parentopoli al potere

Melonia Trump

20 febbraio, 2025

Onegin visto da Martone alla Scala.

Dopo quasi 16 anni (luglio 2009, produzione targata Bolshoi, della coppia Cherniakov-Vedernikov) tornano alla Scala le scene liriche di Ciajkovski. Affidate ora alla messinscena di Mario Martone e alla guida musicale di Timur Zangiev (un giovane alano sufficientemente non-putiniano da poter prendere, nel marzo del 2022, il posto del bandito Gergiev per la Dama di Picche).

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Una curiosità che lega l’Opera con la biografia dell’Autore consiste nella palese analogia fra la relazione Tatjana-Onegin e quella fra Ciajkovski e Antonina Ivanovna Miljukova, sua ex-allieva al Conservatorio di Mosca e poi (ma solo per l’anagrafe…) sua moglie.

Entrambe le giovani donne si innamorano perdutamente (e impulsivamente?) di un uomo maturo; entrambe prendono l’iniziativa (inconsueta nel 1820 come nel 1877) di dichiarare apertamente, per lettera, il loro amore all’uomo. 

Prima domanda: c’è un qualche nesso causa-effetto fra la composizione dell’Onegin e la relazione del compositore con la ex-allieva? La prima lettera di Antonina precede o segue la composizione (che iniziò proprio con la scena della lettera di Tatjana?)

E poi: Ciajkovski aveva verso l’altro sesso una totale preclusione (sia pure di natura antipodica rispetto a quella di Onegin: attitudine congenita, la sua, vs rifiuto da sazietà, quella del personaggio dell’opera) e in un primo momento tenne verso le avances di Antonina lo stesso comportamento di Onegin verso Tatjana: un fermo, sia pur cortese, rifiuto. Ma poi cambiò quasi subito atteggiamento nei confronti della giovane, decidendo di accontentarne i desideri di matrimonio.

Senza però modificare in nulla le sue attitudini, e promettendole quindi un amore non più che fraterno (o paterno). Per quale motivo? Per provare a sfruttare quell’occasione per tacitare le dicerie su di lui e – almeno nella forma - rientrare nella normalità? O per evitare, chissà, di doversi pentire in futuro (proprio come Onegin) di un rifiuto senza appello?

Sta di fatto che questa vicenda umana assunse aspetti di miserevole prosaicità, arrivando persino a minacciare la salute, e come minimo la creatività del compositore (che venne salvato dalla provvidenziale presenza della vonMeck) oltre che a rovinare l’esistenza della donna.

E a queste differenze fra arte(-finzione) e realtà prova a rispondere persino l’oracolo-IA.

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Torniamo ora all’opera… Partendo dall’interpretazione del soggetto datane dal regista. Cha sceglie un approccio abbastanza minimalista per le scene (di Margherita Palli) e l’ambientazione dei tre atti: nel primo, mettendo al centro la natura, la sterminata steppa russa, rappresentata da campi di grano da poco mietuto e da una semplice casupola ingombra di cataste di libri (la camera di Tatjana…); nel secondo (l’onomastico della deuteragonista) una specie di arena con tribunetta, spazio-barbecue e altre cataste di libri, qui come infilati su grossi spiedi, che alla fine infausta della festa verranno inghiottiti dalle fiamme; nel terzo un velo rosso a chiudere la scena, poi solo lampadari e poi… praticamente nulla, ad evocare evidentemente il totale vuoto esistenziale che si crea attorno ai due protagonisti del dramma.

Costumi (di Ursula Patzak) della moderna attualità, peraltro senza esagerare in orpelli ridicoli (per dire… le cuffie che indossa Tatjana all’inizio del primo atto sono quelle insonorizzanti - niente smartphone! - che le servono a isolarsi dalla cagnara circostante per leggere il suo libro in pace).     

Le luci di Pasquale Mari seguono il precipitare degli eventi: dal solare chiarore estivo dello sbocciare dell’amore, al cupo inverno della tragedia, alle silhouette del ballo finale per finire al buio totale dello scioglimento del dramma. Daniela Schiavone cura le coreografie, tendenzialmente caotiche, presenti nelle scene di varia umanità dei primi due atti e (solo per la scozzese) del terzo. Di Alessandro Papa sono le proiezioni video, limitate allo sfondo ambientale.

Qualche trovata sopra le righe non manca (per giustificare la… parcella del regista): l’arrivo, per la festa di Tatjana, di un plotone di soldati; il duello trasformato in roulette russa, con presenza interessata di allibratori e scommettitori; la decisione di far suonare la polonaise a sipario chiuso (per riempire il secondo intervallo e coprire il cambio-scena?)     

Tutto sommato efficace la recitazione dei singoli, qualche caduta di stile, come anticipato, in quella delle masse corali.

Tirando le somme: una messinscena forse animata dal desiderio di dire qualcosa di nuovo senza però stravolgere il soggetto dell’opera; insomma: non deludere troppo i passatisti (che vorrebbero vedere il gran ballo a palazzo Gremin) e, sull’altro fronte, gli amanti della de-strutturazione e della ri-ambientazione del soggetto (che so, conoscendo Martone, inventando Onegin e Lensky come due picciotti che finiscono per contendersi a colpi di lupara la zoccola di passaggio…)

Come è finita? Un autentico disastro! Materializzatosi in un uragano di buh – già uditi al termine della polonaise (per l’astinenza da ballo?) - sceso dal secondo loggione a coprire l’ingresso sul palco del team del regista! Per la cronaca, accompagnato da un sottofondo di applausi della maggior parte del pubblico.

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Buone, ma non strabilianti, notizie dal fronte musicale, a partire dal Direttore, che evidentemente ha questa musica nel DNA, ed ha guidato l’Orchestra scaligera in gran forma ad una prestazione apprezzabile che, a mio avviso almeno, ha adeguatamente servito lo spirito – appunto – lirico della partitura.

A partire dalla delicatezza dei temi di carattere intimo e romantico; e poi alle pene d’amore di Tatjana, agli slanci vibranti di Lensky, o ai patetici ricordi di Larina e Filippevna, al cinismo di Onegin, alla sfrontatezza e ingenuità di Olga, alle leziosità di Triquet e al senile appagamento di Gremin. Qualche eccesso di decibel ha creato un paio (non più) di problemi alle voci, ma si può perdonare, in una prima.

Trascinanti anche le esecuzioni dei famosi brani a piena orchestra, il walzer e la mazurka del second’atto e la polonaise e la scozzese del terzo. [A proposito, qui la polonaise è mutilata – ma è cosa assai frequente e prevista comunque come opzione in partitura – delle 8 battute nella prima esposizione della sezione principale].

Sempre all’altezza il Coro di Alberto Malazzi, che qui ha un ruolo di primo piano, pur in assenza di scene da grand-opéra.

Alexey Markov è un Onegin scenicamente a posto, mentre la voce (per i miei gusti) manca un po’ di brillantezza e di varietà di accenti. Meglio di lui la sua bistrattata Tatjana, Aida Garifullina, che ha sfoggiato bella voce da soprano lirico (mai troppo impegnata da Ciajkovski negli acuti, salvo proprio il SI finale) e ha retto da par suo la massacrante e interminabile aria della lettera.

Il mattatore della serata è stato il Lensky di Dmitry Korchak, da qualche tempo sbarcato alla Scala (da Pesaro) e divenutone ormai un beniamino. Le sue due arie (in particolare quella famosa che precede il duello) sono state lungamente applaudite.

Bene Dmitry Ulyanov, un Gremin nobile ed accorato nella sua patetica esternazione sull’amore che non ha limiti… stagionali e simpatico il Triquet di Yaroslav Abaimov, il cui siparietto anima la festa per Tatjana.

Elmina Hasan (Olga), Alisa Kolosova (Larina, che pare all’aspetto la sorella minore delle sue figlie!), Julia Gertseva (una premurosa Filippevna) hanno dignitosamente fatto la loro parte. Come Huan Hong Li (Capitano) e Oleg Budaratskiy (Zeresky).

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Come detto, applausi per tutti (Korchak in testa, con Zangiev) e aperte contestazioni a Martone. Personalmente approvo pienamente i primi e trovo francamente esagerate le seconde… 

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