sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel
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18 ottobre, 2025

Il Donizetti bonapartista alla Scala.

Eccomi a commentare l’arrivo al Piermarini - piacevolmente affollato e ben disposto - della produzione (originaria di Londra, 2007) de La Fille du Régiment di Gaetano DonizettiPrima dell’inizio ecco l’annuncio di un raffreddore che – per fortuna? – non ha impedito a Florez di scendere in campo, evitando quindi una nuova falsa partenza, dopo quella di Korchak in Rigoletto.

Della messinscena si conosceva praticamente tutto, grazie alle registrazioni accessibili in rete (Vienna, MET, …) e qui Christian Räth (che riprende il lavoro di Pelly) non si è permesso di mutare alcunchè, dimostrando quindi ancora una volta che le regìe creative ma anche intelligenti non hanno età, e si possono apprezzare anche quando si conoscono a menadito.

Quanto al contenuto, la produzione mantiene largamente i dialoghi di Agathe Mélinand, già impiegati a Vienna e altrove, con piccoli tagli e varianti per le due entrate della Duchessa. 

E in effetti a livello di regìa l’unica curiosità di questa ripresa milanese riguardava proprio l’impiego dell’interprete della Duchessa di Crakentorp, tradizionalmente (non solo da Pelly) affidata a personaggi famosi in assoluto, o almeno nel luogo della rappresentazione. Nelle sue peregrinazioni, l’opera ha ospitato in quel ruolo celebri attrici e più o meno celebri cantanti, con interventi abbastanza fuori dal contesto. Senza dubbio la scelta più azzeccata è stata quella di Pelly a Vienna (2007) dove Montserrat Caballè si esibì anche interpretando una canzonetta svizzera ('g Schätzli): cosa per nulla gratuita, ma pienamente compatibile con il soggetto dell’opera, dove la Marchesa confessa di aver convissuto con Robert a Ginevra.    

Qui devo personalmente deplorare le modalità della partecipazione della nostra amata Barbara Frittoli: che si è limitata ai quattro versi da recitare, più un paio di moine e un urlaccio… Per poi uscire per gli applausi finali mescolata agli altri interpreti minori. Davvero inspiegabile averla relegata a comparsa: si può capire che lei non abbia più l’età per cantare Marie… ma perché ha accettato di esporsi a questa patetica figura?

Bene, dato quindi a Räth ciò che è di Räth Pelly, passo subito agli addetti ai suoni donizettiani. 

Evelino Pidò (72 anni…) ha alle spalle abbastanza navigazioni per saper tenere ferma la barra del timone di questa barca perennemente ricoverata in darsena per operazioni di maquillage, prima di ogni uscita verso nuove crociere. [I curiosi possono apprezzare le cospicue differenze fra il testo proposto qui nel 2007 e quello odierno.] L’Orchestra scaligera gli ha dato una grossa mano, mettendo in luce i multiformi pregi della partitura: slanci marziali o amorosi, rudezze, meschinità, ipocrisie e… comicità.  

Julie Fuchs e il menomato Juan Diego Florez non hanno tradito le attese (conservo un bel ricordo di loro in un Comte Ory al ROF del 2022) e anche ieri hanno monopolizzato l’attenzione (e gli applausi) del pubblico. Da incorniciare il lungo duetto al loro primo incontro (Depuis l’instant).

Lei si è calata benissimo nella parte di questa maschiaccia ribelle, a disagio negli abiti che la nobiltà le vorrebbe imporre, ma capace di sinceri sentimenti e, alla fine, gratificata dall’unione con il plebeo tirolese che le aveva salvato la vita. Voce ben impostata in tutta la gamma, leggero vibrato negli acuti e agilità negli abbellimenti (colorature, arpeggi e picchiettati spesso volutamente parodistici, fino alle proditorie stonature nella canzone di Venere). Efficace già alla prima entrata (Au bruit de la guerre) con il successivo duetto con Sulpice. E poi nel trascinante Il est là, Il est là, Il est là, morbeu! Ma anche patetica e dolente nella sua romance al termine del primo atto (Il faut partir). Simpatica e sfottente nel trio (Les amours de Cypris) con Sulpice e sua madre all’inizio del second’atto e poi perfetta nel passare nella successiva aria dal dimesso Par le rang et par l’opulence al trionfante Salut à la France! chiuso da un folgorante MIb. E infine emozionante (Quand le destin, au milieu de la guerre) nell’omaggio al benemerito Reggimento.

L’attuale Direttore Artistico del ROF cerca con mestiere di sfidare il tempo: sarà stato anche il raffreddore, ma la sua voce non ha più lo smalto e la brillantezza dei bei tempi, così i 9 (8 scritti +1 di tradizione) DO acuti del primo atto (Pour mon âme) non sono proprio risuonati come saette nel cielo del Piermarini. E l’ugualmente spurio DO# della Romance del secondo (S’il me fallait) è rimasto direttamente sulla carta, sostituito dal regolamentare LA.

[A proposito di cantiere aperto (riferito a libretto e partitura): di quest’ultima romanza di Tonio, che inizia con Pour me rapprocher de Marie, esistono due versioni, una (presumibilmente l’originale) in SIb, e l’altra (di tradizione) in LA maggiore, tonalità che consente al tenore di esibire il (non scritto) sovracuto sulla mediante DO#. Le due versioni differiscono anche per poche battute finali (quella in LA è accorciata di 7), ma c’è stato qualcuno (qui il franco-congolese Patrick Kabongo, lo scorso aprile, a 1h52’39”) che ha cantato la versione in SIb, il che gli ha consentito di sciorinare un RE naturale sovracuto da record…]

Certo, in scena non c’erano solo i due protagonisti, e quindi va elogiato senza riserve il Sulpice di Pietro Spagnoli, voce e portamento proprio da caricatura di autorevole sergente di ferro. Oltre che nel trio con Marie e Marchesa, si è anche distinto nell’indiavolato terzetto con i due protagonisti (Tous les trois réunis) che precede il finale.

Lo stesso dicasi per Géraldine Chauvet, che ha dato al personaggio della peccatrice Marchesa di Berkenfield il giusto risalto. Già a partire dal suo ingresso (Pour une femme de mon nom) con gli equivoci riferimenti all’intraprendenza dei militari francesi.

Sempre all’altezza il Coro di Malazzi. Gli altri interpreti han fatto correttamente il loro dovere come da contratto.

Alla fine una decina di minuti di applausi per tutti: i tre protagonisti in testa, ma anche Pidò e la coppia che ha ripreso Pelly.


14 ottobre, 2025

Gli esportatori di democrazia tornano alla Scala.

Per la quinta volta dal dopoguerra torna alla Scala La Fille du Régiment di Gaetano Donizetti, di cui oggi viene proposto (ripreso da Christian Räthl’allestimento - universalmente apprezzato - di Laurent Pelly (ROH, gennaio 2007, poi portato in giro per il mondo). 

Opera nata nella Parigi del 1840, ancora in piena diatriba transalpina riguardo al rimpatrio da SantElena dei resti (ma c’era chi sospettava che fosse tutto un fake…) di Napoleone. Soggetto che sembrava fatto apposta per tener vivi gli scontri ormai decennali fra le curve rivoluzione-restaurazione.

Opera dal soggetto, neanche tanto scopertamente, filo-napoleonico:

- il 21° reggimento di Bonaparte che occupa il Tirolo governato dalla restaurazione;

- una nobildonna, esponente della restaurazione, che si innamora ed ha una figlia (Marie, fatta passare per sua nipote, onde evitare scandali) da un militare del reggimento francese (Robert);
- Marie che, caduto il padre, è accolta come mascotte dal reggimento e poi salvata da un mortale incidente quasi per caso da Tonio (che è un fiero oppositore dei connazionali restauratori) del quale si innamora;
- la madre di Marie che organizza per lei un matrimonio di interesse per proteggere il suo patrimonio;
- il 21° reggimento che rende giustizia a tutti, imponendo il lieto fine di sapore bonapartista: alla malora la restaurazione, sugli scudi la coppia vivandiera-soldatino.

Insomma, un soggetto solo apparentemente leggero, in realtà assai impegnato (così almeno dovette apparire nel 1840 ai francesi…) al di là dell’approccio comique dell’opera. Il quale però ne ha sicuramente favorito la planetaria diffusione, spesso accompagnata da manomissioni (ma non sempre in peggio…) per adattarla alle diverse piazze e interpreti.

E quanto agli interpreti di questo 2025, già ne conosciamo almeno quattro, emersi da almeno tre produzioni della Scala e della Staatsoper a partire dal 2007. In quell’anno, a febbraio-marzo, il Piermarini ospitò l’opera per l’ultima volta, con la fortunata regìa di Filippo Crivelli (scene e costumi di Zeffirelli) e un Florez scatenato, sotto la direzione di Abel. Proprio Abel diresse due mesi dopo l’esordio della citata messinscena di Pelly a Vienna, sempre con Florez (e la Dessay). Produzione ripresa colà nel 2016, senza Florez ma con la Julie Fuchs diretta da Evelino Pi, con il quale torna in questa ripresa scaligera.

Sapendo quindi tutto dei quattro principali interpreti della messinscena, non ci resta che una curiosità. All’inizio del second’atto compare la Duchessa di Crakentorp, personaggio che dovrebbe essere (come il Notaio) solo recitante, in omaggio al genere Singspiel (detto alla tedesca) dell’opera. Per tradizione lo si fa interpretare – noblesse oblige - ad un noto rappresentante del bel mondo, non necessariamente del teatro musicale.

Ad esempio, nell’ultimo allestimento scaligero del 2007 il privilegio toccò nientemeno che alla somma Anna Proclemer. Nella citata produzione viennese del 2007 Pelly invitò una grande beniamina del pubblico, Monserrat Caballè, alla quale ovviamente fece anche cantare una simpatico walzerino svizzero, 'g Schätzli.

Poi, nel 2016, fu invitata un’altra famosa cantante viennese, Ildikó Raimondi, nota interprete di Johann Strauss, che (a partire da 1h23’08” del citato video) fa il suo ingresso in scena, manda uno spartito al Direttore e canta (1h25’26”) un adattamento di By Strauss di Ella FirzgeraldAncora, nel 2019 al MET, l’ospite fu l’attrice Kathleen Turner.

Così, anche per questa speciale occasione l’invito ha riguardato una cantante che per anni ha calcato i palcoscenici di tutto il mondo, Scala ovviamente inclusa: Barbara Frittoli. Vedremo quale sorpresa ci riserverà…


12 maggio, 2024

È tornato alla Scala il DonPasquale di Livermore

Dopo un gradevole aperitivo beethoveniano con l’Orchestra Giovanile di Milano, eccomi all’affollatissima Scala dove, poco dopo il dittico verista, è andata in scena un’altra ripresa di una recente produzione (2018): il donizettiano DonPasquale ideato da Davide Livermore.

Rispetto al 2018 cambiano: il podio (Evelino Pido’ al posto di Chailly); il Maestro del Coro (Bruno Casoni > Alberto Malazzi) e due dei cinque interpreti: Norina (Rosa Feola > Andrea Carroll) ed Ernesto (Renè Barbera > Lawrence Brownlee). Rimangono impavidi al loro posto e ai loro ruoli il protagonista Ambrogio Maestri, il Dottor Malatesta Mattia Olivieri e il Notaro Andrea Porta.

Ricordo – purtroppo - di non essermi affatto entusiasmato sei anni orsono: uno Chailly piuttosto pesantuccio e un Livermore già allora abbastanza ripetitivo. Le premesse non erano quindi troppo allettanti, ma alla fine devo dire che nel complesso lo spettacolo non mi ha poi totalmente deluso. Certo, l’allestimento dell’ex-tenore piemontese non è che sia invecchiato bene, come un buon dolcetto d’Alba, ma insomma non si è neanche… ehm, maderizzato, ecco!

Parte del merito dell’ampia sufficienza che mi sento di garantire a questa ripresa va alla parte musicale, in particolare agli interpreti. Ambrogio Maestri è ovviamente una sicurezza ed è stato giustamente, e prevedibilmente, il mattatore della serata. Ma anche gli altri tre interpreti principali (più il comprimario Porta) hanno ben meritato: Andrea Carroll da Bethesda ha sfoggiato una vocina pungente e – per me, almeno – adatta al personaggio della Norina, una ragazza un po’ gattina morta e un po’ cinica femminista. Il rotondetto afroamericano Lawrence Brownlee è stato un Ernesto ingenuo e patetico come da copione, e lo ha rivestito dalla sua bella voce acuta e penetrante… rossiniana. Mattia Olivieri a sua volta ha riscosso ampi consensi per la sua prestazione solida e senza sbavature.

Bene anche il coro di Alberto Malazzi, pur nella limitatezza (solo terzo atto) del compito cui è chiamato. Quanto alla direzione/concertazione del navigato Pidò, gli rimprovero qualche eccesso bandistico, per il resto la definirei di onesta routine, ecco.

Tutto sommato, una ripresa che mi sento di giudicare dignitosa, ma non di più.

27 aprile, 2023

Pagelle sulla Lucia scaligera targata Oropesa-JDF/Chailly-Kokkos

La quinta (su 8) rappresentazione di Lucia di Lammermoor è andata in scena ieri sera alla Scala, in un teatro ben lungi dall'esaurito.

Tradita la prima per rispetto a… Rachmaninov, ho quindi iniziato l’approccio a questa nuova produzione attraverso lo streaming-on-demand di RaiPlay, che (ancora per pochi giorni, parrebbe) mette la recita del 13 aprile a disposizione del pubblico. (Nel frattempo è comparsa la registrazione anche su youtube, finchè qualcuno non reclamerà…) Come spesso accade, la ripresa televisiva dà assai di più (e non sempre meglio?) di ciò che si vede in teatro, soprattutto grazie alle angolazioni di ripresa e ai primi piani. 

Parto quindi dalla regìa, che in un’opera come questa conta (ad esagerare) per 20 su 100, rispetto alla musica, per dire che Jannis Kokkos ha fatto il minimo sindacale (ma per lui il salario minimo è un filino più alto degli stratosferici 9€ all’ora che tuttora si negano qui da noi…) limitandosi a coprire i personaggi con abiti contemporanei, il che ce li rende però ancor più antipatici e ridicoli, diciamolo francamente: volendo darci un riferimento all’attualità avrebbe potuto ambientare la vicenda fra le bande del Bronx (tipo West Side Story, per dire) visto che il soggetto è una scopiazzatura di Romeo&Juliet (con tanto di alias di Frate Lorenzo…)

E a proposito di scopiazzature, mi viene in mente la grande scalinata di Brockhaus-Svoboda del 2012, nella produzione del circuito lombardo; per il resto, trovate abbastanza bambinesche: animali di cartapesta – incluso un ramicornuto cervo -  assortiti qua e là e improbabili statue da Cimitero Monumentale… Insomma, una regìa inconsistente, che il loggione alla prima aveva disapprovato assai, e a ragione, mentre ieri sera è stato un filino più clemente (o talmente disinteressato, data l’assenza del regista alle uscite finali, da risparmiare anche sui buh…)

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I suoni - ancora una volta, e come sempre, se emessi come si deve! – hanno solo parzialmente rivalutato questa produzione.

Merito al 60% almeno di Direttore, buca e coro, davvero irreprensibili per ricercatezza di tempi, di suono, di sfumature e di pathosIl restante 40% se lo devono dividere i protagonisti, ai quali mi permetto di assegnare il premio di produzione nelle seguenti quote:

10% Lisette Oropesa (Lucia) [voce calda e morbida, acuti pennellati, agilità virtuosistiche, buona recitazione anche se un po’ contratta]

9% Boris Pinkhasovich (Enrico) [bella sorpresa, voce importante, sicura ed efficace presenza scenica]

7% JDF (Edgardo) [queste sue escursioni extra-rossini non (mi) convincono, fatta salva la sua grande professionalità e la voce ancora abbastanza integra; che però al loggione arrivava a malapena (la glassharmonica si sentiva di più!)]

5% Carlo Lepore (Raimondo) [ha fatto il possibile per non far rimpiangere Pertusi]

4% Giorgio Misseri (Normanno) [in proporzione al peso dei ruoli, all’altezza di JDF]

3% Leonardo Cortellazzi (Arturo) [minimo sindacale per lui]

2% Valentina Pluzhnikova (Alisa) [incoraggiamento per l’accademica]

Primo e terzo atto complessivamente discreti, il secondo francamente meno, con la punta di diamante dell’opera (il sestetto) passato via senza emozione.

Alla fine qualche bravo! per Oropesa, Pinkhasovich, Florez, Chailly e coro; applausetti per i restanti. Regista, come detto, non presentatosi. In tutto forse 7-8 minuti, poi tutti a nanna.

In conclusione, che dire? Maliziosamente: dovremmo ringraziare il Covid per averci risparmiato di sorbire questa passabile minestrina come cenone di un SantAmbrogio? 

29 novembre, 2020

Gala Donizetti e... confronti

L’abbonamento alla DonizettiWebTV per il Festival 2020 (le tre opere in cartellone irradiate in streaming e una serie di contenuti collaterali registrati) comprende anche la visione del Gala GaetAmo Bergamo, per festeggiare il compleanno n° 223 del compositore, e contemporaneamente ripresentare al pubblico del web i protagonisti del Festival appena felicemente conclusosi.

Una simpatica ed intelligente iniziativa che - al di là dei semplici contenuti musicali - testimonia della vitalià del Teatro che ha mostrato di saper restare vivo e vegeto anche al cospetto di questa tuttora perdurante seconda ondata del Covid.

Insomma, quella che ci viene offerta è una gustosa ciliegina sulla già gustosissima torta del Festival.

Confronti? Beh, la corazzata della Scala a Santambrogio ci propinerà una gran ciliegiona, ma senza la torta donizettiana sotto...

27 novembre, 2020

Strauss vs Donizetti: plagio o caso?

Sere fa la DonizettiWebTV ha irradiato la registrazione de L’ange de Nisida, che lo scorso anno era stato messo in scena nel Teatro bergamasco ancora sotto i ferri dei ristrutturatori. L’opera, ricostruita solo pochi anni fa, era già stata data in forma di concerto a Londra, e oggi quella registrazione è disponibile in rete.

Ascoltando e guardando la bellissima proposta del Donizetti (firmata nell’allestimento dal Direttore artistico Francesco Micheli) mi è caduto l’orecchio sul coro del second’atto Le ciel a béni l’étrangère. Quelle note mi suonavano familiari e ho cercato di capirne la ragione.

La prima idea è stata di pensare a La favorite, che ha inglobato parte delle musiche dell’Ange, ai tempi defunta prima ancora di nascere causa bancarotta dell’impresario: ma un rapido controllo ha dato esito negativo.

Poi, ecco accendersi la classica lampadina: Strauss, Le bourgeois gentilhomme, Entrata e Danza dei sarti! (da 10’05” nel video di Sawallisch).

Domanda: Strauss per caso aveva avuto accesso al materiale dell’Ange, da cui scopiazzare l’attacco (appena-appena variato, portato da 4/4 in 3/4 e trasposto da FA a RE nell’esposizione, ma poi riportato al FA originario) della sua allegra polacca?

O si trattò di un fenomeno medianico?

22 novembre, 2020

Un’opera di Donizetti mai sentita prima

Il terzo titolo del Festival Donizetti 2020 era l’opera buffa Le nozze in villa, praticamente una novità assoluta. È un Gaetano 22enne quello che si cimenta (quasi) per la prima volta in teatro, a Mantova, nel 1819, con quest’opera composta in fretta e furia, su libretto di quel Bartolomeo Merelli che diventerà famoso qualche anno dopo per aver catapultato tale Giuseppe Verdi verso la gloria. (Come si vede, fra Donizetti e Verdi ci sono anche legami sotterranei...)

Opera accolta con freddezza al suo apparire e che ebbe poche repliche in quegli anni: qui il libretto stampato per una rappresentazione del 1822 a Genova (i testi di alcune arie divergono da quelli cantati a Bergamo) col titolo I Provinciali, titolo col quale il testo era apparso in traduzione italiana della commedia brillante Die deutschen Kleinstädter di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue (lo stesso che scrisse Re Stefano e Le rovine di Atene, di beethoveniana memoria).

Poi... l’oblio completo fino alla riesumazione odierna, che ha comportato anche il rifacimento di sana pianta (Elio&Rocco Tanica, con Enrico  Melozzi) del quintetto dell’Atto II, Scena VII (Aura gentil, protagonisti Sabina, Anastasia, Claudio, Petronio, Trifoglio) andato perduto.

Lavoro che inevitabilmente si rifà a Rossini, e non solo nei crescendo dei concertati, ma anche - un esempio per tutti - in quel mirabile Oppressa/o e stupida/o che precede la stretta del finale primo, degno davvero del Fredda/o ed immobile del Barbiere! E comunque si cominciano ad intravedere i segnali di ciò che arriverà nei 20 anni successivi!

Stefano Montanari - che ha accompagnato al fortepiano i recitativi - ha diretto da par suo  Gli Originali, dotati di strumenti d’epoca accordati sul diapason a 430 (quello tanto caro a... Verdi!) e il Coro Donizetti Opera di Fabio Tartari.

Cast piacevolmente all’altezza: Fabio Capitanucci e Gaia Petrone su tutti, ma bene anche Omar Montanari e Giorgio Misseri. Sempre più giovane l’inossidabile Manuela Custer e bravi Claudia Urru e Daniele Lettieri nelle rispettive particine.
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Simpatico oltre che istruttivo il siparietto prima dell’inizio, dove una partitella di calcetto in platea è stata interrotta dal Direttore che si è fatto consegnare il pallone per poi perforarlo ripetutamente: un chiaro riferimento - credo - ai troppi trattamenti di favore riservati al calcio e negati alla cultura!

Vengo ora alla messinscena intelligente e piacevole di Davide Marranchelli, coadiuvato da Anna Bonomello per le scene (giustamente minimaliste ma azzeccatissime) da Linda Riccardi per i moderni e simpatici costumi e da Alessandro Carletti per le luci. Un’ideazione davvero adatta alle circostanze, che anzi dalle limitazioni imposte dalle regole-Covid ha addirittura tratto vantaggio!

Insomma: una conclusione in bellezza di questo Festival 2020 stream-diffuso che ha permesso al Teatro e ai suoi nativi di continuare ad esistere, e a noi che ne siamo occasionali abitanti di non rimanere... al freddo e al buio, ecco. E di ciò dobbiamo essere grati a tutti coloro che hanno resa possibile questa impresa.

Il lungo silenzio della sala e il successivo auto-applauso di tutti i protagonisti a me (ma son certo di non essere il solo) hanno davvero messo i brividi e fatto salire in gola il proverbiale magone.

Sono immagini che resteranno nei nostri ricordi di un periodo disgraziato, ma alla fine superato, anche grazie a serate come questa.

21 novembre, 2020

Belisario da Bergamo

La seconda giornata del trittico donizettiano di questo Festival 2020 ci ha proposto in streaming (non diretta... ma fa poca differenza) Belisario, opera immeritatamente dimenticata da più di un secolo e ancor oggi proposta col contagocce.

La presenza dei cori, già corposa nel Faliero, qui nel Belisario è addirittura esorbitante. E se già per il Doge veneziano l’impossibilità di portare il Coro in scena aveva negativamente condizionato la rappresentazione, per il condottiero di Costantinopoli l’avrebbe del tutto compromessa. Obbligata quindi è stata la scelta di proporla in forma di concerto.

Placido Domingo era stato originariamente scritturato per la parte del titolo, un suo ennesimo sconfinamento in territorio baritonale. Beh, lasciatemi dire che qui il Covid ci ha aiutato (!) Roberto Frontali non sarà un superman ma, vivaddio, è un baritono, e si sente!

Bravissima, ma secondo me troppo bambina (solo nella voce, ma qui conta assai) è la Carmela Remigio, un’Antonina che meriterebbe voce da soprano lirico, non dico drammatico.

Perfetta invece per la parte di Irene la voce di Annalisa Stroppa, che metterei in testa alla mia personale classifica.

Celso Albelo più che dignitoso come Alamiro(/Alessi) e un filino sotto l’imperatore Simon Lim.  

Come ieri, ottimi Orchestra, Coro e il Kapellmeister Frizza.

Il doge autocomplottista ha aperto il Festival Donizetti

E così ieri sera questo Festival davvero particolare ha preso il via, nel teatro Donizetti ormai quasi rimesso a nuovo, purtroppo a porte chiuse, ma aperto al pubblico televisivo e webbico.

Fosse questa anche l’unica ragione (ma non è l’unica) dell’impresa... già il tenere-acceso-il-motore di un teatro è cosa di cui andar fieri (per chi lo ha realizzato) e, per chi ne ha potuto godere, motivo di consolazione, di speranza e di ringraziamento.

Insomma: nonostante tutto, abbiamo avuto la prova dell’esistenza in vita - e pure della buona salute! - di qualcosa che davamo purtroppo per morto, sia pur provvisoriamente.

Ieri sera il Marino Faliero ha potuto entrare nelle case di tutti grazie a RAI5 e Radio3, e altre due opere (Belisario e Le nozze in villa) potranno entrare - oggi e domani - nelle case dei molti (pare siano già migliaia) che hanno sottoscritto o sottoscriveranno l’abbonamento alla Donizetti-webTV.

E al proposito merita apprezzamento tutto il contorno di iniziative e di contenuti che la WebTV del Teatro ha messo in campo per rendere ancor più accattivante la fruizione degli spettacoli del Festival: dall’apertura del foyer (alle 19:30, mezz’ora prima dello spettacolo) dove il fac-totum Francesco Micheli e Alberto Mattioli introducono gli ospiti della serata (ieri è toccato al vulcanico Diego Passoni di Radio Deejay, all’attrice Cristina Bugatty e alla stylist Viviana Volpicella; questa sera ci sarà il Sindaco Giorgio Gori ad introdurre il contenuto politico del Belisario)... ai commenti e ai pareri sullo spettacolo, che gli ospiti si scambiano nell’intervallo... per finire con gli innumerevoli contenuti registrati e disponibili sul sito.

Non è certo questo il momento di fare gli schizzinosi, citando i tanti difetti e i tanti contro che l’allestimento in era-virus e la fruizione degli spettacoli via etere o www comporta: i pro sono tali da giustificarli ampiamente. Di ieri sono comunque da citare le eccellenti prove del venerabile Michele Pertusi e della bravissima Francesca Dotto, ma tutti gli altri interpreti sono da elogiare. Menzione speciale poi per il Coro e per l’Orchestra (spezzata in due tronconi - fiati-archi - contrapposti e separati dal plexiglas) e per il mio concittadino Riccardo Frizza, ormai entrato nel novero dei Direttori di spicco nel panorama lirico.   

A proposito di Coro, la sua reclusione (Covid-dipendente) nel buio del fondo-scena ha ovviamente privato lo spettacolo della presenza e dei movimenti di questo autentico quanto speciale personaggio. Così il regista Stefano Ricci ha dovuto ripiegare sulla presenza in scena (coreografata da Marta Bevilacqua) di danzatori-figuranti che hanno animato in qualche modo quell’inestricabile ginepraio - inventato da Marco Rossi - di impalcature metalliche, scale e praticabili sui quali si muovevano, a debita distanza, i protagonisti, tutti sfoggianti bellissimi costumi disegnati da Gianluca Sbicca. Efficaci a supportare l’atmosfera cupa del dramma le luci di Alessandro Carletti.  

E allora: W Donizetti, W Bèrghem, W l’opera e... morte al virus!

18 novembre, 2020

Streaming vs Covid a Bergamo

A Bergamo di Covid hanno un’esperienza forte e purtroppo triste. Come nella mia Brescia, del resto. Ma le due città non si danno per vinte. Dopo il Werther trasmesso dal Teatro Grande il 6 novembre, è ora la volta del Festival Donizetti di diffondere via internet (la prima anche in TV) le tre opere del cartellone di questo autunno 2020, che verranno rappresentate a porte chiuse.

La WebTV del Donizetti arricchirà di contenuti le tre serate, con sessioni introduttive alle opere (alle 19:30, mezz’ora prima dell’inizio) coordinate dal Direttore artistico Francesco Micheli e da Alberto Mattioli, per l’occasione arruolato dal Festival nel ruolo di Dramaturg.

Marin Faliero (venerdi 20) sarà anche irradiata in chiaro su RAI5 e Radio3, mentre - con una modica cifra - è possibile seguire le tre opere (Faliero e Nozze saranno in forma scenica, Belisario in forma di concerto) in diretta streaming, oltre ad esplorare (già da subito) le tre presentazioni curate da Alberto Mattioli durante le prove e alcuni simpatici incontri degli interpreti con... l’Autore.   

Giovedi 19 alle ore 17 Francesco Micheli e il Direttore Musicale Riccardo Frizza (con ospiti fra i quali il Sindaco Giorgio Gori) ci illustreranno questa significativa quanto sfidante esperienza.

11 settembre, 2019

Un frizzante Elisir mette la Scala di buonumore.


Sarà forse perchè i contestatori seriali delle prime hanno prolungato le vacanze, fatto sta che L’elisir d’amore andato in scena ier sera al Piermarini (peraltro con diverse poltrone vuote in platea...) è stato accolto con pieno consenso di pubblico, senza se e senza ma. Intendiamoci, nulla di storico o di strabiliante, ma uno spettacolo che nel complesso si è rivelato di buon livello, in tutte le sue componenti: voci, orchestra e allestimento.

Allestimento di Grischa Asagaroff già ampiamente e positivamente collaudato alla sua comparsa nel 2015, con le poetiche e favolistiche scene e gli sgargianti quanto esilaranti costumi di Tullio Pericoli, il tutto sapientemente illuminato da Hans-Rudolf Kunz.

Alla grande come sempre il Coro di Mario Casoni, che Donizetti qui impegna corposamente ad interloquire con i protagonisti, o a creare le tipiche atmosfere contadine in cui prende piede la patetica vicenda di Nemorino e Adina.

E i protagonisti di questo lieto fine hanno riscosso un caloroso consenso di pubblico: lo yankee René Barbera per la sua voce squillante che ha messo al servizio del rustico e ingenuo personaggio, prestazione culminata con un trionfo dopo la Lagrima; la casertana Rosa Feola (non proprio impeccabile soprattutto nelle note gravi) per la civetteria e la verve di cui ha ricoperto la sua parte di ragazza un po’ viziatella ma alla fine... innamorata.

Ambrogio Maestri sembra nato per parti come questa di Dulcamara (o di Schicchi o Falstaff): le fa con tanta efficacia che poi rischia di... compromettere personaggi seri o truci come Amonasro, per dire. Per lui, ormai beniamino della Scala e deus-ex-machina della vicenda, accoglienza poco meno che trionfale.

Discreto anche Massimo Cavalletti, efficace nell’impersonare il tronfio Belcore: qualche forzatura di tono magari poteva essere evitata.

L’accademica Francesca Pia Vitale ha dignitosamente interpretato Giannetta, un ruolo tutt’altro che di contorno.

Per tutti, incluso il mimo Stefano Guizzi (tirapiedi di Dulcamara) applausi e bravo! si sono sprecati.

Positivo anche il ritorno sul podio del 35enne Michele Gamba, che ha guidato un’orchestra in gran spolvero (qualche eccesso di decibel si può perdonare, e comunque non è mai andato troppo a discapito delle voci) e concertato con cura e precisione singoli e masse sul palco (lavorare con gente come Pappano e Barenboim evidentemente fa bene alla salute!) Lo si rivedrà nel sinfonico, il 3 ottobre in Auditorium quando inaugurerà Milano Musica con laVerdi in Francesconi e Mahler.

Come ripeto: tutto sommato una serata più che positiva.

12 novembre, 2018

La Fille è ritornata a Bologna


Ieri pomeriggio la bomboniera del Bibiena ha ospitato la terza delle sei recite de La Fille du régiment, una ripresa della fortunata produzione del 2004. Sala con parecchi vuoti (ahinoi) ma pubblico ben disposto e propenso all’applauso.

Sul podio il simpatico Yves Abel (qui una sua interpretazione a Vienna nel 2007, con siparietto della Caballè che canta – alla faccia di Donizetti – il suo amato 'g Schätzli) ha guidato l’orchestra con autorevolezza, confermando le sue buone qualità (quest’estate mi era piaciuto nel Barbiere al ROF).

La compagnia di canto (primo cast) ha dignitosamente fatto il suo dovere, per così dire, grazie allo spilungone Maxim Mironov (Tonio) che, a dispetto di una voce poco squillante e non potentissima (rilievi da me fattigli anche in occasione del citato Barbiere di Pesaro) ha però dato spessore al personaggio, sciorinando anche senza difficoltà i diversi DO dell’aria del prim’atto (Pour mon âme) e pure il DO# della romanza del secondo (S’il me fallait). Certo, chi ha ancora nelle orecchie il Florez del 2004 forse non ne sarà stato entusiasta, ma il pubblico, dopo l’aria dei 9 DO gli ha tributato almeno 3 minuti di orologio di applausi e richieste di bis.    

La protagonista Hasmik Torosyan a corrente alternata: bene nei passaggi più ispirati (esempio la cavatina con cello obbligato Par le rang del second’atto) con acuti ben portati; quando invece c’è da forzare, allora gli acuti escono stimbrati e vetrosi. Anche a lei si applica la constatazione di una voce non proprio penetrante.

Discreta la Marchesa di Claudia Marchi; passabile il Sulpice di Federico Longhi. Tutti gli altri li accomuno in una ampia sufficienza.

Encomiabile la prestazione del Coro di Andrea Faidutti, che in quest’opera è forse più protagonista ancora degli stessi singoli interpreti.

Un discorso a parte (e la musica c’entra poco, a dir il vero) riguarda la presenza di Daniela Mazzucato nel ruolo (solo recitante) della Duchessa. Non mi capacito davvero di come questa straordinaria cantante (certo, a fine carriera, a 72 anni!) abbia accettato di fare da comparsa (perchè di ciò si tratta) per 10 minuti nei quali ha giusto emesso un urlo e nulla più (oltretutto è stato tagliato il suo ingresso in scena all’inizio del second’atto). Presentata poi (qui c’entra anche la regìa) come duchessa di Casalecc, fra uno stuolo di altre comparse... del circondario bolognese. E forse gran parte del pubblico manco l’ha riconosciuta, così che a lei sono andati pochi clap all’uscita finale. Insomma, una cosa (per me, ma forse anche per lei) umiliante. Vero è che questo particolare ruolo lei lo sta ricoprendo da un paio d’anni, in giro per il mondo, ma almeno dovrebbe essere riempito con qualcosa di speciale: proprio come fecero a Vienna con la grande quanto vetusta Caballè nella citata edizione del 2007.

E a proposito di allestimento, quello originale di Emilio Sagi è oggi ripreso da Valentina Spinetti: chissà se è lei l’autrice del misfatto nella scena dell’arrivo degli ospiti per il matrimonio... una trovata piuttosto discutibile, ecco. Per il resto si tratta invece di uno spettacolo piacevole, in un’ambientazione (di Julio Galan) primo-novecento: in un’osteria dove si ritrovano gli svizzeri e poi i soldati del 21° reggimento (primo atto) e una vasta sala del palazzo della Marchesa (secondo atto). Simpatici i costumi ed efficace l’impiego delle luci.

In definitiva, una proposta godibile, a parte le citate cadute di stile.

12 aprile, 2018

Un modesto Don Pasquale è tornato alla Scala


Ieri sera la Scala (innumerevoli i posti vuoti) ha ospitato la terza recita del nuovo Don Pasquale, allestito da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly.

Per introdurre il mio telegrafico commento allo spettacolo mi faccio aiutare da Riccardo Muti, che - nei primi 4 minuti e mezzo di questa registrazione del 2017 -  inquadra l’opera nel contesto storico in cui venne composta e ne sintetizza le principali qualità: dramma buffo che si rifà a Mozart (e all’opera napoletana); opera che mirabilmente amalgama il comico al patetico (quindi buffa e non buffonesca). Tradotto in termini di approccio di Direttore e Regista, sarebbe a dire: leggerezza di concertazione e raffinatezza di ambientazione.

Ecco, poco di tutto ciò si riscontra in questa produzione, caratterizzata - sul piano musicale - da eccessi bandistici e sonorità grevi (si salva solo il terzo atto); su quello registico, da volgarotte goliardate da avanspettacolo anni-60.

Quando Chailly è già sul podio Alex Pereira si affaccia al proscenio, bucando il sipario: annuncia che non ci sono malati o defezioni... ma che l’Orchestra scaligera ha ricevuto a Londra il prestigioso award che la colloca sul piedistallo del mondo. Forse così si spiega l’eccessiva foga di strumentisti e direttore, che per i primi due atti hanno voluto far sentire solo il loro suono, coprendo regolarmente le voci. Persino Maestri si faticava a udire come si deve. Non parliamo di Rosa Feola che, se non è male sugli acuti, scompare nei centri e nei gravi. Pessimo l’inizio di Mattia Olivieri, intonazione periclitante e più rumori che suoni. Si salva per fortuna René Barbera, che almeno si riesce ad udire distintamente. E insieme a lui il coro, che nessun fracasso orchestrale sarebbe in grado di coprire.

Come detto, il terzo atto è stato abbastanza accettabile, anche perchè la partitura proibisce... escandescenze.
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Livermore si inventa per il protagonista il complesso materno, che ci viene esposto mentre l’Orchestra suona la Sinfonia: Pasquale, ormai vecchio decrepito, si può finalmente sposare solo perchè la madre-padrona-matusa s’è decisa una buona volta a togliere il disturbo... Poi il regista si appella al cinema italiano anni-60 (idea da lui già applicata altre volte, cito il Turco in Italia al ROF-2016) per ambientare colà il soggetto di Giovanni Ruffini.

Trattandosi di un dramma sì, ma buffo, è quasi impossibile stravolgerne il soggetto o farne una parodia, così ciò a cui assistiamo è una commedia agrodolce che si può anche digerire senza troppo sforzo. E il pubblico ha mostrato di gradire.
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Ma devo dire che la produzione dell’Accademia del 2012 mi aveva convinto di più, ecco.

21 aprile, 2017

Alla Scala ultime cartucce di una Bolena non poi così derelitta

 

Ieri penultima recita della bistrattata Anna Bolena che la Scala ha importato dalla Francia, dove non era certo stata accolta con entusiasmi nelle sue apparizioni da 4 anni a questa parte. Così alla prima al Piermarini aveva finalmente collezionato sul suo libretto anche il riprovato del pubblico scaligero. 

L’altro giorno, a proposito di Rossini e della Gazza, avevo espresso un mio personale convincimento che riapplico qui a Donizetti e alla sua Bolena: basta una proposta artistica appena appena decente per farmene (farcene?) apprezzare la grandezza. Ho ancora nelle orecchie quella incredibile rappresentazione del 19 marzo 2012 al Comunale di Firenze dove l’opera venne data – causa sciopero - senza l’orchestra, rimpiazzata da un solo pianoforte: beh, fu un autentico trionfo! Dovuto sul piano musicale al duo Devia-Ganassi e su quello scenico alla regia di Vick.

Ebbene, la proposta artistica di questa Bolena mi sembra che galleggi tranquillamente sopra il livello di sufficienza; quindi, a meno che non sia straordinariamente migliorata nelle quattro precedenti repliche, non mi pare si meritasse le stroncature senza appello della prima. Certo, dalla Scala ci si aspetterebbe assai di più, ma in senso assoluto non mi sentirei di usare il pollice verso.

Ampia sufficienza darei alla parte musicale, con la piacevolissima (per me) sorpresa costituita da Federica Lombardi, che deve avere doti naturali di livello assoluto: voce dal timbro caldo e corposo, in particolare nei centri e negli acuti (certo lei non è la Devia e i MIb gratuiti li lascia perdere) e sensibilità interpretativa già più che convincente. Insomma, una bella realtà che – se ben coltivata -ha davanti un futuro luminoso.

Con lei Sonia Ganassi, che viene da un passato luminoso, ma che ancora sa imporre la sua personalità: splendido in particolare il duettone del second’atto con la Lombardi. Buone notizie anche da Piero Pretti, bella voce squillante e ben impostata, capace di salire senza affanni ai DO. Su un piano dignitoso le prestazioni di Mattia Denti e della (travestita) Martina Belli (meglio l’aria della canzone d’esordio). Onesto e promettente l’accademico Giovanni Sebastiano Sala.

Discorso a parte per Carlo Colombara, uscito malconcio dalla prima e purtroppo buato (unico nel cast) anche ieri sera. Certo non mi ha entusiasmato, tuttavia non è incorso in svarioni o topiche clamorose: una prestazione che definirei incolore, e quindi la contestazione mi è parsa un po’ troppo severa (personalmente mi sarei limitato a non applaudire, ecco).

Sarà anche etichettabile come routine, ma la direzione di Ion Marin non mi ha per nulla deluso, così come il coro di Casoni, sempre all’altezza della sua fama. In sostanza, una performance musicale non strepitosa, ma più che passabile, sottolineata da molti applausi a scena aperta e calorosa accoglienza (Colombara escluso) alla fine.
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La regìa di Marie-Louise Bischofberger è di quelle che non suscitano entusiasmi: le scene di Erich Wonder sono di un minimalismo assoluto che si può spiegare (insieme con la cupa ambientazione delle luci di Bertrand Couderc) con l’obiettivo di concentrare tutta l’attenzione sullo scavo psicologico dei personaggi. E qui la regista qualcosa di buono ha in effetti proposto. Passabili i costumi di Kaspar Glarner, con qualche cappottone di troppo.

In conclusione, una proposta debole rispetto alle aspettative che sempre un teatro come la Scala suscita, ma complessivamente dignitosa: insomma, ciò che si può discutere, al solito, è il rapporto price/performance...