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11 febbraio, 2025

Gatti porta alla Scala l’intera decima di Mahler(-Cooke)

Ieri la Scala – con doveroso omaggio all’indimenticabile Maria Tipo, che ci ha lasciato - ha ospitato la prima delle tre esecuzioni della Decima di Mahler (versione completata da Deryck Cooke) diretta da Daniele Gatti. Si tratta di una primizia per il Teatro, dove fino a ieri si era data solo la versione (di Erwin Ratz) dell’iniziale Adagio.

Qui le condivisibili ragioni addotte dal Maestro per questa scelta. Che oggi non è (più) obbligata, ma aperta ad un ventaglio di alternative, fra cui: Barshai, Gamzou, Chaslin, Mazzetti, Samale-Mazzuca, Carvalho (per ensemble), Castelletti (per orchestra da camera), Kakamu, e… le porte sono ormai aperte a tutti!

Ecco qui una mia personale nota critica su questa piuttosto ingarbugliata faccenda.

Molti commentatori catalogano questa sinfonia come ultima componente di una cosiddetta trilogia della morte, che includerebbe anche Das Lied von der Erde e la Nona Sinfonia. Ora, è inoppugnabile che Mahler sia effettivamente passato a miglior vita a meno di un anno di distanza dal concepimento di questo lavoro; come è vero che il compositore boemo avesse qualche buon motivo di sconforto procuratogli da ben quattro disgrazie: il licenziamento dalla direzione dell’Opera di Vienna, la morte della primogenita Putzi, la diagnosi di una disfunzione cardiaca (peraltro non mortale in sé) piombategli addosso nel 1907 (estate a Maiernigg); e la scoperta della tresca di Alma con Gropius, fatta per caso (o subdolamente provocata dall’architetto?) nell’estate del 1910 a Toblach.

Ma se osserviamo le partiture delle tre opere scopriamo che la morte… si vede ma non c’è, perché non si sente. A dispetto delle deliranti espressioni scarabocchiate sui fogli della Decima, è la musica, come quella delle due precedenti composizioni, a smentire la leggenda, poiché trattasi di musica che, alla fine, mai evoca la morte, ma sempre l’eternità, della quale la morte rappresenta caso mai la porta d’ingresso. Ce lo testimoniano in modo inoppugnabile proprio gli epiloghi delle tre opere, sempre ed ostinatamente orientati in maggiore (DO, REb e FA#) alla serena accettazione della fine della vita materiale nella prospettiva, appunto, dell’eterno.

E Gatti mi sembra aver colto questo profondo significato dell’opera, che pare proprio percorrere un arco che muove dall’innocenza al dramma, alle visioni infernali, ma per chiudersi infine in serena rassegnazione.

Orchestra sempre al meglio in ogni sua sezione e gran trionfo per tutti.

14 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#14


Ieri si è chiuso il Mahler-Festival con l’ultima Sinfonia (completata) del compositore boemo: la Nona, con il Direttore Emerito Claus Peter Flor sul podio di un Auditorium affollatissimo. Un degno suggello per questa manifestazione che ha tenuto banco – nel mondo culturale milanese e non – per più di tre settimane piene di suoni prodotti dalle migliori orchestre italiane: un evento davvero degno di passare alla storia!
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La Nona, insieme al Lied von der Erde (che a settembre in Scala aveva significativamente inaugurato allo stesso tempo la stagione 23-24 e il Festival) e al torso della Decima, forma quella trilogia della morte con cui si usa catalogare quest’ultima parte della produzione mahleriana, a partire da quell’infausto 1907 che calò sul capo di Mahler (e della moglie Alma) le micidiali martellate del finale della Sesta. Sinfonia peraltro composta quasi 4 anni prima, quando Mahler toccava letteralmente il cielo con un dito: moglie invidiata dal mondo intero, famigliola felice, gloria professionale e benessere economico.

E infatti quella Sinfonia tragica rimase un unicum (conclusione in tonalità minore) in tutta la produzione mahleriana, anche in quella posteriore: immediatamente, anni 1905-1906, che videro nascere la Settima, chiusa da un esilarante DO maggiore, e l’Ottava, dove il MIb maggiore abbonda fino alla nausea; ma anche successivamente all’annus horribilis, con quella trilogia (1908-1910) che ostinatamente continua ad evitare conclusioni funeree: il Lied chiude in DO maggiore, la Nona in REb maggiore e la Decima (abbozzo) in FA# maggiore.

Insomma, si può dire che la dimensione tragica in Mahler fino al 1907 fu sempre e solo osservata dall’esterno, tutt’al più fatta propria con un sentimento di pietas per tutti i mali del mondo, di cui il compositore era stato ed era direttamente testimone. Ecco, dopo quel disgraziato 1907 tutto cambiò poiché Mahler sperimentò – inaspettatamente e a ripetizione - il tragico sulla propria persona, sia in termini materiali (la fine dell’avventura viennese, la diagnosi preoccupante del suo stato di salute) che spirituali (la scomparsa della figlioletta e il deteriorarsi del rapporto con Alma).

Possiamo quindi immaginare lOttava sinfonia (1906) come quella che chiude il ciclo della produzione del Mahler testimone del mondo; da lì in avanti, la sua musica sarà quella del testimone di se stesso, naturalmente in rapporto al mondo e all’aldilà. 

Ed è proprio la trilogia della morte che in qualche modo sconfessa, come insincero, il pessimismo, quasi-nichilismo della Sesta: la quale, alla luce delle ultime opere, ci appare come una deviazione intellettualistica da quella strada che da sempre Mahler aveva percorso: l’amore sconfinato e una specie di fede laica nella Natura, di cui sono testimonianza i versi aggiunti di suo pugno alla fine del testo cinese dell’Abschied, che muta da fatalistico sconforto a rassegnazione serena, come gli orizzonti che si tingono d’azzurro…

In sostanza: in quell’estate del 1907 Mahler di certo aveva preso coscienza che la fine avrebbe potuto ormai bussare alla sua porta in qualunque momento, ma non era affatto un uomo sfiduciato, era anzi un artista che si manteneva in buona efficienza e piena attività. Caso mai la sua Nona – così come il Lied e i frammenti della Decima – ci mostrano la sua intima convinzione che, pur sulle macerie lasciate da quei terremoti, ci fosse ancora la prospettiva di una terza età che certo escludeva per lui il ritorno ai trionfi (pubblici e privati) della gioventù, ma che era pronto ad affrontare con il piglio di sempre (non per nulla, appena completata la Nona, metterà subito in cantiere e comincerà a lavorare alacremente alla sua Decima!)

Quindi: nessun sentimento di terrore di fronte allo spettro di una morte imminente (che arriverà – e prematuramente, possiamo ben dirlo date le circostanze - ben due anni dopo la Nona e tre dopo il Lied, e a causa di una infezione virale, un’endocardite, incurabile perchè non c’erano ancora in giro gli antibiotici…); ma l’esposizione del suo programma, non scritto, di consapevolezza nella caducità delle terrene cose e quindi anche della vita, alla di cui fine prepararsi nel modo musicalmente più appropriato.

A puro titolo di curiosità, se osserviamo che il Lied chiude su una sopratonica (RE) e la Nona su una dominante (LA) potremmo spiegare queste cadenze imperfette come una sfida del superstizioso Mahler alla morte, lasciando sempre aperto uno spiraglio per la… prossima Sinfonia, cosa che effettivamente accadde! 
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Come in quei film (o quei racconti) che si aprono calando direttamente (in medias res) ad un passo dalla conclusione per poi presentarci un lungo flash-back che ci informa in dettaglio sui fatti pregressi e infine ci riporta là da dove il film era cominciato, così questo Festival aveva avuto la sua ideale anteprima domenica 10 settembre alla Scala, quando si era spento il Lied con la reiterata esposizione di un motivo (mediante>sopratonica, MI-RE) che aveva accompagnato le ultime parole del canto: ewig… ewig… ewig… Poi il Festival ci ha condotto per mano ad esplorare tutte le vicende musicali che avevano portato a quel punto: quattro cicli di Lieder e otto Sinfonie!

Ecco perché è stata opportunamente chiamata proprio la Nona a chiudere il Festival: racconta della Sinfonia (come genere di opera musicale) che musicalmente interpreta il suo proprio tramonto in modo sereno, non traumatico, restando fedele al suo passato nella struttura complessiva (quella risalente a Mozart, all’ultimo Haydn e a Beethoven, i tre mostri sacri della prima scuola di Vienna…), nella forma-sonata del movimento iniziale e nella natura dei movimenti interni (uno comodo e l’altro vivace); ma essendosi spogliata dei tratti più eroici e sognatori - e magari velleitari - dei bei tempi andati (i due movimenti esterni, non più Allegro, ma Andante e Adagio).

E la Nona riprende precisamente il discorso lasciato in sospeso da quel MI-RE (ewig…) dell’Abschied: poiché dopo sei battute introduttive (piene di simboli e allusioni) i secondi violini si lanciano nell’esposizione del primo tema che inizia proprio con l’inciso mediante>sopratonica (ma qui FA#-MI, poiché siamo in RE maggiore…) che aveva chiuso il Lied!

Flor, che già aveva diretto qui la Sinfonia pochi anni fa, ne ha dato una lettura che definirei laica, asciutta (come testimonia il tempo spedito con cui ha condotto il gemächliche Ländler); accentuando i contrasti del primo movimento (grandi impennate eroiche seguite da catastrofiche cadute); poi scatenando tutta la furia del Rondo.Burleske, nel quale compare, quasi un miraggio, quell’oasi improvvisa dove la tromba anticipa il gruppetto, elemento fondante dell’Adagio conclusivo. Adagio la cui tonalità degrada di un semitono rispetto al RE maggiore iniziale, anche questo un chiaro riferimento all’ineluttabile scorrere del tempo e all'avvicinarsi della...

Del quale Adagio è da ricordare il culmine caratterizzato dalla straziante perorazione dei quattro corni (ieri guidati da Giuseppe Amatulli, meritatamente ovazionato alla fine) per arrivare alla conclusione che, dopo il girotondo delle viole attorno alla dominante di REb, non ha contemplato minuti di raccoglimento come si fosse in una camera ardente dinanzi ad un feretro, ma qualche doveroso secondo di silenzio per far semplicemente decantare l’emozione che si prova sempre ascoltando questa musica. (Sì, perché qui anche il silenzio è… musica, che proprio sembra non volersi spegnere, ma continuare a vivere in eterno.)

Più di cinque minuti di liberatori applausi hanno salutato l’epilogo di questa grande e indimenticabile avventura.

12 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#13

Il penultimo concerto del Festival ha avuto come protagonisti l’Orchestra Sinfonica Giovanile di Milano (una delle tante facce artistiche de laVerdi, formata solo da under-25) e Ruben Jais (che riunisce in sé le cariche di Direttore Generale e Artistico della Fondazione).

Mahler qui era presente come ri-orchestratore di Bach, e incapsulato fra due opere di Beethoven: insomma, una gran bella compagnia!

Si è aperto con l’Ouverture Coriolano, che Beethoven compose per la tragedia di vonCollins. A proposito di tragedie, in questa vecchia pubblicità - che si conclude proprio con le note di apertura del Coriolano - compare a più riprese il teatro di una recente tragedia che ancora grida vendetta…

L’Ouverture poggia classicamente su due temi contrastanti, che evocano la vicenda di Coriolano:

Il primo, DO minore, introdotto da poderosi schianti dell’intera orchestra, è davvero drammatico, come l’intera esistenza del condottiero romano, conclusa - almeno stando a Cicerone - con tanto di suicidio.

Il secondo, nella relativa MIb maggiore, di carattere elegiaco, femminile, contemplativo, vuol evocare la figura della madre che scongiura Coriolano di non attaccare la sua città.

I ragazzi della Giovanile, guidati dal Konzertmeister (fuori-quota…) Dellingshausen hanno fatto così il loro esordio ufficiale in Auditorium, accolti da applausi di simpatia e incoraggiamento. 
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Ecco poi la Suite bachiana, che Mahler approntò a NewYork nel 1909 per una serie di concerti storici della NYPO, di cui era Direttore Musicale; la prima fu eseguita mercoledi 10 novembre, cui seguirono numerose esecuzioni in USA in quella stagione e nella successiva, fino a quel fatale febbraio 1911 quando a Mahler fu diagnosticata la nuova e letale malattia cardiaca che lo portò alla tomba nel giro di tre mesi.

La tabella seguente rappresenta la struttura delle due Suite bachiane originali e le corrispondenti sezioni di quella mahleriana, che principalmente consta nell’aggiunta della parte al clavicembalo, dove sedeva lo stesso Mahler:

Bach
Mahler
Suite 2 (BVW 1067)
Suite aus den Orchesterwerken von J.S. Bach
            1. Ouverture  
      1. Ouverture  
            2. Rondeau
      2. Rondeau
 
 
 
 
 
 
           Badinerie
   
            3. Sarabande
            4. Bourrée I
            5. Bourrée II
            6. Polonaise
            7. Double
            8. Menuet
            9. Badinerie
Suite 3 (BVW 1068)
            1. Ouverture  
            2. Air
      3. Air     
            3. Gavotte I
      4. Gavotte I
          Gavotte II
   
   
            4. Gavotte II
            5. Bourrée  
            6. Gigue

Qui una pregevole esecuzione di Riccardo Chailly ai tempi della sua lunga permanenza al Concertgebouw.

A proposito di questa Suite, va ricordato che essa – insieme alla Quarta di Schumann-Mahler, diretta con la NYPO - fu l’unica opera (e pure non originale…) dell’antico rivale diretta da Arturo Toscanini, precisamente alla Scala mercoledi 12 ottobre del 1927!  

Jais, in considerazione del ruolo di spicco che ha nella Suite (soprattutto nei primi due numeri), ha portato Alessia Scilipoti e il suo flauto al proscenio, alla sua sinistra. Per lei e per tutto il complesso ancora convinti applausi.
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Ha chiuso il programma l’inflazionata Quinta, che ha messo a dura prova la compagine dei giovani, che hanno risposto con entusiasmo e dedizione, nuovamente ricambiati da lunghi applausi. Per loro un felice battesimo: così nel prossimo futuro avranno l’opportunità e l’onore di suonare con Direttori del calibro di Robert Treviño (2/12), Emmanuel Tjeknavorian (17/2) e Claus Peter Flor (11/5).

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#12

L’ultima Orchestra Ospite del Festival è la Toscanini di Parma, guidata da Omer Meir Wellber (al suo esordio in Auditorium) che ci ha presentato un concerto già dato nei giorni scorsi a Como e a Parma (quindi ormai… collaudato).

Vi troviamo le tre principali componenti della produzione mahleriana esplorate dal Festival: Sinfonia, Lieder e orchestrazioni di musica altrui (Schumann, nella fattispecie).

Si è quindi aperto con l’Andante-Adagio, unico movimento portato (quasi) a compimento della Decima, che Mahler mise sulla carta nell’estate del 1910 a Toblach, la sua ultima estate e per di più quella più dolorosa (almeno quanto quella del 1907 a Maiernigg): perché vi arrivò la terza martellata che il superstizioso Mahler aveva cancellato dal finale della sua Sesta (anzi, potremmo dire fosse in realtà la quarta martellata): il tradimento di Alma! Un colpo che peraltro il compositore, riavutosi dallo choc della sorpresa, incassò con grande dignità, ammettendo le sue colpe (inadempienze ai doveri del letto matrimoniale, per essere precisi) nei riguardi della moglie e correndo fino a Leiden per farsi aiutare da Freud a rimediare alla catastrofe. 

Ed in effetti Alma decise di rimanere stoicamente al suo fianco, mentre il marito arricchiva gli schizzi della nascente Sinfonia costellandoli non già di note, ma di sfoghi, invocazioni, imprecazioni e lamenti. Mahler si dovette poi occupare della trionfale prima dell’Ottava a Monaco e infine partì per NewYork, dove imperterrito continuò a lavorare alacremente con la NYPO, dirigendo un concerto dietro l’altro, fino a che… il cuore già da sempre malmesso fu attaccato dallo sbifido virus che provocò la fatale endocardite. 

E della Sinfonia Mahler lasciò quindi solo lo scheletro (ma una specie di Frankenstein, senza una chiara indicazione di quali fossero le braccia, le gambe, il torso e il bacino, tanto per dire…) Lo stesso movimento completato doveva essere presumibilmente il secondo dei cinque sbozzati in Particell (1-2-3-4-5 righi musicali al massimo) e arrivati a noi dalla moglie Alma che li rese pubblici nel 1924.

E persino su questo movimento giuntoci in manoscritto nella sua interezza (orizzontale e… verticale) possiamo star tutt’altro che certi che sarebbe rimasto proprio così se l’Autore avesse avuto il tempo materiale per ulteriormente rivisitarlo e rifinirlo, come fece per tutte le sue Sinfonie precedenti.

Ne è prova che persino curatori diversi della pubblicazione di questo Adagio non hanno concordato fra loro. Ad esempio, nell'ormai lontano 1964, proprio nel periodo in cui Deryck Cooke – Alma permettendo - stava facendo eseguire la sua prima versione dell'intera sinfonia, Erwin Ratz, nella sua prefazione all'edizione Universal del solo Adagio, scriveva papale-papale: 

Ciò che sta scritto su questi fogli (i manoscritti mahleriani, ndr) era completamente intellegibile dal solo Mahler, e nemmeno un genio sarebbe capace, da questo stadio di sviluppo del lavoro, di divinare l'approccio alla sua forma definitiva. 

Ma questa sentenza - un grosso siluro a Cooke - veniva pubblicata proprio nella prefazione all’Adagio, che Ratz aveva a sua volta editato (come risulta dal corposo Revisionsbericht…) in quanto incompleto la sua parte, e in base alla considerazione che ormai quel movimento era entrato nel repertorio di tutte le orchestre, e tanto valeva dargli una veste, per così dire, ufficiale, con la benedizione della Internationale Mahler Gesellschaft di Vienna.  

Se si confrontano le due partiture dell’Adagio – di Ratz e Cooke – si possono rilevare differenze di varia natura: alcune sono bizzarrìe belle e buone, come notare un FA bequadro (Cooke) invece di un MI diesis (che Ratz non si accontenta di indicare in chiave, ma scrive esplicitamente davanti alle note); in altri casi troviamo indicazioni agogico-dinamiche divergenti (dove Cooke è assai più ricco ed esplicito di Ratz); infine abbiamo differenze non da poco nell'orchestrazione, dove ad esempio Cooke impiega flauti, oboi, clarinetti e tromboni a4 (mentre Ratz li limita a3), prevede clarinetto basso e controfagotti (assenti nella versione Ratz) e a volte ispessisce il suono aggiungendo oboi e flauti sopra gli ottoni (peraltro sempre in modo distinguibile rispetto al contenuto del manoscritto).

Certo, ad un ascolto superficiale son differenze magari impercettibili, che non cambiano poi di molto la sostanza, ma che testimoniano dell'incompletezza del lavoro mahleriano, che dobbiamo accontentarci di immaginare, più che di assaporare compiutamente.

Meir Wellber – a giudicare dagli strumenti messi in scena – deve aver dato ragione a Ratz. Comunque, Ratz o Cooke, sempre Mahler é… e il Direttore israeliano e la Toscanini lo hanno valorizzato al massimo, facendo emergere i tratti più espressionisti della partitura (che si muove ormai ben oltre i confini della tonalità) insieme alla nobile cantabilità del tema principale. 
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Ancora Mahler con i cinque Rückert-Lieder (qui alcune mie brevi note sui contenuti) interpretati da quel Christoph Pohl che avevamo giorni fa ammirato ed applaudito, con la SantaCecilia, nei Lieder dal Wunderhorn.

Dato che Mahler non indicò alcuna tassativa sequenza di esecuzione, Pohl ha comprensibilmente posto in coda alla sua performance i due Lieder più corposi e di maggior effetto: Um Mitternacht e Ich bin der Welt. Per lui scroscianti applausi, ovazioni e ripetute chiamate.
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Ha chiuso la parte ufficiale del concerto la Quarta di Schumann rivisitata da Mahler. Le differenze rispetto all’originale che anche un non esperto può individuare sono: la mancanza del da-capo dell’esposizione nel movimento iniziale (ma questo è ciò che può fare chiunque…) e i rinforzi dei corni a dare splendore ad alcuni passaggi topici.

Meir Wellber l’ha diretta a memoria, non negandosi/negandoci suoi personali tocchi interpretativi, soprattutto a livello agogico, che hanno impreziosito la Sinfonia ben al di là del valore aggiunto mahleriano.

Alla fine il trionfo (applausi ritmati, urla) non è mancato, cosicchè è stato ricambiato dal mascagniano Intermezzo dalla Cavalleria.    

09 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#11

Ieri sera il Duomo di Milano ha ospitato quello che certamente era il concerto-clou del Mahler-Festival: l’esagerata Ottava, che l’Orchestra Sinfonica di Milano eseguiva per la seconda volta nella sua storia, dopo quella prima esperienza del novembre 2013 (20° anniversario) alla vecchia Fiera, con Chailly.

Pubblico che neanche a Natale o Pasqua… lunghissime code in piazza attendendo l’apertura del giganteschi portoni della Cattedrale in durissima pietra sotto le cui navate sono poi risuonate le note di tutt’altro tipo di Cattedrale!

Impressionante lo spettacolo dei Musikanten schierati nell’abside (con la banda isolata - che nei finali di ciascuna delle due parti suona i temi principali della parte susseguente / antecedente - sul pulpito di sinistra): oltre agli strumentisti, ecco sul fondo, al centro, i Pueri Cantores del Duomo (preparati e guidati da Marta Guassardo e Massimo Palombella); più sotto le piccole del Coro di Voci Bianche di Milano (emanazione de laVerdi, dirette da Maria Teresa Tramontin); sopra, ad avvolgere i… minorenni, i due cori misti associatisi per l’occasione: quello di casa e quello AsLiCo  (Massimo Fiocchi Malaspina).

I solisti di canto erano davanti all’orchestra, ai lati del podio: soprani Flurina Stucki, Eleanor Lyons e Elisabeth Breuer; mezzosoprani Bettina Ranch (già protagonista della Auferstehung) e Annely Peebo; tenore Tuomas Katajala (ha cantato nell’inaugurazione alla Scala Das Lied von der Erde); Jochen Kupfer, baritono e Samuel Youn, basso.

Sul podio Claus Peter Flor, che ha già inciso con l’Orchestra di cui è Direttore Emerito le sinfonie dispari di Mahler, ed ora ha fatto il battesimo della più complicata (almeno materialmente) sinfonia pari!

Che dire? È una musica che allo stesso tempo ti stordisce e ti emoziona. Dall’inno medievale di Hrabanus (da infarto l’Ac---cende Lumen) al finale metafisico di Goethe (dove si sale dalla solitudine di valli rocciose su su verso l’ineffabile ed eterno Weibliche) è un viaggio davvero unico in tutta la storia della musica! Oratorio? Cantata? Messa? Forse un insieme di tutto ciò, che molti hanno giudicato e giudicano velleitario, tacciando il suo Autore di megalomania ma che, ascoltato dal vivo come capita (e tutto sommato è forse un bene) così di rado, non può non prenderti per la gola.

Ieri, in un ambiente che, quanto ad acustica, non è certo dei migliori, la prestazione complessiva è stata più che soddisfacente e mi sento di assegnarle un voto più che positivo. 

Claus Peter Flor ha come minimo il merito di aver saputo tenere insieme con grande autorevolezza quello sterminato esercito che si trovava a dover guidare (piccole imperfezioni o sbavature in questi casi sono all’ordine del giorno); i solisti, specie in Goethe dove devono emergere al di sopra dell’oceano dei cori, si sono onorevolmente portati; e i tre cori, appunto, che hanno un ruolo immane in quest’opera, lo hanno interpretato con grande efficacia, negli stentorei passaggi dell’Inno, come negli oscuri sussurri degli anacoreti, nel misterioso e straordinario attacco dell’Alles Vergängliche, e nella finale esplosione dello zieht uns hinan!        

Un’ultima osservazione: nel giro di soli sei mesi l’Ottava è risuonata per ben quattro volte nel cuore di Milano: tre esecuzioni a maggio, con Chailly, nel tempio della musica; e questa nel tempio della religione. Un vero record, per una città che evidentemente non sa offrire solo shopping

07 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#10

L’Orchestra ospite per questa puntata del Festival era la Haydn di Bolzano&Trento, guidata dal suo Direttore Principale, Ottavio Dantone.

Ecco quindi, proseguendo il mahleriano pellegrinaggio in rigorosa sequenza, la Settima. Sicuramente la Sinfonia meno eseguita (e quindi meno conosciuta e amata dal pubblico) forse per colpa del sistema mediatico di divulgazione, che deve sempre trovare qualunque stereotipo – extramusicale, si badi bene! - atto a colpire l’immaginazione dell'ascoltatore.

Così, ad esempio: Mahler, il titano che trionfa nella Prima e poi viene sepolto e risorge nella Seconda, quindi viene bastonato (anzi… martellato) nella Sesta; o il Mahler sdolcinato e fischiettabile della Quarta; oppure quello ipertrofico e sesquipedale della Terza e dell’Ottava; o quello supposto decadente (Adagietto della Quinta) che viene impropriamente strumentalizzato da Visconti; o quello disperato che sente il suo cuore perder colpi e tirare gli ultimi (Lied von der Erde e Nona…)   

Insomma, per la Settima il marketing non trova un posto adeguato in tale agiografia, e così l’opera finisce direttamente – quanto immeritatamente - nel dimenticatoio… (E allora mi permetterò di proporne una mia velleitaria analisi, con citazione illustre...)      

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Devo dire che l’esecuzione della Haydn mi ha convinto a metà: Dantone (che ha diretto a mani nude, come Angius la Sesta) ha mostrato di padroneggiare assai bene questa sbifida partitura (in fondo è un Mahler che si picca di rivaleggiare con… Bach, che il Direttore conosce come le sue tasche). L’orchestra invece ha avuto qualche défaillance, in specie negli ottoni: anche il Tenor-Horn ha sbucciato proprio l’entrata… un vero peccato, poiché in seguito si è riscattato alla grande. E poi l’amalgama tra le sezioni non sempre mi è parso ottimale. 

Ma, come accaduto per le altre Orchestre ospiti, anche la Haydn è stata accolta dal folto pubblico dell’Auditorium con vivaci manifestazioni di consenso. Il che, per Orchestra e Direttore, rappresenta comunque un buon viatico per le due riprese… a casa loro, di giovedi e venerdi.

05 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#9

Siamo ormai alla seconda metà del ciclo delle sinfonie, e per la Sesta in Auditorium è arrivata un’altra Orchestra ospite, quella dell’Arena di Verona, guidata da Marco Angius.

Sulle (tante) banalità cresciute attorno a questa Sinfonia - alimentate anche dallo stesso compositore ma soprattutto dalla moglie (forse per farsi perdonare i… tradimenti) - mi sono dilungato assai molti anni fa e quindi non faccio che rimandare a quel lungo e articolato commento, in appendice al quale ho allegato quello, assai più autorevole, di Ugo Duse.

Un tormentone interminabile è nato intorno alla collocazione dei due movimenti centrali della Sinfonia: lo Scherzo e l’Andante (e in più anche sul numero – 2 o 3 – di martellate nel Finale).  Basti dire che Gastón Fournier-Facio, curatore del recente Tutto Mahler, dedica non meno di 14 pagine a censire le principali esecuzioni (a partire proprio dalla prima di Essen, diretta dall’Autore, nel 1906) della Sinfonia, e poi tutte le edizioni ed anche i razionali che portano le diverse scuole di pensiero a privilegiare una o l’altra delle due possibili sequenze.

Anch’io, nel mio piccolo, ho qualcosa da proporre, e riporto un estratto di un mio vecchio commento al proposito, basato su tre possibili prospettive di ascolto:

1. Se si guarda all’equilibrio dell’opera in termini di durate temporali, sembrerebbe pacifico mettere lo scherzo in seconda posizione (come per la Nona beethoveniana, per dire…): abbiamo in questo caso i movimenti 1+2 (animati) che occupano 35 minuti e poi l’andante di 15 minuti che serve a prender fiato prima dell’altra mezz’ora del finale burrascoso. In questa soluzione la Sesta si avvicina quasi alla Quinta (che ha tre movimenti mossi, poi il calmo Adagietto, che vagamente anticipa l’Andante della sesta, prima del finale allegro)

2. Se si guarda alla forma classica - che secondo taluni, Adorno in testa - sarebbe alla base della concezione artistica della Sesta, allora l’Andante dovrebbe venire prima dello Scherzo (in fondo anche Beethoven fece uno strappo alla regola soltanto con la sua Nona, appunto; per il resto restò fedele alla tradizione, collocando sempre il movimento più lento in seconda posizione, in modo poi da animare progressivamente l’atmosfera, con il Minuetto - poi Scherzo – in vista dell’Allegro finale).

3. Poi c’è la vista da poema sinfonico, autorizzata sia dai riferimenti extramusicali e autobiografici, che dalle arditezze di certe indicazioni dinamiche e dall’uso di strumenti che nulla hanno a che fare con la sinfonia classica (celesta, campanacci da mucca, martello e altre percussioni). Secondo tale approccio verrebbe ancora da preferire lo scherzo in posizione avanzata, in quanto avremmo: il ritratto di Alma, poi le piccole Putzi e Gucki che giocano in riva al lago, quindi un accorato sguardo all’indietro verso i bei giorni passati, e infine le tre mazzate del destino che abbattono definitivamente l’artista e l’uomo.  
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Marco Angius? Come ci sia arrivato lo saprà lui, ma ha deciso per la soluzione Scherzo-Andante. La cosa curiosa è che aveva sotto gli occhi una partitura (verosimilmente la seconda di Kahnt) che reca la sequenza Andante-Scherzo: prova ne sia che si è munito di segnalibri per fare gli spostamenti avanti-indietro durante l’esecuzione. (I colpi di martello erano solo due, ma questo è ormai universalmente accettato.)

La prestazione dei veronesi è stata non meno che eccellente (strepitoso il corno di Andrea Leasi, letteralmente acclamato alla fine). Angius, che dirige a mani nude, ha mostrato un’assoluta padronanza di quest’opera complessa tecnicamente ma soprattutto esteticamente, e ne è venuto a capo alla grande.

L’Orchestra veronese ha dimostrato che non sa distinguersi solo all’aperto in Verdi e Puccini, ma che non ha nulla da invidiare alle migliori orchestre internazionali anche in questo repertorio.

Auditorium (colmo anche oggi) letteralmente in visibilio, con ripetute chiamate e battimani ritmati, a suggellare un’altra memorabile giornata di questo Festival.

04 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#8

Lungo la strada delle Sinfonie mahleriane siamo arrivati alla Quinta. Che è stata affidata (alla quarta replica in 4 giorni!) alle mani premurose di Robert Treviño a capo della OSN-RAI. Nelle cui file milita da qualche tempo la tromba di Alex Caruana, storica prima parte de laVerdi. (Giovedi scorso si era rivisto anche Max Crepaldi, primo flauto passato da pochi anni alla Scala. Dove alberga anche Eriko Tsuchihashi, che per anni fu la vice-Santaniello. Segno che la fucina di Largo Mahler sforna ottimi prodotti!)

Rispettando l’impaginazione del concerto dell’OSN, l’apertura è affidata a Charles Ives e alla sua breve The unanswered Question, che con Mahler ha qualche affinità… cronologica (è del 1908). Qui Ives intende presentarci – e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi:

1. l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori scena) che suonano lentamente (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) con valore di note che normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in poche occasioni scende alla semiminima;

2. la perenne domanda sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la tromba (isolata) ripete per sette volte; e

3. la ricerca della risposta (la caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.

Quale significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili interpretazioni (una di queste è del Direttore Treviño, intervistato prima dell’esecuzione torinese) ma, trattandosi di musica, a qualcuno questo breve brano apparve come una visione profetica di ciò che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi a quel 1908, e quindi contenere un messaggio profetico abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle risposte che la musica del futuro avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza. Nel 1973 il grande Lenny Bernstein apriva così il suo ciclo di lectures ad Harvard, intitolato precisamente al brano di Ives, e lo concludeva esponendo il suo credo nella tonalità e nelle serie armoniche!

Anche qui è stata proposta la stessa scenografia torinese: buio completo (salvo le lucine sui leggii), tromba solista (Roberto Rossi) fuori dalla sala e i flauti in balconata. L’effetto scenografico è sicuramente suggestivo, quello musicale (al netto della qualità degli esecutori) francamente discutibile. 
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La Quinta mahleriana è normalmente etichettata come la prima di un ciclo di tre (insieme a Sesta e Settima) perchè segnerebbe il punto di dipartita di Mahler dal fanciullesco-folklorico mondo del Wunderhorn al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder (con e/o senza voce) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei suoi primi anni da compositore.

La Quinta segnerebbe quindi l’aprirsi di una nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla forma (ad esempio l’impiego del contrappunto e quello del Rondò). E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi. Anche il prezioso libro Tutto Mahler, curato da Gastón Fournier-Facio in occasione del Festival, indirettamente avalla questa tesi, separando il Capitolo dedicato alla Quarta da quello che tratta della Quinta con un Intermezzo sui Lieder di Rückert.

Peccato che si tratti di una tesi ampiamente contraddetta (non certo da me, ma da personalità quali Ugo Duse, autore della prima e ancor oggi fondamentale monografia italiana su Mahler; e da H.L. de La Grange, che su Mahler ha scritto qualcosa come 3600 pagine!!!) proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi per iscritto già ai tempi della composizione di quei precedenti lavori, addirittura dai tempi della Terza (!) come documenta un abbozzo della struttura della Quarta Sinfonia che Mahler chiamò Humoreske, sei movimenti, di cui solo il primo, il terzo e l’ultimo restarono poi nella Quarta; degli altri: Das irdische Leben fu espunto, Morgenglocken divenne il 5° movimento della Terza; e Die Welt ohne Schwere diverrà lo Scherzo della Quinta!

Dove poi troviamo quelle iniziali terzine di trombetta che già avevano fatto una fugace comparsa nel primo movimento della Quarta, alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è una riedizione della Totenfeier dalla quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Come detto, lo Scherzo in RE maggiore fu pensato in origine come 5° movimento della Quarta sinfonia…

Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che la marcia funebre del primo movimento richiama quelle dei tamburini del Wunderhorn (di Revelge poi è una chiara citazione nel finale, al numero 29 negli strumentini). Inoltre, il quinto ed ultimo movimento riprende esplicitamente Lob des hohen Verstandes (l’acuta intelligenza di un... asino!) sempre dal Wunderhorn. 

E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta, poi (surrettiziamente) con l’Ottava, e infine con la Nona, mantenendo invece per Settima e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale nel secondo movimento, l’interminabile tiritera del corno obbligato nello Scherzo (parente di quella della cornetta da postiglione della Terza) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...    

È ben vero che Mahler stesso parlò più volte, a proposito di quest’opera, di un suo nuovo stile, che peraltro non si manifestò mai compiutamente, se già prima della pubblicazione Mahler mise drasticamente mano all’orchestrazione (percussioni, in particolare) sull’onda delle pesanti critiche di Alma! E se ancora dopo il Lied von der Erde e la Nona Mahler si vide costretto ad altri ritocchi.

Insomma, suddividere la produzione di Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo (evoluzione vs rivoluzione) quasi che i Lieder, le dieci Sinfonie (più il Lied von der Erde) costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento sinfonico. 

Chiudo riproponendo alcune citazioni e aneddoti riguardanti questa Sinfonia.

Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell’incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: “Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l’originalità né dell’uno né dell’altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest’altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L’idea di un’esecuzione a Torino è da scartarsi.” 

Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra

A proposito di Richard Strauss, ecco il suo giudizio, positivo, ma con qualche frecciatina. Scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: “La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un’immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po’ troppo lungo…

Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: “La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l’Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria.

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O.T. Se ascoltiamo l’intervista di Susanna Franchi a Treviño dobbiamo rilevare un clamoroso lapsus dell’intervistatrice, che nella sua traduzione dall’inglese mette in bocca al Maestro una grande stupidaggine: tutta la Sinfonia sarebbe in tonalità Maggiore (!?) Quando è chiaro che il malcapitato Treviño si sta riferendo solo all’ultimo movimento! (Ed è la RAI ancora non impoverita da Meloni&C…)

Ormai dal Maestro mexico-texano ci possiamo solo aspettare grandi cose, e questo pomeriggio siamo stati del tutto accontentati! Del resto già l’ascolto dell’esecuzione torinese aveva mostrato la qualità del Direttore e della sua lettura dell’opera, oltre a quella, scontata, dell’Orchestra. Oggi addirittura mi pare di aver sentito ulteriori miglioramenti, e non saprei proprio trovare nemmeno il classico pelo nell’uovo.

Alla fine pubblico (oceanico) in autentico delirio, con ovazioni speciali per il corno di Ettore Bongiovanni e la tromba di Roberto Rossi.