cominciamo - se non altro perchè sarà lui sul podio del Piermarini dal 27/2 - da Valery Gergiev che è da anni (almeno dal 1991, anno di uscita della sua prima incisione) un campione di questa versione, da lui già diretta alla Scala quasi 21 anni orsono.

É possibile oggi seguire in rete (con video) una sua (relativamente) recente produzione (2012) al teatro Marinski di SanPietroburgo. A parte le immancabili piccole divergenze di carattere interpretativo, questa esecuzione di Gergiev si differenzia dalla versione adottata in alcuni particolari. Il primo è di scarsa importanza: verso la fine del primo atto, allorquando Ivan Chovanskij comanda agli Strelcy di rientrare al Kremlino (si è udita una fanfara di trombe) Gergiev inserisce (da 48’30” a 48’54” della registrazione) subito prima dell’ultima invocazione di Dosifej, 12 battute di soli strombazzamenti (inesistenti in Lamm e Shostakovich) prese di peso dalla partitura di Rimski. Non è escluso che questa scelta sia stata suggerita da esigenze puramente registiche (accompagnare il corteo degli Strelcy che esce di scena); l‘inserimento è presente anche nell’edizione CD del 1991.

Altra deviazione da Shostakovich è il finale dell’Atto II: Gergiev ignora la trionfalistica fanfara di zar Pietro e si limita ad un colpo di tam-tam, facendo poi tenere (1h32’20”) agli archi il RE (su cui Šaklovityj aveva chiuso il suo intervento) in dissolvenza. Una scelta abbastanza vicina alle intenzioni dell’Autore, e anche - come vedremo - a quella di Abbado.

Gergiev poi taglia (in questa occasione, ma non nella registrazione del 1991) la filastrocca di Kuzka, accompagnata da Strelcy e mogli, dell’atto terzo: a 2h01’44” salta direttamente all’arrivo dello scrivano (questo è uno dei tanti tagli di Rimski).   

E infine ecco la differenza, questa sostanziale, che riguarda il finale dell’opera. Come si può constatare, Gergiev segue fedelmente Shostakovich (in realtà... Rimski, come abbiamo visto in una precedente puntata, esaminando i diversi finali) fino alla perorazione del coro dei raskolniki, seguita dalle invocazioni di Marfa, Andrej e Dosifej (3h15’18”). A questo punto però, invece della sequenza prevista da Shostakovich (marcia delle truppe di Pietro + motivo della foresta + coro dei moscoviti + alba sulla Moscova) il Direttore russo fa semplicemente ripetere alla sola orchestra il tema del coro, chiudendo (3h15’54”) con un lungo accordo tenuto di LAb minore. Una soluzione quindi che sconfessa Shostakovich, mentre si avvicina un pochino a quella di Stravinski, che osserveremo in dettaglio ascoltando l’esecuzione di Abbado: insieme a quest’ultima, è la soluzione per il finale che forse meglio interpreta ciò che l’Autore aveva affermato di voler realizzare. 
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E a proposito di Abbado, ha fatto storia la sua interpretazione del 1989 a Vienna, di cui esistono in rete almeno due riprese dal vivo in date diverse, con cast leggermente ma significativamente diversi. La prima è stata trasmessa in video; la seconda è incisa su CD. La base è sostanzialmente costituita dalla versione-Shostakovich, ma con alcuni tagli e soprattutto con il finale mutuato da quello composto nel lontano 1913 da Igor Stravinski (per Diaghilev). Le considerazioni (e i riferimenti temporali) che seguono si riferiscono alla versione CD.

Una prima constatazione riguarda la durata netta dell’intera opera: 2h50’. Rispetto a quella dell’edizione integrale (3h18’ sia per Tchakarov-1986 che per Gergiev-1991) ci sono ben 28 minuti di differenza! Il che ovviamente porta subito a concludere che Abbado abbia tagliato parecchio!

Una delle ragioni, diciamo così, programmatiche, dei tagli è stata esposta dallo stesso Abbado, che li ha giustificati (ma non tutti...) con il desiderio di rispettare la presunta volontà di Musorgski, deducibile dalle cancellature rinvenute sui suoi manoscritti e dalle parti di testo mancanti nel quaderno blu; tutto materiale che Lamm (e Shostakovich con lui) hanno invece tenuto in vita. Si tenga presente che la quasi totalità dei tagli di Abbado è mutuata da Rimski. Vediamo però più in dettaglio.

Primo atto. A 11’46” vengono omessi alcuni versi cantati da Šaklovityj, effettivamente pleonastici: una parte cancellata (da mano ignota) anche sul manoscritto.

A 13’54” c’è un piccolo taglio nel dialogo fra Šaklovityj e scrivano, anche questo di versi pleonastici, cancellati anche sul manoscritto. 

A 20’27” troviamo un taglio più sostanzioso, che elimina una parte del battibecco fra i moscoviti e lo scrivano; effettivamente è anche questo un passaggio pleonastico, che fra l’altro lo stesso Musorgski non riportò nel quaderno blu.

A 35’08” ecco un piccolo ma significativo taglio, nel corso del terzetto Emma-Marfa-Andrej: taglio che elimina una velata minaccia di Marfa ad Andrej, che ha un momento di paura. Tuttavia si tratta di una delle cancellature apportate sul manoscritto verosimilmente dallo stesso Autore.

Il secondo atto è quello che Abbado ha sfrondato di più (almeno un quarto d’ora di musica).

La prima grossa sforbiciata (49’50”, mutuata da Rimski) inizia con la lettura da parte di Golicyn della lettera della madre (Abbado salva pochi versi conclusivi). Il taglio ci priva del primo apparire del tema trionfante della casata di Golicyn, tema che ci viene negato anche subito dopo, a causa della cassazione totale dell’incontro tra Golicyn e il Pastore luterano (il che purtroppo ci impedisce anche di farci un’idea più precisa della personalità del principe). Abbado ha qui la scusante della mancanza di questa scena nel famoso quaderno blu, ma francamente mi pare che questo taglio presenti più contro che pro. Si passa quindi direttamente al momento in cui Varsonofev annuncia l’arrivo di Marfa.

A 1h00’21” abbiamo un piccolo taglio (mutuato sempre da Rimski) durante il battibecco fra Golicyn e Chovanskij, che ci fa sfuggire uno dei motivi di rancore del capo degli Strelcy verso il consigliere della zarevna: accusato di aver manipolato le decisioni della Duma!

Altro taglio, più o meno significativo, a 1h03’22”: Dosifej, appena arrivato, rivela di essere stato principe, prima di convertirsi all’apostolato come guida spirituale dei Vecchi Credenti. È un taglio di Rimski, e per pochi versi finali è anche una mancanza nel quaderno blu.

Ci sono infine due tagli (sempre da Rimski) che riguardano aspetti non proprio trascurabili della personalità e della storia di Chovanskij: il primo si trova a 1h04’36”: laddove Chovanskij si propone in sostanza come nuovo capo del governo, impiegando i suoi Strelcy per arrivare al potere su Mosca e sulla Russia. Il secondo (minuscolo e quasi impercettibile) si incontra a 1h07’14”: è Chovanskij che ricorda a Dosifej di averlo già in passato aiutato con idee, uomini e mezzi.

Si è già detto, trattando dei finali d’atto incompleti, come Abbado abbia di sua iniziativa ignorato la versione di Shostakovich, anticipando qui (1h11’20”) cinque battute della fine del terz’atto.

Nel quale atto terzo notiamo come Abbado abbia impiegato, per la canzone di Marfa (1h15’15”) la versione originariamente orchestrata da Musorgski (accompagnamento di archi, mentre Shostakovich aveva fatto di testa sua, accompagnando con i fiati). Poi troviamo a 1h20’45” il primo dei due tagli personali (cioè non mutuati da Rimski) di Abbado: è una piccola parte dello scontro fra Marfa e Susanna, e contiene un frase appena-appena osé: non può certo essere questa la ragione del taglio... bisognerebbe chiederlo ad Abbado!         

Per il resto, solo un altro piccolo taglio (1h24’27”, giustificato dall’assenza dei versi nel quaderno blu) di parte dello scambio di battute fra Dosifej e Susanna. Effettivamente non si tratta di cosa grave.

Nel quarto atto c’è solo da segnalare la Danza delle persiane, dove Abbado sembra fare un mix fra l’orchestrazione di Rimski (vedi impiego delle arpe) e quella di Shostakovich (esempio: la cadenza finale con scoppiettanti interventi delle percussioni).

Nel quinto atto troviamo il secondo e ultimo (e minuscolo) taglio personale di Abbado (2h36’04”): sono i primi versi dell’esternazione di Marfa, che manifesta il suo dolore per l’abbandono di cui Andrej l’ha fatta oggetto.

Ed eccoci ora arrivati al cuore della scelta drammaturgica di Abbado: il finale dell’opera. Si è già sommariamente descritto l’approccio del Direttore, consistente nell’adozione della versione 1913 di Stravinski. Seguiamo ora la musica in dettaglio, a partire dal momento (2h45’04”) in cui Marfa accende il rogo, sull’accordo di MIb maggiore che ha chiuso l’invocazione di Dosifej e fedeli dopo quella strabiliante discesa cromatica: questo è chiaramente riconoscibile come il punto dal quale la soluzione Abbado(-Stravinski) che fin lì aveva seguito sostanzialmente quella di Shostakovich(-Rimski) se ne distacca nettamente.    

E se ne distacca anche dal punto di vista della complessità dell’impianto, che sarebbe stata del tutto impensabile da parte di Musorgski, e ancor meno da parte di Rimski; lo stesso Shostakovich (arrivato 45 anni dopo Stravinski) si è ben guardato dall’introdurre nel suo finale (come nel resto dell’opera) soluzioni tanto brillanti quanto lontane dallo scenario in cui l’opera prese vita. Dopodichè non sorprende che un musicista orientato al ‘900 come Abbado si sia letteralmente innamorato di quel finale! Che - lo ammise lui stesso - è puro Stravinski, quindi nulla a che vedere con Musorgski, del quale impiega peraltro genialmente le note... (Curiosità: Stravinski enarmonicamente adotta notazioni con i diesis al posto di quelle con i bemolle usate sempre da Musorgski.)

Il coro inizia a cappella (come previsto da Musorgski) con la frase musicale dell’Autore, ma subito (2h45’22”) Stravinski introduce una nuova frase composta intrecciando il motivo scelto da Musorgski con l’altro (parte anch’esso del corale popolare fornito dalla Karmalina) che l’Autore aveva ignorato. Il tema completo di Musorgski viene esposto con accompagnamento orchestrale a 2h45’48”, e alla conclusione (2h46’15”) ecco il tema della foresta (inizio atto V) che finora era rimasto in sottofondo, uscire allo scoperto in funzione di interludio, seguito (2h46’30”) da una sequenza discendente del coro, di pura mano di Stravinski.

A 2h46’51” è Dosifej da solo a cantare il primo verso; gli rispondono (2h47’09”) Andrej e i raskolniki (RE# minore, come dire... MIb) e in sottofondo, nei bassi, si ode distintamente il tema cantato dai Monaci alla fine del secondo e poi all’inizio del terzo atto (un bell’esempio di politonalità, non c’è che dire). La cosa si ripete: 2h47’28” Dosifej e 2h47’42” Andrej e fedeli (SOL#=LAb). Un ultimo intervento del coro e dei solisti (2h47’56”) porta alla chiusa (2h48’23”) in dissolvenza, sostenuta da un insistente pedale acuto di RE# e LA#, accompagnato da cupi rintocchi di campana.
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Da ultimo ascoltiamo l’opera come apparve per la prima volta in scena nel 1886 e come è stata ovunque rappresentata fino alla metà (come minimo) del secolo scorso: la versione di Rimski, che per più di mezzo secolo è stata l’unica disponibile sul mercato. Sappiamo che Rimski, oltre a creare l’orchestrazione (del tutto o quasi assente nei manoscritti di Musorgski) aveva anche apportato pesanti modifiche all’originale, consistenti in ampi tagli e in interventi sia su melodia che su armonia. Seguiamone quindi sommariamente i contenuti ascoltando questa edizione storica del Bolshoj del 1946.

Preludio: nella chiusa (3’28”) la tonalità, dal precedente FA#, anzichè a LAb è trasposta alla sottodominante REb.

Primo atto: nella prima scena (Kuzka e due Strelcy) a 6’50” troviamo un piccolo taglio (Kuzka manda al diavolo i commilitoni). Poi, a 8’09” sono omesse poche battute di dialogo all’arrivo di Šaklovityj presso lo scrivano. A 10’56” è omessa la prima parte della dettatura di Šaklovityj (cancellata sul manoscritto di Musorgski). Piccolissimo taglio a 13’03”, parte pure cancellata sul manoscritto. Idem a 13’32”.

A 15’12” ecco il proditorio (davvero) taglio di tutta la lunga scena che coinvolge scrivano e moscoviti. Soltanto una piccola parte di essa si giustificherebbe con l’assenza dal quaderno blu. Veniamo così privati di una fondamentale componente dello scenario dell’opera, quella che descrive la condizione di vita del popolo russo. Inoltre, la scena che segue - il tripudio popolare in attesa di Ivan Chovanskij - è stata da Rimski pesantemente modificata nella linea musicale e pure nel testo. Poco dopo (coro di lode, 19’45”) ecco altri interventi di Rimski, che aggiunge delle ripetizioni (il numero di battute raddoppia!) e alcuni incisi musicali di sua invenzione.

All’arrivo di Emma, piccolo taglio (22’29”) di un botta-e-risposta fra la ragazza e Andrej. Subito dopo (23’26”) un taglio che ci priva dell’offerta di Andrej di fare di Emma la zarina! Ancora tagli piccolissimi nel seguito (23’44”, minaccia di Andrej di usare la forza). E poi (24’45”) tagliata una parte dell’intervento di Marfa a proteggere Emma. E poi altro taglio (25’08”, è una cancellatura nel manoscritto) dove Marfa chiede ad Andrej se ha dimenticato il giuramento fatto in passato e lancia una velata minaccia di denunciarlo: qui viene a mancare la prima comparsa del tema dell’amore perduto di Marfa. Modifiche anche alle tonalità del canto di Marfa e Andrej. Ultimo piccolissimo taglio a 27’51”, allorquando Andrej sfida gli Strelcy. 

Dopo l’arrivo di Dosifej e il suo accorato appello, a 34’01” Rimski aggiunge all’originale alcune battute, reiterando la fanfara degli Strelcy per accompagnarne il corteo che si muove verso il Kremlino. Un’ultima, microscopica ma significativa modifica all’originale: a 36’43” Dosifej chiude il suo invito ai fedeli - a rinunciare a questo mondo - con una terza minore discendente (RE-SI) al posto della terza maggiore (RE#-SI) dell’originale. 

Secondo atto: dopo che Golicyn ha letto la focosa quanto erotica missiva della zarevna, ecco il primo gigantesco taglio (42’33”): se ne vanno la lettura della lettera della madre e l’intera scena dell’incontro con il Pastore protestante (questa manca per la verità nel quaderno blu). Si arriva quindi direttamente alla scena con Marfa. La cui aria (quella della profezia, 44’33”) ha un’introduzione di Rimski, diversa dall’originale, oltre ad essere innalzata di un semitono (da DO a DO#) e ancora presentare tonalità diverse nel seguito (MI e SOL minore, anzichè LAb) e modifiche nell’accompagnamento. 

Dopo l’esternazione di Golicyn si arriva ad un paio di tagli abbastanza corposi, durante il battibecco fra il padrone di casa e il sopravvenuto Ivan Chovanskij. Il primo a 53’14”, quando Golicyn ricorda all’ospite come fu la Duma a varare le leggi che Chovanskij reputa lesive dei suoi diritti e privilegi. Il secondo (53’46”) quando Golicyn ricorda al suo ospite fatti che lo mettono in cattiva luce. 

Arriva Dosifej e qui c’è il lungo taglio (55’48”, solo in piccola parte giustificato dalla mancanza del testo nel quaderno blu) che riguarda il passato del santone. Poi (57’20”) altro taglio, dell’offerta di Chovanskij di fare un colpo di stato e salire al potere. Poco dopo, tagliato (58’03”) un breve battibecco fra Dosifej e Golicyn, accusato di comportamenti reprensibili. Tagliato anche (58’49”) il successivo battibecco fra Dosifej e Chovanskij, per cui si passa direttamente al canto dei Monaci Neri.

Arriva Marfa e una parte del suo racconto (1h01’37”) dell’aggressione subita è soppressa. Ecco poi Šaklovityj e il finale, che Rimski inventa (1h02’56”) riprendendo - in RE maggiore, dal preludio - il motivo dell’alba sulla Moscova.

Terzo atto: Rimski ristruttura il coro dei Monaci Neri (1h03’56”) apportando modifiche sia al testo che alla linea delle voci. Per la canzone di Marfa Rimski impiega la strumentazione di Musorgski, come si deduce dall’attacco degli archi (1h06’41”). Poi qualche modifica ai tempi.

Per lo scontro Marfa-Susanna (1h10’11”) Rimski adotta la versione accorciata (come nell’edizione di Lamm) ma introduce modifiche all’armonizzazione e alle tonalità (Marfa, 1h12’43”). Dopo l’arrivo di Dosifej ecco il taglio (1h15’54”, giustificato dalla mancanza del testo nel quaderno blu) dello scambio di battute fra il santone e Susanna. Piccolo taglio (1h18’04”) alla risposta di Marfa a Dosifej, dove la donna prevede sventure. Nell’aria di Šaklovityj troviamo due piccoli e ravvicinati tagli (1h25’01” e 1h25’25”) quando il boiaro ricorda le vicissitudini politiche della Russia.

Dopo l’ingresso in scena degli Strelcy e quindi delle rispettive mogli, ecco un altro macroscopico taglio (1h30’45”): l’intera scena della canzone di Kucka, accompagnata da Strelcy e mogli. Si passa direttamente all’arrivo dello scrivano. Piccolo taglio (1h31’33”) alle minacce degli Strelcy al povero malcapitato. Microscopico taglio (1h33’16”) ad un’esternazione delle mogli. Poi, nella scena finale con Kuzka, Strelcy e Ivan troviamo più che altro delle trasposizioni di tonalità.

Quarto atto, primo quadro: i due cori delle contadinelle appaiono variati nell’armonizzazione e nell’accompagnamento. Rimski identifica poi (1h43’26”) l’emissario di Golicyn (che per Musorgski è un tenore) con il suo assistente Varsonofev (che è però un basso) per cui ne deve abbassare la tessitura originale, oltre che alterarne l’accompagnamento.

La Danza persiana (1h45’07”) presenta due piccoli tagli (10 battute in tutto) e piccole differenze di armonizzazione. La canzone finale (1h54’14”) presenta pure differenze più o meno marcate di armonizzazione.

Quarto atto, secondo quadro: pochi gli interventi di Rimski sull’originale (accompagnamento, armonizzazioni). Durante l’appello di Dosifej, subito dopo un inciso di Marfa (2h01’18”) la frase di Dosifej alla donna è abbassata dal DO al SIb maggiore.

Per il resto sono da rilevare soltanto tre piccoli interventi. Dapprima un piccolo taglio sull’ultima esternazione di Marfa (2h08’50”) che cerca di tranquillizzare Andrej. Poi (2h09’41”) un’aggiunta (una battuta!) al coro delle mogli degli Strelcy. Infine (2h10’10”) un altro minuscolo taglio al coro degli Strelcy.

Quinto atto: l’introduzione strumentale viene accorciata della metà. Il primo intervento piuttosto corposo di Rimski riguarda l’esternazione iniziale di Dosifej: alla quale viene aggiunto di bel nuovo (2h18’25”) un altro appello ai fedeli di argomento, potremmo dire, politico. La musica impiegata qui a sostenere il testo di Rimski è la medesima che nel primo atto aveva accompagnato il richiamo dello stesso Dosifej.

Poi troviamo trasposizioni di tonalità nei cori dei fedeli, e una ristrutturazione dell’ultima parte del coro, con un taglio di implorazioni a 2h26’18”, che porta direttamente all’entrata di Marfa. A proposito della quale poco dopo (2h33’34”) troviamo l’aria che non figura nell’edizione di Lamm, ma che si è già visto come sia da considerare del tutto autentica.

Infine (2h37’01”) ecco le battute scritte da Rimski per evocare le lingue di fuoco, che introducono il coro finale in LAb minore, chiuso (2h38’16”) sulle esternazioni (aggiunte da Rimski) di Marfa, Andrej e Dosifej, prima del sopraggiungere delle truppe dello zar Pietro e della trionfalistica chiusura in modo maggiore.
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(4. fine.)

18 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (2)


Si è detto: Chovanščina opera incompiuta. Dato che però in teatro, fin dal 1866, essa viene rappresentata in tutto il mondo, sarà opportuno scoprire in quale modo si è arrivati ad averne una versione (anzi, oggi più di una versione) completa e rappresentabile.

Innanzitutto: cosa ci ha lasciato Musorgski? Una montagna di manoscritti, oggi custoditi nelle biblioteche russe o presso privati, tutti corredati dalla data di completamento, che riportano la concezione dell’opera, le fonti storiche consultate e - soprattutto - lo spartito canto-pianoforte delle singole componenti (qualcosa di vagamente assimilabile a numeri nella tradizionale strutturazione del melodramma) la cui sequenza di produzione fu tutt’altro che rettilinea, richiedendo non meno di 8 anni. Preziosa per l’interpretazione delle volontà del compositore è la gran messe di informazioni - relative alla composizione dell’opera - contenuta in numerose lettere scritte da Musorgski allo sponsor Stasov e ad altri amici e conoscenti.

Il materiale originale è incompleto, mancando (rispetto alle dichiarate intenzioni dell’Autore) di due finali (Atto II e Atto V) e dell’orchestrazione, della quale Musorgski ha lasciato solo due brani dell’Atto III: la canzone di Marfa e il Coro degli Strelcy. Quindi stiamo messi ben peggio rispetto ai due Boris, che Musorgski aveva passabilmente completato (soprattutto il secondo). Qui, oltre a completare i due finali d’atto citati, per rendere l’opera rappresentabile era necessario inventarne quasi per intero la strumentazione!

E a questo pensò, ancora una volta, Nikolai Rimski-Korsakov, che si accollò l’immane compito, facendo pubblicare nel 1883 la sua ricostruzione e riuscendo a far rappresentare l’opera già nel febbraio del 1886. É la versione che successivamente ha girato i principali teatri del pianeta, decretando il successo dell’opera, ed è stata oggetto di diverse registrazioni.


Ma inevitabilmente l’intervento di Rimski si portò dietro (proprio come - e più che - per il Boris e per la Notte sul Monte Calvo) le sue impronte inconfondibili, consistenti nel tagliare senza pietà interi passaggi ritenuti carenti e nel rivestire la musica di Musorgski di una (per noi assai accattivante, ammettiamolo) patina di romantica occidentalità; interventi così marcati da quasi stravolgere i tratti somatici - da lui evidentemente ritenuti rozzi e primitivi - dell’originale. Più avanti seguiremo sommariamente una registrazione di questa versione, alla quale va riconosciuto comunque il grande merito di aver fatto conoscere al mondo l’opera fin dalla sua nascita.    

Nel 1913 Diaghilev la mise in scena a Parigi e per l’occasione - ritenendo la versione di Rimski nientemeno che un attentato alle volontà di Musorgski, del quale aveva dato un’occhiata ai manoscritti - chiese a Stravinski (che poi fece coinvolgere nell’impresa anche Ravel) di strumentarla ex-novo. Cosa che non accadde se non in minima parte; in particolare Ravel riorchestrò (Atto I) la scena dei moscoviti che bistrattano lo scrivano; poi (Atto III) la canzone di Kuzka e degli Strelcy. Quanto al compositore russo, riorchestrò (Atto III) l’aria di Šaklovityj (affibbiata per l’occasione a... Dosifej, in modo da farla cantare al grande Šaliapin) e (atto V) riscrisse, ampliandone le dimensioni, il coro finale:


Quest’ultima parte è stata impiegata nella produzione di Claudio Abbado a Vienna nel 1989, di cui parleremo.

Per fortuna ci fu chi (Pavel Lamm, nel 1931) si prese l’incarico di raccogliere, sistemare e pubblicare tutto il materiale originale (disponibile a quel tempo) di Musorgski, mettendo quindi anche altri compositori nelle condizioni di completare ed orchestrare il lavoro.


Per la verità anche l’edizione di Lamm lascia aperti alcuni dubbi, relativi a correzioni e/o tagli apportati sui manoscritti originali da mani che sembrerebbero a volte quelle del compositore, ma a volte del tutto estranee. In questi casi, Lamm ha pubblicato tutto, corredandolo di note a piè pagina.

Il primo a cimentarsi nella strumentazione, e a stretto giro, fu il noto musicista-musicologo Boris Vladimirovich Asafiev, collaboratore di Lamm, il cui lavoro - pesantemente criticato ai suoi tempi da una specie di giuria di musicisti coinvolta dallo stesso Lamm - è fatalmente caduto nel dimenticatoio (leggasi: l’Archivio russo di Stato della Letteratura e delle Arti, RGALI) e da lì nessuno finora si è premurato di riportarlo alla luce e tanto meno alle scene. 

A complicare ulteriormente le cose, molti anni dopo l’edizione di Lamm (precisamente nel 1946) fu rinvenuto fra le carte di un poeta amico di Musorgski (Arseny Arkadyevich Goleníshchev-Kutúzov) un manoscritto del compositore (denominato quaderno blu e pubblicato nel 1972) contenente una specie di bella copia del libretto, preparata dall’autore verosimilmente dopo la composizione. In tale manoscritto mancano alcune parti presenti nello spartito (pubblicato da Lamm). La conclusione che i musicologi (e anche alcuni direttori) traggono è che Musorgski medesimo avesse deciso questi tagli, senza però aver avuto modo o tempo o voglia di retro-applicarli anche allo spartito: di conseguenza andrebbero scrupolosamente rispettati. Conclusione peraltro contestabile, chè se per assurdo si dovesse seguire come vangelo il quaderno blu, allora l’opera si dovrebbe interrompere dopo le prime invocazioni di Dosifej e raskolniki, e prima dell’entrata in scena di Marfa: in pratica, verrebbe a mancare l’intero finale e non solo la sua chiusa!

Chi invece portò a termine l’impresa di strumentazione (e completamento) fino alla pubblicazione della partitura, fu Dimitri Shostakovich. Il quale nel 1940 si era cimentato nella ri-orchestrazione del Boris per adattarlo agli enormi spazi del Bolshoj, ma con esito francamente deludente (un lavoro caduto totalmente nel dimenticatoio) e invece nel 1958 approntò la sua versione dell’opera (con un finale di sua ideazione) che è unanimemente ritenuta quella che più si avvicina alle (o che meno si discosta dalle, se si preferisce) presunte intenzioni di Musorgski, tanto che da allora ha cominciato a circolare nei teatri ed è stata più volte incisa su disco e video.


Shostakovich adottò in-toto il materiale pubblicato da Lamm che, come detto, contiene anche le parti cancellate sui manoscritti originali e quelle non riportate da Musorgski nel quaderno blu. Tutto ciò ha come inevitabile conseguenza quella di ingenerare approcci diversi all’esecuzione: c’è chi segue comunque l’edizione completa di Lamm(-Shostakovich) e chi invece (Abbado fu tra i primi) applica alcuni di quei tagli ritenendo che rispecchino le ultime volontà dell’Autore.

Già nel 1959 fu girato un film basato sulla versione-Shostakovich, film peraltro caratterizzato da generose sforbiciate, con la musica diretta da Evgenij Svetlanov. In teatro, la prima rappresentazione di questa versione ebbe luogo venerdi 25 novembre 1960 al Kirov di Leningrado sotto la bacchetta di Sergey Yeltsin. Essa fu poi impiegata a Sofia nel 1986 (ne parleremo); nel 1989, come detto, Claudio Abbado presentò a Vienna questa versione con il finale di Stravinski. Dal 1990 è stato Valery Gergiev a impiegare regolarmente (anche se con qualche... ritocco) la versione-Shostakovich, che fu oggetto anche delle rappresentazioni da lui dirette nel 1998 alla Scala. Ed altri teatri hanno seguito l’esempio, con produzioni più o meno fedeli a questa versione.

Riassumendo: oggi esistono sul mercato (cioè pubblicate ed utilizzabili da chiunque) due versioni principali dell’opera: quella di Rimski del 1883 e quella di Shostakovich del 1958 (la terza versione orchestrata, quella di Asafiev, come detto è rimasta lettera morta.) In più è disponibile il materiale di Stravinski impiegato da Abbado nel 1989 per il finale dell’opera.
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E del finale dell’opera ci occupiamo tra poco, descrivendone le quattro diverse forme. Prima però diamo una scorsa alle tre versioni dell’altro finale, quello dell’atto secondo, pure rimasto incompiuto. Quell’atto si chiude, nel manoscritto originale, con la notizia data da Šaklovityj dell’indagine che lo zar Pietro ha ordinato sui Chovanskij, a fronte della denuncia anonima (ma in realtà di mano dello stesso Šaklovityj) arrivata contro di loro: addirittura vi manca l’ultima battuta di musica, aggiunta da Lamm. Evidentemente Musorgski, che sappiamo come nell’iter di composizione saltasse di palo in frasca, deve aver lasciato in sospeso quel finale (per il quale era incerto fra una semplice ma sinistra cadenza orchestrale e un... quintetto!) proponendosi di completarlo successivamente, cosa che evidentemente non è avvenuta.

Rimski invece - come Stasov convinto assertore della grandezza storica di Pietro il Grande - ha pensato bene di chiudere l’atto aggiungendo di sua iniziativa il motivo dell’alba sulla Moscova (dal Preludio) probabilmente come riferimento ideale e allegorico all’avvento al potere dello zar innovatore.

Shostakovich è stato ancora più esplicito, aggiungendo da parte sua una fanfara che si ritroverà anche più avanti (atto IV e V) e che caratterizza musicalmente le truppe di Pietro.

Abbado ha scelto invece un’altra soluzione ancora, forse più vicina alle... incertezze di Musorgski, copiando qui (trasposte da MIb a RE minore) 5 battute di musica mesta e lugubre che si ritroveranno verso la fine dell’Atto III, al momento dell’invito di Chovanskij a Strelcy e consorti a tornarsene a casa.
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E ora, il finale dell’opera, che merita un discorso assai articolato, data la sua importanza non soltanto musicale. Di esso esistono (ad oggi) quattro versioni pubblicate: originale di Musorsgki (1880, incompleto e non strumentato, pubblicato da Lamm nel 1931); Rimski (1883); Stravinski (1913) e Shostakovich (1958). 

Cominciamo ovviamente da Musorgski (e da Lamm che si è limitato a metterlo in bella copia). Dopo l’incontro fra Marfa e Andrej, la scena finale si apre con gli squilli di tromba (i soldati di Pietro) e l’appello di Dosifej: sono le trombe dell’Eterno che ci chiamano al sacrificio nel fuoco, proclama il santone.

Qui si inserisce una seconda parte del dialogo fra Marfa e Andrej (lei invita l’amato a seguirla al sacrificio) che Lamm non ha trovato tra i manoscritti di Musorsgki (quindi non è presente nella sua edizione). Tuttavia l’Autore ne parla in una delle sue lettere (come detto, durante gli anni della composizione, 1872-1880, egli intrattenne una fitta corrispondenza con il suo mentore Stasov e con altri amici) e pare certo che l’aria fosse stata cantata da Daria Leonova, un’artista che Musorsgki era solito accompagnare nei suoi recital: Rimski deve averne avuto a disposizione il manoscritto, tanto che ha inserito il brano nella sua edizione. Esso viene di norma ritenuto originale (oltre che mirabile...) e quindi anche Shostakovich lo ha incluso nella sua versione.  

Ora si riodono le trombe di Pietro e i raskolniki cantano lodi al Signore. Dosifej invita ancora i suoi fedeli ad incamminarsi verso il sacrificio: la luce della verità vincerà contro le tenebre infernali.

Fin qui tutte le versioni - nella sostanza - concordano. Mentre divergono anche profondamente in ciò che segue.

Musorgski progettò un coro finale dei raskolniki, che invocano il Signore, loro scudo e pastore. Per comporlo trasse lo spunto da un corale preso dalla tradizione russa, e il cui testo/melodia venne segnalato al compositore da un’amica, che lo aveva a sua volta udito da una cantante. Questo riferimento figura nell’autografo di Musorgski (riportato anche da Lamm) con l’indicazione: Cantato da Praskovia Zaritsa e fornito da Liubov Karmalina.


Da questo frammento (due strofe di 10 e 17 battute, recanti la sola melodia) Musorgski ricavò l’abbozzo del coro finale (LAb minore) impiegando le prime 10 battute della seconda strofa (cantate a cappella, come da lui ipotizzato proprio in una lettera alla Karmalina) e ripetendole (tagliando una battuta) con l’accompagnamento orchestrale. Ne modificò parzialmente il testo, nella sua prima parte, in entrambe le esposizioni del tema. Con tutta evidenza non può essere questa la chiusa di un’opera (come minimo ci si aspetterebbe una cadenza conclusiva). Musorgski aveva anche qui lasciato scritte le sue idee (il contrasto fra il coro dei raskolniki e le trombe di Pietro) su come chiudere l’opera, oltre a manifestare forti dubbi sull’opportunità di mostrare il rogo in scena, oppure di lasciarlo solo immaginare allo spettatore.

Ecco quindi che, a partire da Rimski, chiunque si sia cimentato con l’opera ha dovuto necessariamente completare questo torso lasciato da Musorgski(-Lamm) con qualcosa di proprio: non certo nuova musica (a parte piccoli dettagli) ma utilizzo di musiche dell’Autore, riprese da altre parti del lavoro.
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Il primo a cimentarsi con l’impresa fu quindi Rimski (per le rappresentazioni del 1886). Aggiunse in testa al coro 6 battute di un tema del fuoco (musica che richiama curiosamente il wagneriano Loge!) e poi impiegò testo e melodia come riportati da Lamm, sempre in LAb minore, ma con agogica diversa e orchestrazione che ribadisce gli interventi delle trombe di Pietro. Alla chiusa del coro aggiunse di suo le ultimissime esternazioni di Marfa, Andrej e Dosifej (5 battute) e poi riprese il tema trionfale di Pietro per chiudere l’opera in modo enfatico e spettacolare, un autentico panegirico per lo zar innovatore.

Sulla fedeltà della chiusa alle intenzioni di Musorgski si possono ovviamente avanzare dei dubbi, giustificati dall’atteggiamento politico di Rimski, palesemente ideologico e pregiudizialmente favorevole a Pietro. 
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Nel 1913 fu la volta di Stravinski che, su incarico di Diaghilev, approntò un nuovo finale, abolendo tutto ciò che aveva fatto Rimski (incluse quindi le 6 battute del fuoco, le ultimissime esternazioni di Marfa, Andrej e Dosifej e la trionfale fanfara conclusiva) per concentrarsi completamente sul coro, per il quale impiegò il testo del corale recapitato all’Autore dalla Karmalina, mentre la melodia principale è ancora quella della seconda strofa (stessa scelta di Musorgski) ma ne viene impiegata anche parte della prima (cosa ne avrebbe pensato l’Autore?) Al coro dedicò particolare cura (vi interviene anche la voce solista di Dosifej, oltre a quelle di Marfa e Andrej mescolate con il coro) e ad esso applicò anche alcuni suoi, diciamo così, ritrovati musicali già sperimentati in precedenti lavori.

A parte le modulazioni di tonalità e qualche sapiente enarmonia (DO#=REb, RE#=MIb, SOL#=LAb) Stravinski impiega come riempitivo (poi anche Shostakovich lo seguirà su questa strada) le figurazioni che compaiono all’inizio del quinto atto (la foresta). Fa capolino in contrappunto anche una reiterata citazione del coro dei Monaci dell’inizio dell’Atto III. La chiusa si presenta - agli antipodi di quella di Rimski - con una progressione tonale desunta dal Preludio e con un lento dissolversi del suono, accompagnato da lugubri rintocchi di campane.

C’è chi ipotizza (Claudio Abbado per primo, deciso assertore della validità di questa soluzione, da lui adottata a Vienna nel 1989) che essa sia quella che corrisponde più fedelmente alle intenzioni di Musorgski, come espresse in altre parti della sua corrispondenza: in sostanza, niente trionfalismi pro-Pietro, ma una conclusione piuttosto disincantata e quasi pessimistica. Si legga in proposito come il grande Direttore spiegò al compianto Sergio Sablich le motivazioni della scelta di questo finale stravinskiano. 
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Infine Shostakovich, che produsse la sua versione nel 1958. Tenendo buono (salvo interventi minori sull’orchestrazione e aggiungendo alle voci del coro quelle di Marfa - prima parte - e Dosifej - seconda) tutto ciò che aveva proposto Rimski (le 6 battute del fuoco, le esternazioni finali e le strombettate dei soldati di Pietro, escluse le 4 battute conclusive, sostituite da due di transizione) ma aggiungendo poi di sua iniziativa tre spezzoni di musica e coro, precisamente:

- ripresa dall’inizio dell’atto quinto del motivo della foresta (qui a note di lunghezza doppia, negli archi bassi e viole) che poi accompagna il successivo coro (qualcosa di simile a quanto fatto da Stravinski);
- coro dei moscoviti, ripreso dal primo atto;
- ripresa (dal Preludio) del motivo dell’alba sulla Moscova.

Anche qui, taluni critici (vedremo come le scelte dello stesso Valery Gergiev si schierino su questo fronte) tendono a censurare quest’ultimo intervento, che metterebbe troppa carne al fuoco, andando ben al di là delle intenzioni di Musorgski. Poi però le critiche divergono (succede anche per il finale del wagneriano Ring, oggetto di interpretazioni consolanti o pessimistiche): c’è chi - anche in forza della scelta di Shostakovich riguardo la chiusura dell’atto secondo - interpreta il ritorno finale del motivo dell’alba come una presa di posizione pro-Pietro, quindi positiva ed ottimistica; e chi invece interpreta il ritorno del coro dei moscoviti desolati e quello dell’alba come una cinica (e forse autobiografica, per Shostakovich) sfiducia nel progresso dell’umanità (e della Russia in particolare) poichè questi ritorni ciclici sarebbero lì a testimoniare che alla fine tutto torna come prima... E chi può sapere con certezza quale fosse in proposito il pensiero di Musorgski? O è proprio l’incertezza dello stesso Autore sul significato da dare alla conclusione dell’opera che gli impedì di completarla (un po’ come succederà a Puccini per Turandot?)
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Prossimamente proveremo a seguire da vicino, nei dettagli o per differenze, alcune esecuzioni dell’opera nelle diverse versioni/esecuzioni, per meglio comprenderne i rispettivi contenuti. In particolare:

- Versione-Shostakovich:
esecuzione integrale diretta da Emil Tchakarov a Sofia, del 1986;
commenti all’esecuzione di Valery Gergiev al Teatro Marinskii, del 2012;
commenti all’esecuzione di Claudio Abbado all’Opera di Vienna, del 1989;
 
- Versione-Rimski diretta da Boris Khaikin al Bolshoj nel 1946.

Come ausilio all’ascolto, ho predisposto questo testo del libretto, che contiene quanto pubblicato da Pavel Lamm, con l’evidenziazione dei principali interventi (soprattutto tagli) praticati in origine da Rimski ma in parte seguiti anche da Abbado; delle aggiunte di Rimski e (per il finale) di Shostakovich e Stravinski. Lo scopo è di rendere possibile seguire le diverse versioni/interpretazioni dell’opera leggendo lo stesso testo; avendo contemporaneamente la possibilità immediata (attraverso le colorazioni) di apprezzare (o disprezzare...) le scelte di autori e interpreti.
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(2. continua...)

11 febbraio, 2019

Alla Scala una Cenerentola sempre giovane


Proseguendo la serie dei revival di produzioni ormai catalogabili come storiche (domanda: nel 2060 si riprenderà ancora la Traviata di Cherniakov?) la Scala ha ospitato ieri la prima della Cenerentola della premiata coppia Abbado-Ponnelle, ripresa a 46 anni di distanza dalla sua originaria comparsa nel 1973. Produzione già riproposta da allora in diverse stagioni (74, 75, 82, 01, 05) e oggi affidata alle esperte mani di Grischa Asagaroff, ben coadiuvata da Marco Filibeck alle luci. Immortalata anche in DVD (con altri interpreti rispetto al ’73, e con riprese fatte in studio e in play-back) nel 1981. E proprio a Claudio Abbado, a 5 anni dalla scomparsa, è dedicata questa ripresa. Che mantiene, più o meno, anche i (consueti) tagli: qualche recitativo secco e i due contributi di Luca Agolini (coro di apertura atto secondo e aria di sorbetto di Clorinda). Cassata anche l’altra componente agoliniana (Alidoro) in favore del Rossini autentico.

Nel progettare la loro Cenerentola, il librettista Ferretti e Rossini si erano posti un obiettivo assai chiaro: sfrondare il racconto di Perrault da ogni e qualsivoglia componente favolistica, magica, miracolistica, bambinesca (aspetti che si reputavano sgraditi se non addirittura offensivi per l’evoluto pubblico romano di allora) per mettere più che altro in risalto - pur in un contesto giocoso - gli aspetti drammatici, sociologici ed etici del racconto, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo come pari-opportunità. (Lo stesso Barbiere, di un anno precedente, dietro la maschera del buffo poneva problemi mica da poco, quali l’avvento della borghesia alla guida della società.) Quindi niente comari-fatine, zucche-carrozze e topi-cavalli che appaiono dal nulla, ma solo un po’ di alone arcano col quale rivestire un illuminato filosofo (Alidoro, precettore del principe Don Ramiro, una specie di Marco Pannella ante-litteram) che procura alla povera Angelina i mezzi per godere, appunto, delle pari-opportunità, negatele dal retrivo padre e dalle sorellastre viziate.

E Ponnelle(-Asagaroff) interpreta alla perfezione l’approccio degli Autori, facendone passare il messaggio col mettere in ridicolo gli aspetti più retrivi della società. Niente miracoli, ma nemmeno avanspettacolo: le gag sono limitate allo stretto necessario e tutto viene mantenuto entro i confini del buon gusto. E per questo l’allestimento resiste alla grande anche in tempi di regie fatte solo per far parlare del regista, ma di fatto prodotti usa-e-getta.
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Che dire poi della prestazione musicale?

Intanto si apprende dal curatissimo libretto della Scala che Angelina-Cenerentola è diventata improvvisamente soprano, come pure la Tisbe, e che Alidoro ha innalzato la sua tessitura a quella di tenore... evabbe’, è il progresso, bellezza! (Il testo pubblicato nel 2005 riportava correttamente le tessiture dei ruoli... o forse è Alberto Zedda che ha inviato dall’aldilà un aggiornamento alla sua edizione critica, chissà.)

Marianne Crebassa per fortuna canta da mezzosoprano qual è e quale l’ha voluta Rossini. La sua è stata una prestazione non strepitosa, tuttavia il personaggio è uscito discretamente bene: un po’ legata all’inizio, è poi cresciuta nel corso della recita, arrivando ben rodata in tempo per la sua finale aria strappalacrime, che ha anche strappato... applausi a scena aperta, applausi che per la verità hanno accolto tutti i principali numeri dell’opera.  

Don Ramiro è una parte non propriamente impossibile (peraltro nell’aria del second’atto presenta diversi DO sovracuti...) e lo smilzo Maxim Mironov l’ha padroneggiata assai bene (a proposito di acuti, ha esagerato anche con un RE): peccato che la sua voce non abbia sufficiente potenza per diffondersi adeguatamente in spazi come quelli del Piermarini altrimenti, invece di un più che discreto, si meriterebbe un più che buono...   

Dandini è Nicola Alaimo (credo che Cenerentola fosse anche il suo debutto in carriera); personalmente lo ricordo in questa parte già al ROF nel 2010... direi che da allora, anche grazie al passaggio su terreni diversi, vedi Falstaff, ha imparato a meglio controllare l’emissione, a giudicare dall’assenza di sguaiatezze e schiamazzi.

Carlos Chausson è un più che convincente Don Magnifico, gran potenza e rotondità di voce, ha brillantemente superato gli scogli della sua parte (anche quantitativamente) assai impegnativa. Subito in spolvero con i rampolli femminini, ha poi ben cantato  l’aria del second’atto e ha contribuito alla riuscita del duetto-di-bassi a suon di scioglilingua con Alaimo.

Erwin Schrott (anche lui non ha velleità tenorili...) - da qualche anno (esordio nel Turco al ROF-2016) si dedica a Rossini - è un ottimo Alidoro, personaggio cui conferisce appropriatamente quell’arcano aplombe soprannaturale che ne caratterizza la figura. Pregevole la sua interpretazione dell’aria del primo atto, quella di Rossini e non di Agolini.  

Le due sbifide sorellastre vengono dalla scaligera Accademia e devo dire che si sono ben portate, la Capitelli in primo luogo, ma anche la Giorgadze. Prezioso il loro contributo agli ensemble, in particolare al sestetto del second’atto.

Il coro è impegnato solo al maschile, e per di più senza grandi difficoltà, quindi Casoni ha fatto il suo dovere, e basta così.

Ottavio Dantone, di professione barocchista, ha riportato saldamente questo Rossini nel ’700, il che non è affatto un demerito, tutt’altro. Apprezzabile la sua concertazione, in specie negli insiemi, dove basterebbe poco a trasformare le mirabilia di Rossini in puro e semplice caos sonoro.
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Pubblico meno folto rispetto a quello della recente Traviata, ma prodigo di applausi per tutti.