XIV

da prevosto a leone
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12 maggio, 2024

È tornato alla Scala il DonPasquale di Livermore

Dopo un gradevole aperitivo beethoveniano con l’Orchestra Giovanile di Milano, eccomi all’affollatissima Scala dove, poco dopo il dittico verista, è andata in scena un’altra ripresa di una recente produzione (2018): il donizettiano DonPasquale ideato da Davide Livermore.

Rispetto al 2018 cambiano: il podio (Evelino Pido’ al posto di Chailly); il Maestro del Coro (Bruno Casoni > Alberto Malazzi) e due dei cinque interpreti: Norina (Rosa Feola > Andrea Carroll) ed Ernesto (Renè Barbera > Lawrence Brownlee). Rimangono impavidi al loro posto e ai loro ruoli il protagonista Ambrogio Maestri, il Dottor Malatesta Mattia Olivieri e il Notaro Andrea Porta.

Ricordo – purtroppo - di non essermi affatto entusiasmato sei anni orsono: uno Chailly piuttosto pesantuccio e un Livermore già allora abbastanza ripetitivo. Le premesse non erano quindi troppo allettanti, ma alla fine devo dire che nel complesso lo spettacolo non mi ha poi totalmente deluso. Certo, l’allestimento dell’ex-tenore piemontese non è che sia invecchiato bene, come un buon dolcetto d’Alba, ma insomma non si è neanche… ehm, maderizzato, ecco!

Parte del merito dell’ampia sufficienza che mi sento di garantire a questa ripresa va alla parte musicale, in particolare agli interpreti. Ambrogio Maestri è ovviamente una sicurezza ed è stato giustamente, e prevedibilmente, il mattatore della serata. Ma anche gli altri tre interpreti principali (più il comprimario Porta) hanno ben meritato: Andrea Carroll da Bethesda ha sfoggiato una vocina pungente e – per me, almeno – adatta al personaggio della Norina, una ragazza un po’ gattina morta e un po’ cinica femminista. Il rotondetto afroamericano Lawrence Brownlee è stato un Ernesto ingenuo e patetico come da copione, e lo ha rivestito dalla sua bella voce acuta e penetrante… rossiniana. Mattia Olivieri a sua volta ha riscosso ampi consensi per la sua prestazione solida e senza sbavature.

Bene anche il coro di Alberto Malazzi, pur nella limitatezza (solo terzo atto) del compito cui è chiamato. Quanto alla direzione/concertazione del navigato Pidò, gli rimprovero qualche eccesso bandistico, per il resto la definirei di onesta routine, ecco.

Tutto sommato, una ripresa che mi sento di giudicare dignitosa, ma non di più.

27 aprile, 2023

Pagelle sulla Lucia scaligera targata Oropesa-JDF/Chailly-Kokkos

La quinta (su 8) rappresentazione di Lucia di Lammermoor è andata in scena ieri sera alla Scala, in un teatro ben lungi dall'esaurito.

Tradita la prima per rispetto a… Rachmaninov, ho quindi iniziato l’approccio a questa nuova produzione attraverso lo streaming-on-demand di RaiPlay, che (ancora per pochi giorni, parrebbe) mette la recita del 13 aprile a disposizione del pubblico. (Nel frattempo è comparsa la registrazione anche su youtube, finchè qualcuno non reclamerà…) Come spesso accade, la ripresa televisiva dà assai di più (e non sempre meglio?) di ciò che si vede in teatro, soprattutto grazie alle angolazioni di ripresa e ai primi piani. 

Parto quindi dalla regìa, che in un’opera come questa conta (ad esagerare) per 20 su 100, rispetto alla musica, per dire che Jannis Kokkos ha fatto il minimo sindacale (ma per lui il salario minimo è un filino più alto degli stratosferici 9€ all’ora che tuttora si negano qui da noi…) limitandosi a coprire i personaggi con abiti contemporanei, il che ce li rende però ancor più antipatici e ridicoli, diciamolo francamente: volendo darci un riferimento all’attualità avrebbe potuto ambientare la vicenda fra le bande del Bronx (tipo West Side Story, per dire) visto che il soggetto è una scopiazzatura di Romeo&Juliet (con tanto di alias di Frate Lorenzo…)

E a proposito di scopiazzature, mi viene in mente la grande scalinata di Brockhaus-Svoboda del 2012, nella produzione del circuito lombardo; per il resto, trovate abbastanza bambinesche: animali di cartapesta – incluso un ramicornuto cervo -  assortiti qua e là e improbabili statue da Cimitero Monumentale… Insomma, una regìa inconsistente, che il loggione alla prima aveva disapprovato assai, e a ragione, mentre ieri sera è stato un filino più clemente (o talmente disinteressato, data l’assenza del regista alle uscite finali, da risparmiare anche sui buh…)

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I suoni - ancora una volta, e come sempre, se emessi come si deve! – hanno solo parzialmente rivalutato questa produzione.

Merito al 60% almeno di Direttore, buca e coro, davvero irreprensibili per ricercatezza di tempi, di suono, di sfumature e di pathosIl restante 40% se lo devono dividere i protagonisti, ai quali mi permetto di assegnare il premio di produzione nelle seguenti quote:

10% Lisette Oropesa (Lucia) [voce calda e morbida, acuti pennellati, agilità virtuosistiche, buona recitazione anche se un po’ contratta]

9% Boris Pinkhasovich (Enrico) [bella sorpresa, voce importante, sicura ed efficace presenza scenica]

7% JDF (Edgardo) [queste sue escursioni extra-rossini non (mi) convincono, fatta salva la sua grande professionalità e la voce ancora abbastanza integra; che però al loggione arrivava a malapena (la glassharmonica si sentiva di più!)]

5% Carlo Lepore (Raimondo) [ha fatto il possibile per non far rimpiangere Pertusi]

4% Giorgio Misseri (Normanno) [in proporzione al peso dei ruoli, all’altezza di JDF]

3% Leonardo Cortellazzi (Arturo) [minimo sindacale per lui]

2% Valentina Pluzhnikova (Alisa) [incoraggiamento per l’accademica]

Primo e terzo atto complessivamente discreti, il secondo francamente meno, con la punta di diamante dell’opera (il sestetto) passato via senza emozione.

Alla fine qualche bravo! per Oropesa, Pinkhasovich, Florez, Chailly e coro; applausetti per i restanti. Regista, come detto, non presentatosi. In tutto forse 7-8 minuti, poi tutti a nanna.

In conclusione, che dire? Maliziosamente: dovremmo ringraziare il Covid per averci risparmiato di sorbire questa passabile minestrina come cenone di un SantAmbrogio? 

29 novembre, 2020

Gala Donizetti e... confronti

L’abbonamento alla DonizettiWebTV per il Festival 2020 (le tre opere in cartellone irradiate in streaming e una serie di contenuti collaterali registrati) comprende anche la visione del Gala GaetAmo Bergamo, per festeggiare il compleanno n° 223 del compositore, e contemporaneamente ripresentare al pubblico del web i protagonisti del Festival appena felicemente conclusosi.

Una simpatica ed intelligente iniziativa che - al di là dei semplici contenuti musicali - testimonia della vitalià del Teatro che ha mostrato di saper restare vivo e vegeto anche al cospetto di questa tuttora perdurante seconda ondata del Covid.

Insomma, quella che ci viene offerta è una gustosa ciliegina sulla già gustosissima torta del Festival.

Confronti? Beh, la corazzata della Scala a Santambrogio ci propinerà una gran ciliegiona, ma senza la torta donizettiana sotto...

27 novembre, 2020

Strauss vs Donizetti: plagio o caso?

Sere fa la DonizettiWebTV ha irradiato la registrazione de L’ange de Nisida, che lo scorso anno era stato messo in scena nel Teatro bergamasco ancora sotto i ferri dei ristrutturatori. L’opera, ricostruita solo pochi anni fa, era già stata data in forma di concerto a Londra, e oggi quella registrazione è disponibile in rete.

Ascoltando e guardando la bellissima proposta del Donizetti (firmata nell’allestimento dal Direttore artistico Francesco Micheli) mi è caduto l’orecchio sul coro del second’atto Le ciel a béni l’étrangère. Quelle note mi suonavano familiari e ho cercato di capirne la ragione.

La prima idea è stata di pensare a La favorite, che ha inglobato parte delle musiche dell’Ange, ai tempi defunta prima ancora di nascere causa bancarotta dell’impresario: ma un rapido controllo ha dato esito negativo.

Poi, ecco accendersi la classica lampadina: Strauss, Le bourgeois gentilhomme, Entrata e Danza dei sarti! (da 10’05” nel video di Sawallisch).

Domanda: Strauss per caso aveva avuto accesso al materiale dell’Ange, da cui scopiazzare l’attacco (appena-appena variato, portato da 4/4 in 3/4 e trasposto da FA a RE nell’esposizione, ma poi riportato al FA originario) della sua allegra polacca?

O si trattò di un fenomeno medianico?

22 novembre, 2020

Un’opera di Donizetti mai sentita prima

Il terzo titolo del Festival Donizetti 2020 era l’opera buffa Le nozze in villa, praticamente una novità assoluta. È un Gaetano 22enne quello che si cimenta (quasi) per la prima volta in teatro, a Mantova, nel 1819, con quest’opera composta in fretta e furia, su libretto di quel Bartolomeo Merelli che diventerà famoso qualche anno dopo per aver catapultato tale Giuseppe Verdi verso la gloria. (Come si vede, fra Donizetti e Verdi ci sono anche legami sotterranei...)

Opera accolta con freddezza al suo apparire e che ebbe poche repliche in quegli anni: qui il libretto stampato per una rappresentazione del 1822 a Genova (i testi di alcune arie divergono da quelli cantati a Bergamo) col titolo I Provinciali, titolo col quale il testo era apparso in traduzione italiana della commedia brillante Die deutschen Kleinstädter di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue (lo stesso che scrisse Re Stefano e Le rovine di Atene, di beethoveniana memoria).

Poi... l’oblio completo fino alla riesumazione odierna, che ha comportato anche il rifacimento di sana pianta (Elio&Rocco Tanica, con Enrico  Melozzi) del quintetto dell’Atto II, Scena VII (Aura gentil, protagonisti Sabina, Anastasia, Claudio, Petronio, Trifoglio) andato perduto.

Lavoro che inevitabilmente si rifà a Rossini, e non solo nei crescendo dei concertati, ma anche - un esempio per tutti - in quel mirabile Oppressa/o e stupida/o che precede la stretta del finale primo, degno davvero del Fredda/o ed immobile del Barbiere! E comunque si cominciano ad intravedere i segnali di ciò che arriverà nei 20 anni successivi!

Stefano Montanari - che ha accompagnato al fortepiano i recitativi - ha diretto da par suo  Gli Originali, dotati di strumenti d’epoca accordati sul diapason a 430 (quello tanto caro a... Verdi!) e il Coro Donizetti Opera di Fabio Tartari.

Cast piacevolmente all’altezza: Fabio Capitanucci e Gaia Petrone su tutti, ma bene anche Omar Montanari e Giorgio Misseri. Sempre più giovane l’inossidabile Manuela Custer e bravi Claudia Urru e Daniele Lettieri nelle rispettive particine.
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Simpatico oltre che istruttivo il siparietto prima dell’inizio, dove una partitella di calcetto in platea è stata interrotta dal Direttore che si è fatto consegnare il pallone per poi perforarlo ripetutamente: un chiaro riferimento - credo - ai troppi trattamenti di favore riservati al calcio e negati alla cultura!

Vengo ora alla messinscena intelligente e piacevole di Davide Marranchelli, coadiuvato da Anna Bonomello per le scene (giustamente minimaliste ma azzeccatissime) da Linda Riccardi per i moderni e simpatici costumi e da Alessandro Carletti per le luci. Un’ideazione davvero adatta alle circostanze, che anzi dalle limitazioni imposte dalle regole-Covid ha addirittura tratto vantaggio!

Insomma: una conclusione in bellezza di questo Festival 2020 stream-diffuso che ha permesso al Teatro e ai suoi nativi di continuare ad esistere, e a noi che ne siamo occasionali abitanti di non rimanere... al freddo e al buio, ecco. E di ciò dobbiamo essere grati a tutti coloro che hanno resa possibile questa impresa.

Il lungo silenzio della sala e il successivo auto-applauso di tutti i protagonisti a me (ma son certo di non essere il solo) hanno davvero messo i brividi e fatto salire in gola il proverbiale magone.

Sono immagini che resteranno nei nostri ricordi di un periodo disgraziato, ma alla fine superato, anche grazie a serate come questa.

21 novembre, 2020

Belisario da Bergamo

La seconda giornata del trittico donizettiano di questo Festival 2020 ci ha proposto in streaming (non diretta... ma fa poca differenza) Belisario, opera immeritatamente dimenticata da più di un secolo e ancor oggi proposta col contagocce.

La presenza dei cori, già corposa nel Faliero, qui nel Belisario è addirittura esorbitante. E se già per il Doge veneziano l’impossibilità di portare il Coro in scena aveva negativamente condizionato la rappresentazione, per il condottiero di Costantinopoli l’avrebbe del tutto compromessa. Obbligata quindi è stata la scelta di proporla in forma di concerto.

Placido Domingo era stato originariamente scritturato per la parte del titolo, un suo ennesimo sconfinamento in territorio baritonale. Beh, lasciatemi dire che qui il Covid ci ha aiutato (!) Roberto Frontali non sarà un superman ma, vivaddio, è un baritono, e si sente!

Bravissima, ma secondo me troppo bambina (solo nella voce, ma qui conta assai) è la Carmela Remigio, un’Antonina che meriterebbe voce da soprano lirico, non dico drammatico.

Perfetta invece per la parte di Irene la voce di Annalisa Stroppa, che metterei in testa alla mia personale classifica.

Celso Albelo più che dignitoso come Alamiro(/Alessi) e un filino sotto l’imperatore Simon Lim.  

Come ieri, ottimi Orchestra, Coro e il Kapellmeister Frizza.

Il doge autocomplottista ha aperto il Festival Donizetti

E così ieri sera questo Festival davvero particolare ha preso il via, nel teatro Donizetti ormai quasi rimesso a nuovo, purtroppo a porte chiuse, ma aperto al pubblico televisivo e webbico.

Fosse questa anche l’unica ragione (ma non è l’unica) dell’impresa... già il tenere-acceso-il-motore di un teatro è cosa di cui andar fieri (per chi lo ha realizzato) e, per chi ne ha potuto godere, motivo di consolazione, di speranza e di ringraziamento.

Insomma: nonostante tutto, abbiamo avuto la prova dell’esistenza in vita - e pure della buona salute! - di qualcosa che davamo purtroppo per morto, sia pur provvisoriamente.

Ieri sera il Marino Faliero ha potuto entrare nelle case di tutti grazie a RAI5 e Radio3, e altre due opere (Belisario e Le nozze in villa) potranno entrare - oggi e domani - nelle case dei molti (pare siano già migliaia) che hanno sottoscritto o sottoscriveranno l’abbonamento alla Donizetti-webTV.

E al proposito merita apprezzamento tutto il contorno di iniziative e di contenuti che la WebTV del Teatro ha messo in campo per rendere ancor più accattivante la fruizione degli spettacoli del Festival: dall’apertura del foyer (alle 19:30, mezz’ora prima dello spettacolo) dove il fac-totum Francesco Micheli e Alberto Mattioli introducono gli ospiti della serata (ieri è toccato al vulcanico Diego Passoni di Radio Deejay, all’attrice Cristina Bugatty e alla stylist Viviana Volpicella; questa sera ci sarà il Sindaco Giorgio Gori ad introdurre il contenuto politico del Belisario)... ai commenti e ai pareri sullo spettacolo, che gli ospiti si scambiano nell’intervallo... per finire con gli innumerevoli contenuti registrati e disponibili sul sito.

Non è certo questo il momento di fare gli schizzinosi, citando i tanti difetti e i tanti contro che l’allestimento in era-virus e la fruizione degli spettacoli via etere o www comporta: i pro sono tali da giustificarli ampiamente. Di ieri sono comunque da citare le eccellenti prove del venerabile Michele Pertusi e della bravissima Francesca Dotto, ma tutti gli altri interpreti sono da elogiare. Menzione speciale poi per il Coro e per l’Orchestra (spezzata in due tronconi - fiati-archi - contrapposti e separati dal plexiglas) e per il mio concittadino Riccardo Frizza, ormai entrato nel novero dei Direttori di spicco nel panorama lirico.   

A proposito di Coro, la sua reclusione (Covid-dipendente) nel buio del fondo-scena ha ovviamente privato lo spettacolo della presenza e dei movimenti di questo autentico quanto speciale personaggio. Così il regista Stefano Ricci ha dovuto ripiegare sulla presenza in scena (coreografata da Marta Bevilacqua) di danzatori-figuranti che hanno animato in qualche modo quell’inestricabile ginepraio - inventato da Marco Rossi - di impalcature metalliche, scale e praticabili sui quali si muovevano, a debita distanza, i protagonisti, tutti sfoggianti bellissimi costumi disegnati da Gianluca Sbicca. Efficaci a supportare l’atmosfera cupa del dramma le luci di Alessandro Carletti.  

E allora: W Donizetti, W Bèrghem, W l’opera e... morte al virus!

18 novembre, 2020

Streaming vs Covid a Bergamo

A Bergamo di Covid hanno un’esperienza forte e purtroppo triste. Come nella mia Brescia, del resto. Ma le due città non si danno per vinte. Dopo il Werther trasmesso dal Teatro Grande il 6 novembre, è ora la volta del Festival Donizetti di diffondere via internet (la prima anche in TV) le tre opere del cartellone di questo autunno 2020, che verranno rappresentate a porte chiuse.

La WebTV del Donizetti arricchirà di contenuti le tre serate, con sessioni introduttive alle opere (alle 19:30, mezz’ora prima dell’inizio) coordinate dal Direttore artistico Francesco Micheli e da Alberto Mattioli, per l’occasione arruolato dal Festival nel ruolo di Dramaturg.

Marin Faliero (venerdi 20) sarà anche irradiata in chiaro su RAI5 e Radio3, mentre - con una modica cifra - è possibile seguire le tre opere (Faliero e Nozze saranno in forma scenica, Belisario in forma di concerto) in diretta streaming, oltre ad esplorare (già da subito) le tre presentazioni curate da Alberto Mattioli durante le prove e alcuni simpatici incontri degli interpreti con... l’Autore.   

Giovedi 19 alle ore 17 Francesco Micheli e il Direttore Musicale Riccardo Frizza (con ospiti fra i quali il Sindaco Giorgio Gori) ci illustreranno questa significativa quanto sfidante esperienza.

11 settembre, 2019

Un frizzante Elisir mette la Scala di buonumore.


Sarà forse perchè i contestatori seriali delle prime hanno prolungato le vacanze, fatto sta che L’elisir d’amore andato in scena ier sera al Piermarini (peraltro con diverse poltrone vuote in platea...) è stato accolto con pieno consenso di pubblico, senza se e senza ma. Intendiamoci, nulla di storico o di strabiliante, ma uno spettacolo che nel complesso si è rivelato di buon livello, in tutte le sue componenti: voci, orchestra e allestimento.

Allestimento di Grischa Asagaroff già ampiamente e positivamente collaudato alla sua comparsa nel 2015, con le poetiche e favolistiche scene e gli sgargianti quanto esilaranti costumi di Tullio Pericoli, il tutto sapientemente illuminato da Hans-Rudolf Kunz.

Alla grande come sempre il Coro di Mario Casoni, che Donizetti qui impegna corposamente ad interloquire con i protagonisti, o a creare le tipiche atmosfere contadine in cui prende piede la patetica vicenda di Nemorino e Adina.

E i protagonisti di questo lieto fine hanno riscosso un caloroso consenso di pubblico: lo yankee René Barbera per la sua voce squillante che ha messo al servizio del rustico e ingenuo personaggio, prestazione culminata con un trionfo dopo la Lagrima; la casertana Rosa Feola (non proprio impeccabile soprattutto nelle note gravi) per la civetteria e la verve di cui ha ricoperto la sua parte di ragazza un po’ viziatella ma alla fine... innamorata.

Ambrogio Maestri sembra nato per parti come questa di Dulcamara (o di Schicchi o Falstaff): le fa con tanta efficacia che poi rischia di... compromettere personaggi seri o truci come Amonasro, per dire. Per lui, ormai beniamino della Scala e deus-ex-machina della vicenda, accoglienza poco meno che trionfale.

Discreto anche Massimo Cavalletti, efficace nell’impersonare il tronfio Belcore: qualche forzatura di tono magari poteva essere evitata.

L’accademica Francesca Pia Vitale ha dignitosamente interpretato Giannetta, un ruolo tutt’altro che di contorno.

Per tutti, incluso il mimo Stefano Guizzi (tirapiedi di Dulcamara) applausi e bravo! si sono sprecati.

Positivo anche il ritorno sul podio del 35enne Michele Gamba, che ha guidato un’orchestra in gran spolvero (qualche eccesso di decibel si può perdonare, e comunque non è mai andato troppo a discapito delle voci) e concertato con cura e precisione singoli e masse sul palco (lavorare con gente come Pappano e Barenboim evidentemente fa bene alla salute!) Lo si rivedrà nel sinfonico, il 3 ottobre in Auditorium quando inaugurerà Milano Musica con laVerdi in Francesconi e Mahler.

Come ripeto: tutto sommato una serata più che positiva.

12 novembre, 2018

La Fille è ritornata a Bologna


Ieri pomeriggio la bomboniera del Bibiena ha ospitato la terza delle sei recite de La Fille du régiment, una ripresa della fortunata produzione del 2004. Sala con parecchi vuoti (ahinoi) ma pubblico ben disposto e propenso all’applauso.

Sul podio il simpatico Yves Abel (qui una sua interpretazione a Vienna nel 2007, con siparietto della Caballè che canta – alla faccia di Donizetti – il suo amato 'g Schätzli) ha guidato l’orchestra con autorevolezza, confermando le sue buone qualità (quest’estate mi era piaciuto nel Barbiere al ROF).

La compagnia di canto (primo cast) ha dignitosamente fatto il suo dovere, per così dire, grazie allo spilungone Maxim Mironov (Tonio) che, a dispetto di una voce poco squillante e non potentissima (rilievi da me fattigli anche in occasione del citato Barbiere di Pesaro) ha però dato spessore al personaggio, sciorinando anche senza difficoltà i diversi DO dell’aria del prim’atto (Pour mon âme) e pure il DO# della romanza del secondo (S’il me fallait). Certo, chi ha ancora nelle orecchie il Florez del 2004 forse non ne sarà stato entusiasta, ma il pubblico, dopo l’aria dei 9 DO gli ha tributato almeno 3 minuti di orologio di applausi e richieste di bis.    

La protagonista Hasmik Torosyan a corrente alternata: bene nei passaggi più ispirati (esempio la cavatina con cello obbligato Par le rang del second’atto) con acuti ben portati; quando invece c’è da forzare, allora gli acuti escono stimbrati e vetrosi. Anche a lei si applica la constatazione di una voce non proprio penetrante.

Discreta la Marchesa di Claudia Marchi; passabile il Sulpice di Federico Longhi. Tutti gli altri li accomuno in una ampia sufficienza.

Encomiabile la prestazione del Coro di Andrea Faidutti, che in quest’opera è forse più protagonista ancora degli stessi singoli interpreti.

Un discorso a parte (e la musica c’entra poco, a dir il vero) riguarda la presenza di Daniela Mazzucato nel ruolo (solo recitante) della Duchessa. Non mi capacito davvero di come questa straordinaria cantante (certo, a fine carriera, a 72 anni!) abbia accettato di fare da comparsa (perchè di ciò si tratta) per 10 minuti nei quali ha giusto emesso un urlo e nulla più (oltretutto è stato tagliato il suo ingresso in scena all’inizio del second’atto). Presentata poi (qui c’entra anche la regìa) come duchessa di Casalecc, fra uno stuolo di altre comparse... del circondario bolognese. E forse gran parte del pubblico manco l’ha riconosciuta, così che a lei sono andati pochi clap all’uscita finale. Insomma, una cosa (per me, ma forse anche per lei) umiliante. Vero è che questo particolare ruolo lei lo sta ricoprendo da un paio d’anni, in giro per il mondo, ma almeno dovrebbe essere riempito con qualcosa di speciale: proprio come fecero a Vienna con la grande quanto vetusta Caballè nella citata edizione del 2007.

E a proposito di allestimento, quello originale di Emilio Sagi è oggi ripreso da Valentina Spinetti: chissà se è lei l’autrice del misfatto nella scena dell’arrivo degli ospiti per il matrimonio... una trovata piuttosto discutibile, ecco. Per il resto si tratta invece di uno spettacolo piacevole, in un’ambientazione (di Julio Galan) primo-novecento: in un’osteria dove si ritrovano gli svizzeri e poi i soldati del 21° reggimento (primo atto) e una vasta sala del palazzo della Marchesa (secondo atto). Simpatici i costumi ed efficace l’impiego delle luci.

In definitiva, una proposta godibile, a parte le citate cadute di stile.

12 aprile, 2018

Un modesto Don Pasquale è tornato alla Scala


Ieri sera la Scala (innumerevoli i posti vuoti) ha ospitato la terza recita del nuovo Don Pasquale, allestito da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly.

Per introdurre il mio telegrafico commento allo spettacolo mi faccio aiutare da Riccardo Muti, che - nei primi 4 minuti e mezzo di questa registrazione del 2017 -  inquadra l’opera nel contesto storico in cui venne composta e ne sintetizza le principali qualità: dramma buffo che si rifà a Mozart (e all’opera napoletana); opera che mirabilmente amalgama il comico al patetico (quindi buffa e non buffonesca). Tradotto in termini di approccio di Direttore e Regista, sarebbe a dire: leggerezza di concertazione e raffinatezza di ambientazione.

Ecco, poco di tutto ciò si riscontra in questa produzione, caratterizzata - sul piano musicale - da eccessi bandistici e sonorità grevi (si salva solo il terzo atto); su quello registico, da volgarotte goliardate da avanspettacolo anni-60.

Quando Chailly è già sul podio Alex Pereira si affaccia al proscenio, bucando il sipario: annuncia che non ci sono malati o defezioni... ma che l’Orchestra scaligera ha ricevuto a Londra il prestigioso award che la colloca sul piedistallo del mondo. Forse così si spiega l’eccessiva foga di strumentisti e direttore, che per i primi due atti hanno voluto far sentire solo il loro suono, coprendo regolarmente le voci. Persino Maestri si faticava a udire come si deve. Non parliamo di Rosa Feola che, se non è male sugli acuti, scompare nei centri e nei gravi. Pessimo l’inizio di Mattia Olivieri, intonazione periclitante e più rumori che suoni. Si salva per fortuna René Barbera, che almeno si riesce ad udire distintamente. E insieme a lui il coro, che nessun fracasso orchestrale sarebbe in grado di coprire.

Come detto, il terzo atto è stato abbastanza accettabile, anche perchè la partitura proibisce... escandescenze.
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Livermore si inventa per il protagonista il complesso materno, che ci viene esposto mentre l’Orchestra suona la Sinfonia: Pasquale, ormai vecchio decrepito, si può finalmente sposare solo perchè la madre-padrona-matusa s’è decisa una buona volta a togliere il disturbo... Poi il regista si appella al cinema italiano anni-60 (idea da lui già applicata altre volte, cito il Turco in Italia al ROF-2016) per ambientare colà il soggetto di Giovanni Ruffini.

Trattandosi di un dramma sì, ma buffo, è quasi impossibile stravolgerne il soggetto o farne una parodia, così ciò a cui assistiamo è una commedia agrodolce che si può anche digerire senza troppo sforzo. E il pubblico ha mostrato di gradire.
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Ma devo dire che la produzione dell’Accademia del 2012 mi aveva convinto di più, ecco.

21 aprile, 2017

Alla Scala ultime cartucce di una Bolena non poi così derelitta

 

Ieri penultima recita della bistrattata Anna Bolena che la Scala ha importato dalla Francia, dove non era certo stata accolta con entusiasmi nelle sue apparizioni da 4 anni a questa parte. Così alla prima al Piermarini aveva finalmente collezionato sul suo libretto anche il riprovato del pubblico scaligero. 

L’altro giorno, a proposito di Rossini e della Gazza, avevo espresso un mio personale convincimento che riapplico qui a Donizetti e alla sua Bolena: basta una proposta artistica appena appena decente per farmene (farcene?) apprezzare la grandezza. Ho ancora nelle orecchie quella incredibile rappresentazione del 19 marzo 2012 al Comunale di Firenze dove l’opera venne data – causa sciopero - senza l’orchestra, rimpiazzata da un solo pianoforte: beh, fu un autentico trionfo! Dovuto sul piano musicale al duo Devia-Ganassi e su quello scenico alla regia di Vick.

Ebbene, la proposta artistica di questa Bolena mi sembra che galleggi tranquillamente sopra il livello di sufficienza; quindi, a meno che non sia straordinariamente migliorata nelle quattro precedenti repliche, non mi pare si meritasse le stroncature senza appello della prima. Certo, dalla Scala ci si aspetterebbe assai di più, ma in senso assoluto non mi sentirei di usare il pollice verso.

Ampia sufficienza darei alla parte musicale, con la piacevolissima (per me) sorpresa costituita da Federica Lombardi, che deve avere doti naturali di livello assoluto: voce dal timbro caldo e corposo, in particolare nei centri e negli acuti (certo lei non è la Devia e i MIb gratuiti li lascia perdere) e sensibilità interpretativa già più che convincente. Insomma, una bella realtà che – se ben coltivata -ha davanti un futuro luminoso.

Con lei Sonia Ganassi, che viene da un passato luminoso, ma che ancora sa imporre la sua personalità: splendido in particolare il duettone del second’atto con la Lombardi. Buone notizie anche da Piero Pretti, bella voce squillante e ben impostata, capace di salire senza affanni ai DO. Su un piano dignitoso le prestazioni di Mattia Denti e della (travestita) Martina Belli (meglio l’aria della canzone d’esordio). Onesto e promettente l’accademico Giovanni Sebastiano Sala.

Discorso a parte per Carlo Colombara, uscito malconcio dalla prima e purtroppo buato (unico nel cast) anche ieri sera. Certo non mi ha entusiasmato, tuttavia non è incorso in svarioni o topiche clamorose: una prestazione che definirei incolore, e quindi la contestazione mi è parsa un po’ troppo severa (personalmente mi sarei limitato a non applaudire, ecco).

Sarà anche etichettabile come routine, ma la direzione di Ion Marin non mi ha per nulla deluso, così come il coro di Casoni, sempre all’altezza della sua fama. In sostanza, una performance musicale non strepitosa, ma più che passabile, sottolineata da molti applausi a scena aperta e calorosa accoglienza (Colombara escluso) alla fine.
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La regìa di Marie-Louise Bischofberger è di quelle che non suscitano entusiasmi: le scene di Erich Wonder sono di un minimalismo assoluto che si può spiegare (insieme con la cupa ambientazione delle luci di Bertrand Couderc) con l’obiettivo di concentrare tutta l’attenzione sullo scavo psicologico dei personaggi. E qui la regista qualcosa di buono ha in effetti proposto. Passabili i costumi di Kaspar Glarner, con qualche cappottone di troppo.

In conclusione, una proposta debole rispetto alle aspettative che sempre un teatro come la Scala suscita, ma complessivamente dignitosa: insomma, ciò che si può discutere, al solito, è il rapporto price/performance...

28 novembre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 3 (con brivido)


Ieri pomeriggio Bergamo ha ospitato la seconda e ultima sua rappresentazione di Rosmonda d’Inghilterra, seguita alle tre fiorentine, date in forma di concerto lo scorso ottobre. Quattro dei cinque protagonisti hanno le stesse facce (e voci, soprattutto) di scena a Firenze; il quinto è il nuovo Enrico di Dario Schmunck, che rimpiazza per l’occasione Michael Spyres. Non muta il concertatore (Sebastiano Rolli) mentre cambiano i complessi strumentali e corali che qui sono autoctoni (Orchestra Donizetti Opera, Coro Donizetti di Fabio Tartari); e si aggiunge di bel nuovo la regìa di Paola Rota, con scene e luci di Nicolas Bovey e costumi di Massimo Cantini Parrini.

Alle ore 15:45 (teatro abbastanza gremito) ancora non si comincia: un indebito quarto d’ora accademico (ci si chiede)? Poi l’annuncio addirittura drammatico: Eva Mei vittima di un grave (sic) incidente poco prima dell’inizio... Però canterà ugualmente, seduta in un angolo del palco, e sostituita in scena (muta) dalla sua vice. Finalmente alle 15:50 Rolli attacca la Sinfonia, e 12 minuti dopo, quando è il turno di Leonora, la sedia viene rimossa e la Mei fa capolino dalle quinte con le sue gambe e canta (quasi) normalmente. Così per l’intero primo atto. Poi, prima dell’inizio del secondo, si annuncia che la cantante è in grado di esibirsi normalmente anche in scena, e così accade fino a fine recita.

Beh, tutto è bene ciò che finisce bene, anzi mi sento quasi di dire che l’incidente abbia persino giovato alla Mei, che ho trovato meglio che a Firenze!

Già che parlo di interpreti, continuo con la Pratt: come sempre sontuosa negli acuti (e sovra-) sciorinati come noccioline, che le garantiscono trionfali ovazioni da stadio; non più che dignitosa nell’ottava bassa. La Lupinacci conferma l’ottima tecnica, a dispetto di una voce piccola che (complice Rolli) un paio di volte viene coperta dall’orchestra.

Schmunck mostra una voce piuttosto logora, poco penetrante e pare anche a corto di fiato, oltre che talvolta un filino calante: il suo non è certo un Enrico memorabile. Ulivieri se la cava con mestiere, dignitoso ed equilibrato, senza forzature o schiamazzi, ecco.

Il Direttore, che nel mese trascorso da Firenze ha mandato a memoria l’intera partitura, ha confermato buone doti di concertatore (a parte un paio di fracassi incontrollati di cui ho detto sopra). Onorevolissima la prestazione di orchestra e coro.
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Quanto al contenuto, si è qui presentata una terza (come minimo) variante della partitura (già a Firenze se ne erano sentite un paio): ripristinato lodevolmente nel 1° atto l’intervento di Arturo (da fuori) sulla cavatina di Rosmonda. Il finale sembra deciso ogni volta tirando i dadi; dunque: a Firenze (prima) si smentisce il libretto originale fiorentino (Trema, Enrico, io regno ancor!) e si chiude con il moncherino del finale di Napoli (Ella spira! Duolo, amor) pubblicato sul programma di sala; poi, sempre a Firenze (terza) si chiude con il finale fiorentino (smentendo il programma di sala!); ieri a Bergamo il programma di sala presenta il finale originale fiorentino e invece l’opera chiude (come alla prima di Firenze) con il moncherino di Napoli! Peccato che sempre sia stata omessa la finale (napoletana) Tu spergiuro, una delle cose migliori dell’opera, insieme a Ti vedrò, donzella audace, cui si preferisce l’originale  mi serba, mi seconda. Insomma: edizione critica o crisi dell’edizione?


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Per chi (come il sottoscritto) aveva già udito (una alla radio) due delle tre prestazioni fiorentine, un interesse particolare era rivolto alla messinscena. Paola Rota opta per uno sparagnino minimalismo spinto: scene spartane (sfondo fisso con parete illuminata e due nudi pannelli che traslano orizzontalmente); suppellettili ridotte ad un tavolino e due sedie; costumi dei protagonisti belli quanto improbabili, mentre il coro è fatto di... pipistrelli, che all’inizio sono pure dotati di parapioggia (mah...) Comunque nulla di trasgressivo e (sperabilmente) di costoso, il che è già qualcosa.

Pubblico, come detto, abbastanza folto e assai caldo, prodigo di applausi a scena aperta a fine di arie, duetti e cori e lungamente plaudente al termine della recita. Quindi: brava Bergamo e viva Donizetti!

16 ottobre, 2016

Filologia 2.0: la Rosmonda ri-ri-scoperta


A costo di sembrare pedante.

Dopo che alla prima di domenica scorsa a Firenze (non so cosa sia successo alla seconda) era stato presentato un finale dell’opera (cantato dal coro) spacciato come autentico (Ella spira!... Duolo, amor, testo pubblicato anche sul programma di sala) ieri sera l’opera (radiotrasmessa) si è conclusa sui versi di Leonora (come da libretto originale di Romani) Trema Enrico! Io regno ancor!

A 'sto punto, chissà se a Bergamo recuperano (finalmente!) la splendida cabaletta Tu spergiuro. E già che ci sono, pure Ti vedrò, donzella audace e il fuori-scena di Arturo... 

...il est temps encore.

10 ottobre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 2


Ieri pomeriggio l’OF (riempita più o meno al 60%: quindi bastava la Pergola, caso mai sistemando il coro in qualche palco, he he!) ha tenuto a battesimo un Donizetti piuttosto desueto, mettendo in scena (beh, non proprio in scena: in forma di concerto) la Rosmonda d’Inghilterra. L’esecuzione è presentata pomposamente come una prima mondiale, quella della nuova edizione di Alberto Sonzogni per la Fondazione Donizetti. Edizione che si baserebbe sul manoscritto riscoperto a Napoli 40 anni fa e che diverge in alcuni punti dal libretto originale di Romani stampato a Firenze nel 1834, in occasione della prima mondiale (quella autentica) alla Pergola (appunto!)

Da ciò che si legge sul programma di sala non è per nulla facile desumere (ammesso che interessino...) quali siano stati i criteri seguiti da Sonzogni per mettere a punto la sua edizione della partitura. La quale pare un ibrido fra il citato libretto e il citato manoscritto autografo.

Del primo è stato conservato l’esordio di Leonora (Fè mi serba, mi seconda) al posto della (di gran lunga migliore!) sostitutiva Ti vedrò, donzella audace. Ma non – chissà perchè - l’intervento (fuori scena, delizioso invero) di Arturo, mentre Rosmonda canta la sua aria di esordio.

Del manoscritto viene ignorata la parte preponderante del finale, cioè la splendida cabaletta con coro di Leonora Tu spergiuro. In compenso l’opera termina con Ella spira!... Duolo, amor, poche battute che compaiono nel manoscritto prima di detta cabaletta, laddove il libretto originale reca invece la drammatica esternazione di Leonora: Trema Enrico! Io regno ancor!

Ok, ok, uno dice: ma chi se ne frega di questi bizantinismi... Fatto sta che su di essi c’è gente che campa e lucra, accipicchia! Personalmente non ho dubbi che la versione (per così dire) messa a punto anni e anni fa da OperaRara (a partire dallo stesso manoscritto napoletano) sia assai più accattivante (nonostante i continui abbassamenti di uno o due semitoni nella registrazione in studio!) di quella ascoltata ieri.

E allora vengo a ciò che si è udito a Firenze.  

Protagonista la sempre più italiana (e fiorentina) Jessica Pratt, fresca reduce dagli... stravizi babilonesi. Al suo fianco altri rossiniani: Michael Spyres, insieme ad Eva Mei, Nicola Ulivieri e – en-travesti – Raffaella Lupinacci. Sullo sfondo, dietro l’Orchestra, il Coro di Lorenzo Fratini e sul podio, a dirigere tutti quanti, Sebastiano Rolli.

La Pratt si conferma nel bene e nel male: quando può (e/o decide arbitrariamente di) sbizzarrirsi su acuti e sovracuti (ieri è andata su, credo, fin oltre il FA di Astrifiammante) strappa applausi da stadio; ma nell’ottava bassa (che lei cerca in tutti i modi di evitare) mostra la corda. Solo così si spiega che, dopo l’aria del second’atto (Senza pace e senza speme) il pubblico le abbia tributato tre minuti di orologio di ovazioni, chiuse però da qualche sonoro buh, che ha gettato parecchio scompiglio in sala.

La sua regal rivale, Eva Mei, non mi ha del tutto convinto: avrebbe anche un timbro di voce (la parte è indicata in libretto per mezzosoprano) ed il physique du rôle adatti ad impersonare l’autoritaria, cinica e pure... attempata (11 anni più del marito) sovrana, ma gli acuti sono decisamente sfocati e vetrosi e l’emissione piuttosto periclitante. Molto meglio l’Arturo della Lupinacci, soprattutto nelle parti solistiche e nei duetti, ma purtroppo meno udibile negli insiemi.

Spyres è un Enrico sempre spavaldo e sicuro, anche se la parte forse non è fra le più adatte ai suoi mezzi: comunque non c’è una sua nota che non risuoni splendidamente anche nei grandi spazi dell’OF. Ulivieri senza infamia e senza lode: fa il suo compitino onestamente, ma non molto di più.

Ottimo il coro di Fratini e piacevolissima sorpresa (parlo per me, che lo vedevo all’opera per la prima volta) il 40enne (o poco più) Sebastiano Rolli: uno che penso farà ancora molta strada.

Credo che l’entusiasmo del pubblico si debba però a tale... Donizetti: è davvero incredibile come un’opera come questa, un autentico concentrato di splendida musica, sia rimasta per tanto tempo in cantina. C’è da augurarsi che non ci venga rimandata, sarebbe un vero peccato!
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Quattro dei cinque interpreti (Spyres è l’escluso) traslocheranno, insieme al Concertatore, a Bergamo - al Festival Donizetti - per le rappresentazioni in forma scenica di fine novembre.

(Quindi... continua.)

07 ottobre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 1


Il Festival Internazionale Donizetti-Opera offre quest’anno due primizie: Olivo&Pasquale e Rosmonda d’Inghilterra.

Quest’ultima opera fu rappresentata in prima assoluta a Firenze (Teatro della Pergola) giovedi 27 febbraio 1834 e poi, dopo una fugace ripresa a Livorno 11 anni più tardi... scomparve dai radar per 130 anni! Rimessa recentemente a nuovo dalla Fondazione Donizetti (curatore Alberto Sonzogni) costituirà il primo passo del progetto Donizetti a Firenze, che intende appunto indagare e sviluppare gli aspetti del rapporto fra il compositore bergamasco e la città toscana. Ecco quindi che, in vista delle rappresentazioni di fine novembre a Bergamo (in forma scenica) l’opera viene data in una specie di anteprima (in forma di concerto) a Firenze, non nella natìa Pergola peraltro, ma nella monumentale OF (la terza ed ultima recita del 15 verrà trasmessa da Radio3). Sotto la guida del Direttore Sebastiano Rolli, quattro dei cinque interpreti canteranno sia a Firenze che a Bergamo, con due diverse orchestre e cori, fiorentini e bergamaschi.
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Il libretto di Felice Romani (che anni prima ne aveva prodotto uno di pari soggetto per Carlo Coccia a Venezia) narra di vicende piuttosto complicate (sennò che melodramma sarebbe?) accadute a Woodstock (no, gli hippy non c’entrano, qui siamo in Inghilterra, l’America era ancora di là da venire!) nel lontano secolo XII, in un maniero dell’allora Re Enrico II. Costui, uno sciupafemmine degno antesignano del più famoso ottavo della serie, se la fa, sotto il falso nome (e te pareva...) di Edegardo (che sarebbe poi Edgardo in romanesco) con la bella Rosmonda (che per parte sua si innamora perdutamente di lui, ignorandone la vera identità) cornificando alla grande la nobile Leonora di Guienna e meditando il divorzio da quest’ultima.

Come sempre (o spesso, nei melodrammi perlomeno) accade, c’è qualcosa che va storto ai Re fedifraghi: capita che il giovane (Arturo) cui il Re incautamente affida in custodia segreta Rosmonda, mentre lui è occupato in una delle solite e noiose guerre con l’Irlanda, abbia non uno, ma ben due buoni motivi per sputtanarlo di fonte alla moglie: il primo è che lui, povero orfanello, deve proprio a Leonora la sua sopravvivenza, ed è quindi in debito di riconoscenza verso la Regina, cui rivela la tresca; il secondo è che lui è a sua volta innamorato stracotto di Rosmonda!

Non bastasse, si scopre che il padre di Rosmonda è tale Clifford, il vecchio tutore del Re, che appena scopre la tresca non esita a rampognare il suo sovrano (ed ex-pupillo) ingiungendogli di lasciare l’amante (che ancora ignora essere la figlia, dalla quale si era dovuto separare perchè furbescamente spedito dal Re in una missione diplomatica) per tornare alla mogliettina fedele, e ottenendo il permesso di incontrare la donna oggetto di adulterio per indurla al pentimento. Quando poi scopre trattarsi della figlia abbiamo una prolungata scena madre: Clifford svela a Rosmonda, che se ne dispera, l’identità dell’amante, che puntualmente arriva e conferma le sue intenzioni di sposarla e di scacciare Leonora. La quale a sua volta sopraggiunge e così abbiamo un parapiglia perfettamente adatto a reggere il grandioso concertato del finale primo!

Enrico insiste nel suo disegno (sbarazzarsi della moglie e sposare Rosmonda) ma Leonora si mostra tutt’altro che arrendevole e pare ben decisa a non farsi divorziare dal marito, al quale – durante un epico scazzo – rammenta che lui, insignificante Duca di Normandia, deve proprio a lei e al suo prestigio internazionale la sua ascesa al trono. Per di più gli manifesta immutato amore (!?)

Leonora ha un piano, che Clifford approva ed espone alla figlia: verrà spedita in Aquitania, sposata ad Arturo (che esulta per l’insperato regalo!) Rosmonda preferirebbe il convento (dopo Edegardo-Enrico lei non può amare altri uomini) ma alla fine cede ed accetta. Però poi è talmente ingenua da tradirsi involontariamente proprio con Enrico, che le ha appena annunciato di volerla far Regina. 

La situazione precipita: mentre attende il momento della partenza, Rosmonda è raggiunta da Leonora, che la accusa di aver deliberatamente fatto fallire il suo piano (al fine di sostituirla sul trono) e, armata di pugnale, è decisa a liberarsi di lei. Ma poi, impietosita dalle attestazioni d’innocenza della rivale, pare quasi orientata a risparmiarla. Senonchè in quel preciso momento arrivano Enrico e i suoi per sventare il suo piano, così Leonora trafigge Rosmonda e può proclamare in faccia al marito: Trema, Enrico! Io regno ancor! (Qui chiude il libretto originale, ma... ci saranno delle sorprese.)
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Beh, insomma, non sarà un libretto all’altezza delle opere della trilogia Stuart, ma non è nemmeno da buttare. Va detto che quattro dei cinque personaggi hanno un’identità storica ben precisa: Henry II, Eleanor of Aquitaine, Rosamund Clifford e suo padre Walter (e anche Woodstock è un luogo ben preciso nell’Oxfordshire). Solo Arturo è un’invenzione del librettista, al quale serviva per romanzare la vicenda: storicamente non è per nulla accertato, tutt’altro, che Rosamund sia stata eliminata da Eleanor: lo tramandano soltanto alcune tradizioni popolari. E in realtà pare che il Re e l’amante abbiano convissuto addirittura per 10 anni, avendo forse pure un paio di figli, prima della morte di lei, appena 26enne.
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Quanto alla musica, il suo livello spiega a fatica la collocazione dell’opera fra le minori di Donizetti, e meno ancora giustifica il letargo secolare che l’ha colpita: la struttura drammaturgica è assai solida, pochi sono i cali di tensione e i diversi numeri (solistici o di gruppo) sono di ottima fattura. Come ad esempio l’aria d’esordio di Rosmonda Perchè non ho del vento l’infaticabil volo? seguita dalla cabaletta Torna, ah! Torna, o caro oggetto, che verranno da Donizetti riciclate (complice la Fanny Tacchinardi-Persiani, prima Rosmonda a Firenze) nientemeno che al posto di Regnava nel silenzio (!) dapprima nelle rappresentazioni veneziane della Lucia del 1837, poi nella versione francese della Lucie (Que n'avons-nous des ailes? e Toi par qui mon coeur rayonne).

Ci sono anche due numeri, per così dire, contestati, nel senso che non si trovano nel libretto uscito in occasione della prima dalla stamperia Fantosini di Firenze. Si tratta di una nuova cabaletta di Leonora (Ti vedrò, donzella audace, nella seconda scena - con Arturo - in sostituzione di Sì, ti leggo in cor) e del finale dell’opera (Tu! spergiuro, disumano) cantato da Leonora e coro. Queste varianti si trovano nella partitura manoscritta di pugno dell’Autore, scovata a San-Pietro-a-Majella nei primi anni ’70 dello scorso secolo da parte di Patric Schmid, co-fondatore di OperaRara, scomparso nel 2005, il quale le ha poi presentate in esecuzioni pubbliche e in registrazione (1975 e poi 1994). Va ricordato che l’opera avrebbe dovuto essere rappresentata (ma non è certo che lo fu) a Napoli nel 1837, con il titolo Eleonora di Gujenna, il che probabilmente spiega la presenza del manoscritto nel locale Conservatorio. In attesa di ascoltarla dal vivo, ci possiamo gustare la registrazione del 1994 di OperaRara con la Fleming.

(1. continua)