Ieri la Scala – con doveroso omaggio all’indimenticabile Maria Tipo, che ci ha lasciato - ha ospitato la prima delle tre esecuzioni della Decima di Mahler (versione completata da Deryck Cooke) diretta da Daniele Gatti. Si tratta di una primizia per il Teatro, dove fino a ieri si era data solo la versione (di Erwin Ratz) dell’iniziale Adagio.
Qui le condivisibili ragioni addotte dal Maestro per questa scelta. Che oggi non è (più) obbligata, ma aperta ad un ventaglio di alternative, fra cui: Barshai, Gamzou, Chaslin, Mazzetti, Samale-Mazzuca, Carvalho (per ensemble), Castelletti (per orchestra da camera), Kakamu, e… le porte sono ormai aperte a tutti!
Ecco qui una mia personale nota critica su questa piuttosto ingarbugliata faccenda.
Molti commentatori catalogano questa sinfonia come ultima componente di una cosiddetta trilogia della morte, che includerebbe anche Das Lied von der Erde e la Nona Sinfonia. Ora, è inoppugnabile che Mahler sia effettivamente passato a miglior vita a meno di un anno di distanza dal concepimento di questo lavoro; come è vero che il compositore boemo avesse qualche buon motivo di sconforto procuratogli da ben quattro disgrazie: il licenziamento dalla direzione dell’Opera di Vienna, la morte della primogenita Putzi, la diagnosi di una disfunzione cardiaca (peraltro non mortale in sé) piombategli addosso nel 1907 (estate a Maiernigg); e la scoperta della tresca di Alma con Gropius, fatta per caso (o subdolamente provocata dall’architetto?) nell’estate del 1910 a Toblach.
Ma se osserviamo le partiture delle tre opere scopriamo che la morte… si vede ma non c’è, perché non si sente. A dispetto delle deliranti espressioni scarabocchiate sui fogli della Decima, è la musica, come quella delle due precedenti composizioni, a smentire la leggenda, poiché trattasi di musica che, alla fine, mai evoca la morte, ma sempre l’eternità, della quale la morte rappresenta caso mai la porta d’ingresso. Ce lo testimoniano in modo inoppugnabile proprio gli epiloghi delle tre opere, sempre ed ostinatamente orientati in maggiore (DO, REb e FA#) alla serena accettazione della fine della vita materiale nella prospettiva, appunto, dell’eterno.
E Gatti mi sembra aver colto questo profondo significato dell’opera, che pare proprio percorrere un arco che muove dall’innocenza al dramma, alle visioni infernali, ma per chiudersi infine in serena rassegnazione.
Orchestra sempre al meglio in ogni sua sezione e gran trionfo per tutti.
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