XIV

da prevosto a leone
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01 giugno, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.24

Di tanto in tanto, l’Orchestra Sinfonica di Milano si (e ci) regala qualche escursione nel genere del teatro musicale. Questa volta tocca a Puccini (di cui si celebra il centenario della scomparsa…) e a Suor Angelicaalla sua seconda apparizione dopo quella di 18 anni orsono con Bisanti.

Questa produzione è realizzata in collaborazione con l’Accademia del Teatro alla Scala, da cui provengono 5 delle 7 interpreti dell’opera (Monica Zanettin e Silvia Beltrami sono le altre due). Per l’occasione torna per la terza volta sul podio dell’Auditorium il 34enne tarantino Vincenzo Milletarì, già ospite qui nel ’22 e ’23.

Serata per (quasi) tutte rappresentanti del genere femminile: oltre alle sette interpreti (dei 14 ruoli) anche la Direttrice del Coro di Voci Bianche (tutte ragazze) Maria Teresa Tramontin. A rappresentare il genere maschile, oltre al Direttore, è il Maestro del Coro Massimo Fiocchi Malaspina, con tenori e bassi che nel finale si aggiungono alle signore e alle voci bianche.    

I tre ruoli principali dell’opera, dal punto di vista musicale, sono senz’altro Angelica, Principessa e Genovieffa.

La protagonista del title-role si presenta esponendo la sua filosofia della bella morte, dove ogni umano desiderio è già realizzato prima ancora di manifestarsi, grazie all’intercessione della Beata Vergine. Poi la vediamo all’opera come esperta di medicina e farmacologia, quando prepara la pozione contro le punture di vespa; tornerà ad esercitare questa sua sapienza nel finale, allorquando preparerà la mortale bevanda per sé medesima. Poi la vediamo in preda all’ansia, all’annuncio di una visita che la riguarda; e subito dopo affrontare il drammatico incontro-scontro con la Zia Principessa, dove emerge la sua aperta ribellione contro i pregiudizi della società. Deve poi sopportare il devastante dolore alla notizia della morte del figlioletto. Da qui la decisione di darsi la morte per raggiungerlo in Paradiso, subito seguita dal pentimento per la consapevolezza della mortale peccaminosità del gesto. Infine, lo scioglimento della sua vicenda terrena nella celeste beatitudine.

Insomma, un ruolo complesso e dalle mille sfaccettature, che Puccini ha scolpito mirabilmente in musica. Ebbene, l’ormai veterana Monica Zanettin ha mostrato di sapersi calare assai bene in questa parte che alterna toni dimessi e riflessivi a scatti di passione, amor materno che arriva al sacrificio, ma anche disprezzo per la società che l’ha punita invece di comprenderla e aiutarla. Avesse un po’ più di penetrazione negli acuti sarebbe quasi perfetta. A lei è andato il maggior consenso del pubblico.

La Zia Principessa è la classica espressione femminile della società patriarcale in auge in quel lontano 1600 (ma le cui propaggini si spingono fino a noi…) Obbedienza cieca a principii ottusi; inflessibile esercizio dell’autorità: e disprezzo, in luogo di comprensione, per chi esce dalla retta via. La navigata Silvia Beltrami si è ben calata nella parte, facendo emergere con la sua solida voce contraltile tutta la freddezza e l’ottusa severità del personaggio. Anche con lei il pubblico è stato assai generoso. 

Genovieffa rappresenta l’ingenuità e la sincerità della gente comune. Sa apprezzare la bellezza di un tramonto; mostra premura nel ricordare una sorella defunta; non trova sconveniente avere desideri, se sono innocenti (agnellino = Agnus Dei…) e non animati dall’egoismo; mostra comprensione per l’ansia di Angelica. L’alfiere delle accademiche scaligere, Greta Doveri, l’ha efficacemente interpretata, accollandosi anche i ruoli marginali di seconda cercatrice e seconda conversa.

Le altre interpreti sono Elena Caccamo (Badessa + Suora zelatrice); Fan Zhou (Osmina, Dolcina, Novizia); Laura Lolita Perešivana (prima cercatrice, prima conversa) e Dilan Saka (Maestra e Suora infermiera). Le loro parti sono di portata quantitativamente limitata: accumunerei tutte in un giudizio lusonghiero. E il pubblico mi pare abbia fatto altrettanto.

Bene Milletarì, gesto sempre essenziale e precisione negli attacchi, che con questo Puccini evidentemente ha trovato una buona consonanza, valorizzandone al meglio questa difficile partitura. E l’Orchestra lo ha assecondato alla grande: da antologia tutto il finale, in cui è spiccato il mirabile passaggio (guidato dai violoncelli) che accompagna Lodiam! La Grazia è discesa dal cielo! di Angelica.

Hanno completato degnamente l’opera i cori di Tramontin e Fiocchi Malaspina. Alla fine, lunghi e convinti applausi per tutti, da parte di un pubblico assai folto e partecipe. Una serata davvero da incorniciare. 

26 febbraio, 2018

Un bel Trittico a Reggio E. dopo 10 anni


Nel suo imprescindibile testo su Puccini, Michele Girardi cita un aneddoto (riportato originariamente da Ferruccio Pagni e Guido Marotti nel loro Giacomo Puccini intimo del 1926, poi ristampato nel 1943) che riguarda le curiose circostanze nelle quali sarebbe stato attribuito il nome Trittico ai tre atti unici di Puccini. Dunque, la cosa avvenne in un circolo di pittori (Pagni era uno di loro) di Torre del Lago, dove emersero le proposte più bizzarre, quali treppiede, triangolo, tritono, trinità. Chissà (ma questo lo immagino io) se qualcuno per caso suggerì anche... tricolore

E con ciò? direte voi. Niente, solo che ieri stavo per caso nella città del Tricolore che ha ospitato (al Valli) la prima delle due recite del Trittico pucciniano, tornato colà - passando per Modena e Piacenza e prima di muovere verso Ferrara - a 10 anni di distanza dalla precedente visita. Quella ripresa oggi è la produzione del Teatro modenese del 2007, per la regìa di Cristina Pezzoli.

Credo sia doveroso elogiare subito l’organizzazione di questo tour del Trittico, che comporta evidentemente enormi e molteplici difficoltà (dalla composizione di un cast pletorico, ai relativi problemi economici); difficoltà che da sempre hanno fortemente limitato la messa in scena di questa trilogia, abitualmente spacchettata nelle sue componenti, magari poi abbinate ad altre opere brevi. Al proposito cedo la parola ad un’altra autorità pucciniana, Julian Budden:

Budden fa riferimento all’interpretazione drammaturgica del Trittico di Mosco Carner, con relativo riferimento ai tre cantici della Commedia dantesca:


Budden giustamente osserva come quel parallelo sia assai azzardato (lo stesso spunto per lo Schicchi - l’Inferno - lo smentirebbe per definizione). E quindi l’ostilità di Puccini verso lo smembramento della trilogia (come correttamente ricorda Carner, testimoniando anche la sua personale predilezione per la messinscena unitaria) fu più probabilmente legata a ragioni estetiche che non al supposto riferimento dantesco.

Peraltro non si può escludere che Puccini abbia pensato ad un qualche filo rosso che leghi le tre operine. Come minimo, non v’è dubbio che in tutte sia protagonista, sotto forme pur diversissime, la morte. Violenta e verista nel Tabarro, nobile e trasfigurata nell’Angelica, infine trattata parodisticamente quanto prosaicamente nello Schicchi. Insomma, una trilogia da necrologio!
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Ieri credo che il protervo fratellone russo dell’innocua buriana abbia dissuaso molti dal muoversi da casa: fatto sta che parecchi posti del Valli sono andati deserti... In compenso chi ha assistito ha applaudito anche per gli assenti, ecco.

L’allestimento - di quelli che sarebbero da catalogare nella categoria tradizionali, nel senso che mostrano il soggetto originale e non una sua genialoide contraffazione - mantiene ancor oggi, a 10 anni di distanza, tutta la sua freschezza e gradevolezza, restituendoci con grande efficacia la sostanza di queste tre varianti sul tema del trapasso: quella di un abietto scenario di precarietà e degrado; l’altra, di psicologica soperchieria della società ai danni di una donna colpevole di reato-d’amore; la terza, di somma ipocrisia di chi (eredi legittimi o approfittatori, fa lo stesso) nella morte cerca solo il proprio tornaconto.

Da encomiare la compagnia di canto, ovviamente con alti (Ambrogio Maestri, chi se no) e... diversamente alti (la Svetlana Kasyan, un gran vocione ma di qualità da migliorare assai). Brava la Anna Maria Chiuri (unica presente nelle tre opere) e bravissimi, direi, i due tenori (Rubens Pelizzari nel Tabarro e Matteo Desole nello Schicchi). Tutti e tutte le altre da elogiare in blocco, così come i cori (adulti e... minorenni) di Modena. 

La ORER ha offerto una brillante esecuzione di queste difficili partiture, ben condotta da Aldo Sisillo, preciso e puntuale nella concertazione.
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Allego con l’occasione un bel profilo pucciniano comparso nel luglio del 1990 su Musica&Dossier a firma di Gustavo Marchesi.

19 gennaio, 2015

L’inconsueto dittico torinese

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la seconda dello strano dittico Granados-Puccini. Teatro con vasti spazi vuoti, segno che questa proposta non deve aver convinto del tutto. E devo dire che all’atto pratico ha convinto poco anche il pubblico presente, che alla fine ha applaudito calorosamente, ma per non più di 5 minuti e di 3 chiamate del cast al proscenio, per poi incappottarsi e uscire al freddo.

Goyescas. Comincio dalla regìa: De Rosa non ha fatto il  miracolo (obiettivamente solo un miracolo potrebbe rendere teatralmente accattivante un simile soggetto). Così il regista ha trasformato i primi due quadri in un ininterrotto balletto moderno – avvalendosi della pregevole prestazione dei ragazzi del Balletto Civile – e poi all’inizio del terzo ci ha fornito una mirabile sintesi dei due quadri più famosi di Goya: la Maja vestida che, tramite disinvolto spogliarello, si trasforma sul posto in Maja desnuda!

Infine, tanto per far qualcosa di originale, fa combattere Fernando con un’arma impropria costituita da un paio di lunghe corna posticce di becco (evidente allusione allo status del capitano!) con le quali corna peraltro l’infilzato ammazza l’infilzante: e così anche lo sbifido torero si ha il fatto suo, e la smetterà per sempre di insidiare le Carmen Rosario di passaggio.

Quanto alle voci, di Giuseppina Piunti si può affermare senza tema di smentita che sia l’interprete ideale della… maja desnuda (è anche meglio del dipinto, non so se mi spiego!) Ecco, se le doti canore fossero pari a quelle del suo sontuoso fisico, lei sarebbe meglio della Callas (smile!) Ma a parte le battute di bassa lega, lei non è la Callas però non è nemmeno l’ultima arrivata, e mi è parsa la più efficace del quartetto di interpreti. Discreto il tenore Andeka Gorrotxategui (Fernando) e oneste le prestazioni di Anna Maria Chiuri (Pepa) e Fabián Veloz (Paquiro). Alejandro Escobar, tenore che nel secondo quadro canta al posto del prescritto soprano, ha pure fatto il suo dovere.

Bene il coro di Fenoglio, mentre Renzetti non mi era piaciuto molto giovedi in radio e ancor meno mi è piaciuto ieri dal vivo: nei primi due quadri ha presentato un ammasso informe di suoni, privo dei tipici chiaroscuri di Granados. Il famoso Intermezzo poi è stato affrontato a passo di lumaca stanca, oltre ad essere privato del suo Höhepunkt, con corni e tromba annegati in un marasma indefinito. Evidentemente fra il Maestro e Granados non ci sono affinità elettive (oppure è mancata un’accurata preparazione).
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SuorAngelicaQui De Rosa cerca di dire qualcosa di suo, e quindi inventa l’ambientazione in un ospedale psichiatrico (femminile, in omaggio al sesso unico dell’opera) gestito da religiose, che per la verità sembrano assai poco caritatevoli nei confronti delle povere ricoverate, trattate proprio come nei più famigerati istituti fatti chiudere a suo tempo da Basaglia.

Ora, che la religiosità di Puccini fosse tutta particolare, è ampiamente acclarato, però l’opera è tutto tranne che una parodia o una denuncia della religiosità: persino le suore del convento di sua sorella apprezzarono il soggetto e la musica del Maestro. Non credo apprezzerebbero oggi questa messinscena.

La cui conclusione poi mi pare proprio tradire lo spirito dell’opera, dove la protagonista rimane sola con la sua tragedia, dalla quale tenta di uscire con l’aiuto della natura, rappresentata da fiori ed erbe tanto amorevolmente coltivati. Invece De Rosa fa ammattire pure Angelica, che in preda ad un raptus mette violentemente a soqquadro l’armadietto dei medicinali in cerca del veleno con cui suicidarsi. Poi, invece di essere consolata dal finale miracolo con l’apparizione del figlio, ecco che riceve da una matta il suo bambolotto, mentre un’altra la scuote ripetutamente per accertarsi che sia proprio morta. Mah… qui l’unico consenso lo darei alle ragazze del Balletto Civile, che impersonano le dementi.

Sul piano musicale le cose sono andate decisamente meglio (tutto è relativo…) La protagonista principale, Amarilli Nizza, ha mostrato di sapersi calare assai bene in questa parte che alterna toni dimessi e riflessivi a scatti di passione, amor materno che arriva al sacrificio, ma anche ribellione contro i pregiudizi della società. A lei è andato il maggior consenso del pubblico.

Anna Maria Chiuri è stata una Principessa un po’ più efficace della Pepa spagnola. Personalmente ho però apprezzato di più la sua prestazione attoriale che non quella vocale. Anche con lei peraltro il pubblico è stato assai generoso, così come con la Badessa Maria Di Mauro.  

Tutte le altre protagoniste hanno parti di portata quantitativamente limitata: accumunerei tutte in un giudizio discreto, con una particolare citazione per la Genovieffa di Damiana Mizzi.

Anche qui bene il coro di Fenoglio e quello dei piccoli del Conservatorio; bene anche Renzetti, che con Puccini evidentemente ha una consuetudine antica e quindi una conoscenza approfondita delle sue partiture.
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Come detto, una proposta non del tutto convincente nel suo insieme (meglio, se ben ricordo, era andata la coppia Puccini-Zemlinsky della scorsa stagione): aspettiamo in futuro il Tabarro accoppiato a… ?   

16 gennaio, 2015

A Torino la prima volta di Goyescas

 

Il Regio torinese ha deciso di spacchettare il trittico pucciniano e di proporlo in tre rate e in stagioni successive (ed anche a ritroso, rispetto alla sequenza originale) abbinandone di volta in volta un’opera ad altra composizione breve. Così, dopo quello della scorsa stagione - costituito da Schicchi e Tragedia fiorentina – ecco quest’anno un altro strano quanto inedito dittico: Puccini abbinato stavolta a Granados.

Ieri sera è andata in onda la prima, trasmessa da Radio3.

I labili legami che collegano le due opere si riducono alla quasi contemporaneità delle rispettive prime rappresentazioni (1916 Goyescas, 1918 SuorAngelica) e al Teatro che le ospitò: il MET. Dal punto di vista dei contenuti (triangoli amorosi e sangue) ci sarebbe assai più affinità fra Goyescas e Tabarro, caso mai…
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Goyescas ebbe in realtà una genesi assai complessa: nacque nel 1910-1911 come una suite di 6 pezzi per pianoforte, ispirati più o meno direttamente a dipinti di Goya. Ad essi si aggiunse poi, nel 1914, un settimo brano (El Pelele): qui si possono ascoltare nell’interpretazione di Alicia DeLarrocha.

1. Los requiebros (apprezzamenti galanti) si ispira alla 5a delle 80 acqueforti della collana Los Caprichos del pittore aragonese, intitolata Tal para qual:


2. Coloquio en la reja (Conversazione attraverso la grata);

3. El fandango de candil (Fandango della lucerna);

4. Quejas, o La Maja y el Ruiseñor (Lamento, o La fanciulla e l’usignolo);

5. El Amor y la muerte (Balada) (Ballata di amore e morte) ispirato alla 10a acquaforte dei Caprichos, di pari titolo:


6. Epilogo: Serenata del espectro (Epilogo: Serenata dello spettro);

7. El Pelele: Escena Goyesca (Il fantoccio) ispirato al dipinto su cartone (m. 2,67x1,60) di pari titolo, modello per un arazzo per Carlo IV all’Escorial (1792):


La suite pianistica non ha propriamente una trama, tuttavia i sei brani originali – dai loro titoli - evocano scene e situazioni di vita: si va dal corteggiamento al colloquio, al ballo, alle pene di una ragazza, alla fine tragica di un amore e al ritorno dello spettro del morto. Ecco, con un poco di ulteriore immaginazione e di riordino della sequenza, e impiegando anche il settimo brano (El Pelele) oltre a spezzoni di un paio di sue Tonadillas, Granados impaginò nel 1914 la sua opera breve, che fu poi testualizzata (con un processo inverso a quello solito dove è un testo ad essere musicato) da Fernando Periquet che ne perfezionò il soggetto popolar-verista (una specie di Cavalleria, o di Pagliacci in sedicesimo). La cui struttura prevede tre quadri per un totale di dieci scene ed ha un finale di tipo trasfigurazione, che rese inservibile, perché con esso incompatibile, il sesto brano della suite (lo spettro).

Sommariamente abbiamo quindi la seguente corrispondenza fra l’Opera e la Suite (in realtà i motivi si intersecano maggiormente):

opera
suite & al
quadro 1
scena 1
scena 2
scena 3
scena 4

brano 7
brano 1

brano 7
quadro 2
scena 5
scena 6
scena 7

brano 3
tonadillas
quadro 3
scena 8
scena 9
scena 10

brano 4
brano 2
brano 5

Possiamo seguire l’opera in questa esecuzione in forma di concerto a Barcellona.  

Dopo una breve introduzione strumentale, eccoci al Quadro primo, ambientato in una spianata alberata di Madrid, dove nella scena iniziale (1’48”) ragazzi e ragazze (majas e majos) se la spassano allegramente. In particolare le femmine si divertono facendo volteggiare in aria un pupazzo (El Pelele) e non per nulla la musica che udiamo in sottofondo richiama precisamente il N°7 della suite pianistica:

 
A 4’24” fa il suo ingresso uno dei protagonisti, Paquiro, che ha fama di sciupafemmine (manco a dirlo è… un torero) e subito si dà a dispensare galanti apprezzamenti alle ragazze, guardato invece con una certa diffidenza dai maschi. Si odono ora i campanelli di un calesse che si avvicina: è la donna di Paquiro, Pepa.   

La seconda scena si apre appunto con la Pepa che scende dal suo carretto (trainato da cani, precisa la didascalia in versione inglese sullo spartito!) A 6’30” si gode il trionfo tributatole da tutti, e il coro misto (7’14”) ne intona le lodi sul secondo motivo variato del N°1 della suite. A 7’25” Paquiro si accoda alquanto svogliatamente alle lodi generali per la sua donna, che da parte sua gli conferma pieno amore, mentre tutti riprendono le loro acclamazioni per la coppia più bella del mondo. Ma adesso (9’02”) si avvicina un’altra protagonista della nostra storia, che Paquiro riconosce, rivolgendole apprezzamenti sospetti, sul tema principale del N°1:

   
È Rosario, una nobildonna che arriva in portantina (9’26”) ad aprire la terza scena: pare cerchi qualcuno cui ha dato appuntamento, e non si vede. Anche Paquiro (9’35”) si chiede chi Rosario stia cercando e poi, vedendola circospetta, (9’44”) avanza la sua sfacciata proposta: ti ricordi di quel ballo della lucerna? Perché non ci torni anche oggi? Quasi tutta la scena è supportata in sottofondo dai due motivi del N°1 della suite pianistica.

Adesso facciamo conoscenza del quarto ed ultimo protagonista: il capitano Fernando, che si aggirava lì di nascosto (forse proprio per sorprendere la sua amata Rosario in flagrante?) ed ha ascoltato le parole di invito di Paquiro alla sua donna. A 9’53” si mostra e comincia ad esternare i suoi dubbi e così Paquiro ha capito chi era la persona che Rosario aspettava. Fernando (10’05”) riprende il secondo motivo del N°1 confessando i suoi sospetti sul fascino che il torero deve avere sulla sua donna:

 
Adesso le voci dei quattro protagonisti, con un paio di interventi del coro, si sovrappongono esternando i rispettivi stati d’animo: i sospetti di Fernando, la costernazione di Rosario, il desiderio avvampante di Paquiro per la nobildonna e l’intenzione di Pepa di impedire a Rosario di portarle via il suo uomo. Ma è proprio Pepa che sfida il destino, avvertendo Fernando dell’ora in cui si terrà il ballo, al quale il capitano ora impone a Rosario di partecipare, come gesto di sfida verso lei e Paquiro.

14’25” Sul tema del N°7 ritorna El Pelele, contrappuntato dal N°1, a costituire la breve quarta scena che chiude il quadro.

Prima del quadro successivo, ecco (16’04”) il famosissimo Intermezzo, che spesso e volentieri viene eseguito separatamente nei concerti. Composto in vista della prima al MET (in sostituzione di un altro presente nell’edizione originale del 1914) è in tempo 3/4 e inizia con una melodia che richiama vagamente l’attacco della Valse triste di Sibelius. A 18’09”, su un poderoso tremolo di MIb maggiore dei violoncelli, ecco i due corni esplodere l’enfatica frase musicale che è diventata il simbolo dell’opera, subito spalleggiati dalla tromba che ne completa l’arco melodico:

 
Poi un’impennata dei violini dà inizio ad una lenta ed inesorabile discesa verso la conclusione, sul secondo motivo del N°1.

Il Quadro secondo è ambientato al ballo della lucerna e la quinta scena si apre (21’21”) per l’appunto con il caratteristico ritmo di fandango del N°3 della suite pianistica:

Ragazzi e ragazze ballano incessantemente, intonando (22’08”) il tema del N°3:


Ma sono anche in attesa di ospiti di riguardo, che infatti arrivano (23’02”) con Rosario che muore di paura (però, magari in incognito, la nobildonna in quel postaccio aveva già messo piede, vero?) A 23’10” è la sbifida Pepa ad accoglierla con sarcasmo (ah, ecco qui una gran dama che vuol fare esperienze forti…)       

Ora assistiamo a schermaglie verbali fra i convenuti e Fernando, che Paquiro (24’21”) tronca invitando il capitano a verificare se la sua donna desideri ballare; subito incalzato da Pepa, che ancora chiede sarcasticamente cosa ci è venuta a fare lì quella gran dama. La scena si chiude con un ultimo sberleffo di Pepa e degli astanti nei confronti della malcapitata Rosario.

A 25’37” ha inizio la sesta scena, con una citazione letterale della Tonadilla Amor Y odio, sulla quale Paquiro diffida Fernando dall’esser venuto lì con intenzioni diverse dal ballo:


La scena drammaturgicamente aggiunge assai poco a quanto già visto e udito: abbiamo reiterati screzi verbali fra Paquiro e Fernando, mentre Rosario è sempre più agitata e non vede l’ora di andarsene. Gli astanti in coro fanno commenti preoccupati per la piega che sta prendendo la situazione, ed infatti ad un’ennesima spavalderia di Fernando si sfiora la rissa, con la povera Rosario che addirittura sviene.

Paquiro e Fernando (27’55”) approfittano del parapiglia per… accordarsi su ora e luogo del duello che dovrà risolvere il loro contenzioso. Finalmente Fernando e Rosario se ne vanno, mentre Paquiro (28’15”) ordina perentoriamente la ripresa del ballo, per quanto sia deluso per l’allontanamento di Rosario.   

Ballo (fandango) che occupa (29’04”) la parte finale della scena settima, dopo che Pepa e i ragazzi hanno inneggiato alla bella vita. Sopra le voci del coro spicca quella di un soprano solista, che magnifica le doti della vera maja.

A 32’06” abbiamo un nuovo Interludio, che introduce adeguatamente l’atmosfera cupa del quadro conclusivo. Significativamente, è il corno inglese ad esporre una mesta melodia, seguito poi da clarinetto ed oboe. Ora un flauto (35’08”) emette i caratteristici gorgheggi di un usignolo.

Si apre (35’22”) il Quadro terzo nella zona antistante il palazzo di Rosario. L’ottava scena ci mostra la donna che contempla la notte di luna piena ed ascolta il canto dell’usignolo. E il suo canto si snoda sulla stupenda melodia del N°4 della suite pianistica (quella il cui incipit verrà ripreso nel 1940 da Consuelo Velázquez nella famosa canzone Besame mucho):

I fiati soprattutto accompagnano il suo canto e i flauti (37’45”) ricordano nientemeno che il risveglio di… Brünnhilde!

A 41’01” ha inizio la nona scena, con Fernando che si avvicina a Rosario, che si appresta a rientrare in casa: i due sono protagonisti di un duetto d’amore per il quale Granados impiega le note del N°2 della suite pianistica:

Fernando indaga i sentimenti della donna, che giura di essergli sempre rimasta fedele. Il capitano insiste con i suoi dubbi e i suoi sospetti, ma Rosario sembra riuscire a convincerlo. A 44’55” Fernando si abbandona ai sentimenti e fra i due pare proprio tornare la serenità, con il loro canto (47’20”) che ha un’estatica progressione quasi tristaniana!

Ma il destino incombe: a 47’53” si odono, nel pizzicato degli archi, i passi di Paquiro, arrivato all’appuntamento per il duello. Fernando se ne avvede e improvvisamente cerca una scusa per lasciare Rosario (48’56”) che presto comprende la ragione dello strano atteggiamento dell’amato. A nulla valgono i suoi tentativi di trattenerlo, e Fernando l’abbandona per raggiungere il rivale.

A 49’12” un drammatico sfogo orchestrale accompagna voci e rumori che provengono da dietro la scena: due urli, di Fernando ferito a morte e di Paquiro, disperato per l’atto appena compiuto.   

A 49’45” sono le note del N°5 della suite pianistica ad introdurre la decima scena, che chiude l’opera:


Rosario soccorre l’amante moribondo (50’45”) le sembra tutto un brutto sogno, chiede a Fernando di guardarla ancora, ma (52’12”) lui sente la morte avvicinarsi: le note meste nel violino (che nel N°5 richiamano un frammento del N°4) accompagnano il suo spirare fra le braccia di Rosario. La quale (52’53”) sembra non accorgersi di nulla, e domanda all’amato perché se ne vuole andare via da lei. Poi (54’22”) realizza con disperazione che tutto è ormai perduto, e non le resta (55’21”) che invocare per due volte Amor! e poi meditare sull’eterno mistero di vita e morte, mentre l’orchestra chiude (a differenza del N°5, che finiva in minore) su un celestiale SOL maggiore.
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Beh, non si può certo parlare qui di capolavoro, al di là della bella musica di Granados: dal punto di vista drammaturgico la sostanza è davvero scarsa, e quasi assente è la scolpitura musicale delle personalità dei protagonisti; il tutto si riduce a quadretti di vita popolare (come in fondo sono i pezzi pianistici da cui l’opera fu derivata). Non è quindi un caso se le (comunque scarse) esecuzioni siano quelle in forma di concerto.

Dall’ascolto radio, mi sentirei di lodare il coro e l’orchestra, mentre non mi sono parsi impeccabili i cantanti. Quanto a Renzetti, ho percepito tempi eccessivamente sostenuti ed enfatici, ma qui è questione di… gusti. 
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Altra… musica con SuorAngelica, sotto ogni punto di vista: soggetto, teatro, suoni. Ed anche esperienza degli interpreti, a cominciare da Renzetti, parso a me assai più a suo agio che non con Granados: equilibrio nei tempi e attenzione alle infinite sfumature di cui questa partitura, solo apparentemente facile, è ricchissima. Voci che, salvo prossima verifica dal vivo, mi son parse sufficientemente all’altezza.

Quanto agli allestimenti, le poche battute percepite dalla Susanna e dalla sua chiacchierata con De Rosa non fanno presagire cose mirabolanti, ma anche qui aspettiamo di toccare con… occhio.