Lungo
la strada delle Sinfonie mahleriane siamo arrivati alla Quinta. Che è stata
affidata (alla quarta replica in 4 giorni!) alle mani premurose di Robert Treviño
a capo della OSN-RAI. Nelle cui file milita da qualche tempo la
tromba di Alex Caruana, storica prima parte de laVerdi. (Giovedi
scorso si era rivisto anche Max Crepaldi, primo flauto passato da pochi
anni alla Scala. Dove alberga
anche Eriko Tsuchihashi, che per anni fu la vice-Santaniello. Segno che la fucina di Largo Mahler
sforna ottimi prodotti!)
Rispettando
l’impaginazione del concerto dell’OSN, l’apertura è affidata a Charles Ives
e alla sua breve The unanswered Question, che con Mahler ha
qualche affinità… cronologica (è del 1908). Qui Ives intende presentarci –
e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di
scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi:
1.
l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine
indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori
scena) che suonano lentamente (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) con valore di note che
normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in
poche occasioni scende alla semiminima;
2.
la perenne domanda
sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la
tromba (isolata) ripete per sette volte; e
3.
la ricerca della risposta (la
caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o
strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più
scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.
Quale
significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili
interpretazioni (una di queste è del Direttore Treviño, intervistato prima
dell’esecuzione
torinese) ma, trattandosi di
musica, a qualcuno questo breve brano apparve come una visione profetica di ciò
che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi a quel 1908, e quindi
contenere un messaggio profetico abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle
risposte che la musica del futuro avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza. Nel
1973 il grande Lenny
Bernstein apriva così il suo ciclo di lectures
ad Harvard, intitolato precisamente al brano di Ives, e lo
concludeva esponendo il suo credo
nella tonalità
e nelle serie armoniche!
Anche qui è stata proposta la stessa
scenografia torinese: buio completo (salvo le lucine sui leggii), tromba
solista (Roberto Rossi) fuori dalla sala e i flauti in balconata. L’effetto
scenografico è sicuramente suggestivo, quello musicale (al netto della qualità
degli esecutori) francamente discutibile.
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La Quinta mahleriana è
normalmente etichettata come la prima di un ciclo di tre (insieme a Sesta
e Settima) perchè segnerebbe il punto di dipartita di Mahler dal
fanciullesco-folklorico mondo del Wunderhorn al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder (con e/o
senza voce) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler
aveva dedicato grande attenzione nei suoi primi anni da compositore.
La Quinta
segnerebbe quindi l’aprirsi di una nuova era nel mondo estetico mahleriano,
come dimostrerebbero i riferimenti in essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla forma (ad esempio
l’impiego del contrappunto e quello del Rondò). E le due successive
sinfonie confermerebbero questa tesi. Anche il prezioso libro Tutto
Mahler, curato da Gastón Fournier-Facio in
occasione del Festival, indirettamente avalla questa tesi, separando il
Capitolo dedicato alla Quarta da quello che tratta della Quinta con un
Intermezzo sui Lieder di Rückert.
Peccato che
si tratti di una tesi ampiamente contraddetta (non certo da me, ma da
personalità quali Ugo Duse, autore della prima e ancor oggi fondamentale
monografia italiana su Mahler; e da H.L. de La Grange, che su Mahler ha
scritto qualcosa come 3600 pagine!!!) proprio dai contenuti di questa Quinta,
che accoglie spunti da Mahler messi per iscritto già ai tempi della
composizione di quei precedenti lavori, addirittura dai tempi della Terza (!)
come documenta un abbozzo della struttura della Quarta Sinfonia che Mahler chiamò
Humoreske, sei movimenti, di cui solo il primo, il terzo e l’ultimo
restarono poi nella Quarta; degli altri: Das irdische Leben fu espunto, Morgenglocken
divenne il 5° movimento della Terza; e Die Welt ohne Schwere diverrà lo
Scherzo della Quinta!
Dove poi
troviamo quelle iniziali terzine di trombetta che già avevano fatto una fugace
comparsa nel primo movimento della Quarta, alla quale quindi rimandano
scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è una riedizione della Totenfeier
dalla quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Come detto, lo Scherzo in RE
maggiore fu pensato in origine come 5° movimento della Quarta sinfonia…
Quanto ai
Lieder, è vero che vi si trovano richiami e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin der Welt abhanden gekommen) ma è
anche vero che la marcia funebre del primo movimento richiama quelle dei
tamburini del Wunderhorn (di Revelge poi è una chiara citazione nel
finale, al numero 29 negli strumentini). Inoltre, il quinto ed ultimo movimento
riprende esplicitamente Lob des hohen
Verstandes (l’acuta intelligenza di un... asino!) sempre dal Wunderhorn.
E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale
della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della
tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta, poi (surrettiziamente) con l’Ottava, e infine con la Nona, mantenendo invece per Settima e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione
tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale nel secondo movimento,
l’interminabile tiritera del corno obbligato nello Scherzo (parente di quella
della cornetta da postiglione della Terza) non si discosta certo da quella
delle sinfonie precedenti...
È ben vero che Mahler stesso parlò più
volte, a proposito di quest’opera, di un suo nuovo stile, che peraltro
non si manifestò mai compiutamente, se già prima della pubblicazione Mahler
mise drasticamente mano all’orchestrazione (percussioni, in particolare)
sull’onda delle pesanti critiche di Alma! E se ancora dopo il Lied von der Erde
e la Nona Mahler si vide costretto ad altri ritocchi.
Insomma, suddividere la produzione di
Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per
l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate
esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non
è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo (evoluzione
vs rivoluzione) quasi che i Lieder, le dieci Sinfonie (più il Lied von der Erde) costituiscano un
unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento sinfonico.
Chiudo riproponendo alcune citazioni e
aneddoti riguardanti questa Sinfonia.
Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini
(fine 1904, quindi molto prima dell’incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a
proposito della Quinta, al
cognato-violinista Enrico Polo, che
gli aveva spedito una copia della partitura: “Non puoi immaginare con quanta gioia e
curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi
divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in
triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista
serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di
Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e
strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui
si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l’originalità né dell’uno né
dell’altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale.
Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e
Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di
marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una
sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest’altro
passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L’idea di
un’esecuzione a Torino è da scartarsi.”
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