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01 gennaio, 2023

Concerti di Capodanno

Da milanese (sia pur adottivo) e quindi dotato di prospettiva assai limitata (!?) mi limito (?!) a censire (non re-censire, sia chiaro!) i tre concerti che mi son passati sotto gli occhi-orecchi (dal vivo o tramite corrieri assortiti). 

È una classifica nettamente determinata dai rispettivi Kapellmeister:

 1° assoluto (e di gran lunga): Guggeis con la Nona de laVerdi;

 Harding con la Fenice;

 3° Il figlio-di-papà Welser-Mòst dal Musikverein.

 Diciamo pure che un 2022 come questo non meritava di più, ecco. Il guaio è che il 2023 già parte male nella culla...

01 gennaio, 2021

Capodanni...

Ai tre concerti che ho seguito in streaming e in TV darò le seguenti pagelle:

1. Sontuoso alla Fenice: nel pieno rispetto delle elementari regole anti-virus (mascherine, distanziamento) pareva quasi un teatro affollato di pubblico, con platea e (in parte) palchi occupati da orchestra e coro; Harding caricato e animazione, ottimismo, applausi... una festa!

2. ottimo a laVerdi: palco esteso a parte della platea per rispetto delle regole (mascherine incluse); programma beethoveniano assai impegnativo ed egregiamente eseguito sotto la bacchetta del promettente, caricatissimo Guggeis. Riprese sempre concentrate sugli esecutori, mai sull’Auditorium purtroppo deserto.

3. deludente al Neujahrskonzert: nessun rispetto di regole anti-virus, niente mascherine, orchestra disposta (e compressa, alla faccia del distanziamento) come al solito, sull’angusto palco; platea desolatamente vuota spesso inquadrata con effetto deprimente. Muti piuttosto freddo e quasi a disagio. Insomma: un Capodanno... gelido, appena mitigato dai contributi esterni, dei balletti e degli spettatori registratisi per lo streaming, che hanno inviato applausi, foto e cartoline di auguri.

13 giugno, 2018

Alla Scala un Fierrabras così-così


Ieri sera è arrivata alla terza recita la semi-sconosciuta Fierrabras di Franz Schubert. Piermarini con ampi spazi vuoti e lungi dal manifestare entusiasmi durante la recita, salvo applausetti ai cambi scena e ovviamente alla fine.

La mia generale impressione è che l’opera si possa al meglio valorizzare con un’esecuzione in forma di concerto, stante il suo contenuto musicale, di assoluto valore ma di scarsa teatralità, che si accompagna per di più ad una totale insensatezza drammaturgica. E dico subito che la regìa di Peter Stein tutto sommato serve a limitare i danni, mostrandoci ciò che più o meno verosimilmente si vedeva sui palchi viennesi del primo ottocento: fondali e quinte di cartapesta dipinti, costumi ricchi, sfarzosi ed esageratamente didascalici (bianchi e neri a vestire le due fazioni in campo) e masse corali disciplinatamente marcianti o ben piantate di fronte al pubblico. Un approccio da storia romanzata (di fatto inventata) come si potrebbe raccontare ai bambini: prendere un soggetto come questo sul serio, magari con facili attualizzazioni, credo determinerebbe il totale collasso dello spettacolo.

Una delle conseguenze della scelta di rappresentazione scenica è che - per cercare di garantire un minimo di coerenza, non dico di plausibilità, al guazzabuglio della trama - si ricorre doverosamente all’impiego di numerosi parlati (tipici del Singspiel) col che però si introducono - per lo spettatore non germanofono - elementi di disagio e di disturbo, non esclusa la necessità (complici le corporative esigenze sindacali) di fare un secondo intervallo.

Insomma, torno a ripetere: di Fierrabras si deve godere al meglio la musica, che è la musica di Schubert, non di Beethoven, non di Rossini, non del futuro Wagner. Musica irrimediabilmente non teatrale, come dimostra il fallimento di tutte le opere del nostro (e l’oblio in cui sono inevitabilmente cadute, trascinandovi anche parecchi tesori musicali). Il problema del teatro di Schubert non sono soltanto i libretti strampalati (quanti capolavori immortali hanno alla base testi ridicoli!) ma anche e precisamente il dna della sua musica, che paradossalmente diventa teatrale non nelle opere, ma nelle sonate, come spiegò inoppugnabilmente Piero Rattalino in questo saggio comparso nel 1989 su Musica&Dossier.

Daniel Harding ha diretto, secondo me, con diligenza più che con passione: bene i passaggi più intimistici e liederistici, mentre quelli marziali e corali (e sono tanti!) mi sono parsi meno curati e approfonditi. L’Orchestra ha risposto bene, e meglio ha fatto il Coro di Casoni, chiamato ad un vero superlavoro.

Degli interpreti mi hanno convinto pienamente il Roland di Werba e l’Eginhard di Sonn. Bene anche il Karl di Konieczny (quando canta, non quando parla...) e la Florinda della Röschmann (a parte i gravi poco udibili). La Fritsch è stata un’Emma discreta, salvo sbracare nei rari acuti, mentre Richter ha onorevolmente sostenuto la parte del protagonista, ma senza (personalmente) incantare, così come suo... padre Vasar (Boland). Oneste le prestazioni degli altri.

In conclusione: una proposta francamente discutibile, roba da festival (con tutto il rispetto per Salzburg da dove proviene).

15 gennaio, 2014

La cavalleria della rosa alla Scala

 

Daniel Harding torna alla Scala per dirigervi - invece del tradizionale dittico Cavalleria-Pagliacci come fece pochi anni orsono (per la verità fu un Pagliacci-Cavalleria…) – un miscuglio di balletto e teatro, assortito con chissà quale criterio, sia di struttura che di contenuti. (O forse più che di un criterio si è trattato di un semplice default pagliaccesco, quando si trattò per Lissner di annunciare la stagione?) 

 

In effetti i due movimenti di ballo e Cavalleria si accompagnano proprio come i classici cavoli a merenda. Per par-condicio bisognerebbe infliggere agli abbonati della stagione di balletto una serata, che so, con Coppelia introdotta da Erwartung (smile!)  

 

Sia come sia, ieri sera il teatro era desolatamente semivuoto, persino nei loggioni…   

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Le spectre de la rose (anno domini 1911, esordio a Montecarlo) ha in sottofondo un curioso intreccio di rimandi a catena, graficamente rappresentato nella figura seguente:



L’ispiratore del balletto della compagnia di Djaghilev (coreografo Fokin e star Nijinsky) fu lo scrittore Jean-Louis Vaudoyer, grande amante della danza, che pensò di festeggiare il 100° anniversario della nascita – 1911 - di Théophile Gautier (del quale era pure ammiratore) con la proposta di un soggetto ballettistico incentrato su una lirica del poeta: si trattava per l’appunto di Le spectre de la rose, poesia pubblicata all’interno della collana intitolata La Comédie de la Mort et poésies diverses, finita di comporre giovedi 25 gennaio 1838 all’una di pomeriggio (come scrisse il poeta in calce al testo, aggiungendovi anche Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volonta’…)

Quel testo, probabilmente noto a Hector Berlioz (amicissimo di Gautier) assai prima della pubblicazione, fu musicato, insieme ad altri cinque della stessa origine, dall’autore della Fantastique all’interno della collana di sei Lieder intitolata Nuits d’été e pubblicata nel 1841 per voce e pianoforte (e più avanti orchestrata). I sei titoli sono (tra parentesi gli originali di Gautier):    

1. Villanelle (La villanelle rhythmique)   
2. Le spectre de la rose
3. Sur les lagunes (La chanson du pêcheur)
4. Absence
5. Au cemetière (Lamento)
6. L’ile inconnue (Barcarolle)

Chi però si aspettasse che il legame con il balletto immaginato da Vaudoyer passi da qui resterebbe deluso, chè quel legame passa sì attraverso Berlioz, ma un altro Berlioz, quello che poco dopo le Nuits orchestrerà una composizione per pianoforte di Carl Maria von Weber, vecchia di 22 anni: si tratta del walzer Aufforderung zum Tanz, che il futuro autore del Freischütz aveva composto nel 1819 come Rondò brillante (in RE bemolle maggiore) e che Berlioz, incaricato di una rappresentazione della celebre opera romantica nel 1841 a Parigi e dovendo a tutti i costi (come da disciplinare tecnico del Teatro) infilarci un balletto, aveva all’uopo trascritto per orchestra, trasponendolo nella più facile tonalità di RE maggiore. Qui un’interpretazione del venerabile Kna, che peraltro sembrerebbe una parodia in tono leggero della marcia funebre di Titurel (stra-smile!)

Proviamo ora a chiederci se esista (e se sì, quale sia) un qualunque nesso fra la trama (per così dire) del poema di Gautier e la musica di Weber-Berlioz.

Dunque: Gautier fa parlare in prima persona una rosa (meglio, il suo spettro…) che si rivolge alla ragazza che la recava sul seno la sera prima, ad una festa da ballo. Una rosa, colta ancora imperlata di rugiada, che per tutta la serata ha avuto il privilegio, invidiato persino da sovrani, di avere come tomba il solco intermammario (! gorge …Berlioz userà più pudicamente il termine seno) di una bella donna. E il suo spettro – sembra una minaccia, o è una dolce promessa? – avverte che tornerà ogni notte a danzare per colei che fu causa della sua morte. Ma a cui non chiede in riparazione né messe, né de-profundis… perchè viene direttamente dal paradiso.

Weber? Beh, anche lui ci spiega qualcosa del suo Rondò brillante: in particolare commenta battuta per battuta l’Introduzione (Moderato):

1-5: il cavaliere invita la dama al ballo
5-9: la dama risponde evasivamente
9-13: il cavaliere rinnova più pressantemente l’invito
13-16: la dama accetta
17-19: il cavaliere inizia una conversazione
19-21: la dama interloquisce
21-23: il cavaliere parla con maggior calore
23-25: i due si intendono
25-27: il cavaliere le si rivolge riguardo al ballo
27-29: la dama risponde
29-31: i due prendono il loro posto
31-35: si mettono in attesa dell’inizio della danza.

Qui inizia la danza, il rondò vero e proprio: Allegro vivace A – B-B1-B2 – A – C-C1 – D(Vivace)-D1 – B(A tempo)-B3 – A – B-B1-B4 – A(Coda).

Al termine della danza (Moderato) il cavaliere ringrazia la dama, lei ricambia e infine i due ritornano ai rispettivi posti.

Beh, difficile davvero trovare un nesso puntuale fra la poesia di Gautier e il programma di Weber, se si esclude il generico riferimento ad una festa danzante.

Evidentemente Vaudoyer, con un procedimento mentale che gli esperti del ramo definirebbero di lateral thinking, deve essere partito da Gautier per risalire a Berlioz e da qui, dopo aver scartato il Lied delle Nuits come manifestamente inadatto ad una scena di balletto, deve essere approdato alla trascrizione berlioz-iana del ballo di Weber.

In ogni caso, a parte la quasi totale gratuità del nesso testo-musica, la coreografia di Fokin (o Michel Fokine, come da sua francesizzazione) è davvero intrigante: ecco qui una sua moderna realizzazione, del tutto fedele all’originale, incluso il finale… balzo nel vuoto (da 8’40”) con cui più di un secolo fa il grande Nijinsky aveva lasciato letteralmente di stucco gli spettatori monegaschi.   
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Appena-appena più lineare fu il percorso di gestazione de La rose malade, la cui ispirazione venne a Roland Petit all’inizio degli anni ‘70 (1973 per la precisione) dalla poesia The sick rose di William Blake.

Nelle due strofette si narra di una rosa che nottetempo è stata attaccata da un virus, un microscopico verme che con il suo oscuro e segreto amore la corrode irrimediabilmente, fino a distruggerne la vita. Dietro ci si può leggere l’allegoria del rapporto fra amore carnale e morte della purezza, o addirittura la condanna puritana (siamo a fine ‘700 in Gran Bretagna…) dell’amore sessuale tout-court, che porta con sé i rischi di gravi e mortali (ed ereditarie) malattie: la sifilide, nientemeno! (beh, se è per quello anche oggi c’è qualche simpaticone che minaccia AIDS persino da un bacetto innocente…)     

La musica si era già interessata a questo testo nel 1943, allorquando Benjamin Britten lo aveva impiegato per il terzo dei sei brani (incapsulati fra un Prologo ed un Epilogo strumentali) della sua Serenade per tenore, corno solista ed archi, precisamente col titolo di Elegy, un Andante appassionato in MI minore-maggiore.

Evidentemente Roland Petit, che non poteva certo ignorare Britten, deve aver rinunciato ad impiegarne la musica per diverse ragioni: la presenza del canto ed anche la brevità (appena poco più di 4 minuti) oltre che la problematica adattabilità a farci sopra un balletto. Così si indirizzò sull’Adagietto della Quinta mahleriana, che grazie a Visconti proprio allora spopolava con il suo rimandare al morboso soggetto erotico-epidemico (sì, vabbè, colera invece di sifilide…) di Thomas MannQui un’edizione del 1978 con la leggendaria Maya Plisetskaya.
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Gli spettatori, come detto, erano pochini, ma son bastati a rovinare i due finali dei balletti, con applausi abbondantemente anticipati: la chiusura dell’Aufforderung si è quasi totalmente persa, così come è… morto anzitempo il morendo mahleriano, che il povero Harding ha continuato pietosamente a dirigere fino in fondo.  

Saldato il debito col balletto e pagato il pedaggio (erano ambientati sullo svincolo di un’autostrada!) ai latitanti Pagliacci… eccoci a Cavalleria. Nell’ormai lontano gennaio 2011 lo spettacolo non (mi) era dispiaciuto, a dispetto di qualche genialata di troppo di Martone. Il quale per questa ripresa mi pare abbia cambiato poco o nulla, quindi mantenendo anche quei particolari che francamente mi avevano lasciato perplesso, come la sequenza delle tappe percorse da Alfio la mattina del giorno di Pasqua: uscita di casa di buon’ora, sosta al bordello e quindi toilette dal barbiere (!?)

Avrei definito encomiabile la direzione di Harding se non si fosse lasciato prendere la mano in un paio di momenti topici, girando al massimo la manopola del volume, col risultato di coprire le voci (colpa anche delle voci? sì, ma ciò non scagiona il Kapellmeister…)

Santuzza è Liudmyla Monastyrska: che ha sfoggiato il suo vocione enorme, già udito tempo fa, ma con migliori risultati, in Abigaille.

Jorge De León ha la parte di Turiddu e direi che non se la cava per nulla male. Però, accipicchia, perché lo stornello in siculo glielo fanno cantare in Largo Cairoli?

Valeria Tornatore impersona una Lola senza infamia e senza lode: la sua canzoncina almeno si sente: evidentemente, a differenza di Turiddu, era appena dietro le quinte a cantarla.

Vitaliy Bilyy è un Alfio così e così, mi è parso anche un filino stonato, in certi passaggi del suo cavallo scalpitante.

Unica supersite del cast del 2011, la Lucia di Elena Zilio: il pubblico l’ha gratificata forse più degli altri.

Bene il coro di Casoni, che ha dato il suo contributo ad una serata tutto sommato – fatte salve le riserve sul palinsesto – abbastanza godibile… diciamo come tante altre di tanti teatri di provincia.

21 gennaio, 2013

L’onesto Falstaff di Harding-Carsen alla Scala


Gradito ritorno di Falstaff alla Scala: una volta tanto (peccato che capiti, appunto, piuttosto di rado) uno spettacolo complessivamente di buon livello, accolto anche ieri (alla seconda) con favore dal pubblico (di un Piermarini peraltro non esaurito).   
Per non smentire una tradizione ormai consolidata, dopo quello ampiamente anticipato di Barbara Frittoli (che diserterà tutte le recite) ecco il forfait – annunciato in sala alle 19:55 – di Fabio Capitanucci, rimpiazzato da Massimo Cavalletti, originariamente scritturato per le sole recite del 2-6-8 febbraio. (Brutta cosa programmare le stagioni in pieno inverno, smile!)
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Falstaff è l’opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l’estremo sberleffo (la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell’intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l’intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Cantori e a Parsifal… In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo, che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale.

Ma tutto fatto in modo intelligente e… pertinente. Come nel caso della citazione dal Parsifal di quel Wagner che Verdi non aveva certo in simpatia, ma del quale aveva l’onestà intellettuale di riconoscere i meriti, e delle cui opere aveva una curiosità quasi morbosa, a dispetto delle critiche anche radicali cui le sottoponeva. Dunque, nel monologo di Falstaff all’inizio dell’Atto III, il protagonista, prefigurando la propria fine, pronuncia la famosa frase (certo una rodomontata, detta da un dongiovanni ormai pensionato e gabbato, invece che ambìto, dalle comari del luogo): Allor scomparirà la vera virilità dal mondo. Ebbene, Verdi come te la chiosa? Così:


Si tratta di una citazione quasi letterale dal second’atto del Parsifal: musica che colà dipinge la personalità di tale Klingsor, un (auto)castrato!

Daniel Harding ha fatto bene il suo compito, esagerando a mio avviso in qualche fracasso di troppo, che ha talvolta coperto le voci. Rispetto alla prima (ascoltata in radio) ho avuto l’impressione che sia migliorato nell’insieme, rimediando ad alcune eccessive (per me) lentezze. Con lui l’orchestra ha mostrato ancora una volta di avere un buon feeling, a partire dal pacchetto degli strumentini che abbiamo lodevolmente visto in buca già alle 19:30 per… scaldare i motori.

Ambrogio Maestri ha proprio il phisique-du-role del protagonista, non c’è che dire. Peccato che la voce non sempre riesca a passare come si deve, quando la partitura non prevede esibizioni stentoree, ma canto a mezza voce o sussurrato. Comunque una prestazione più che encomiabile.    

A Massimo Cavalletti (Ford) va riconosciuta l’attenuante della chiamata all’ultimo momento: alla quale lui ha risposto dignitosamente, peraltro forse più sul piano scenico che non su quello vocale, in specie nelle impervie altezze in cui Verdi impegna il secondo baritono. 

Carlo Bosi è un discreto Dottor Cajus, cui dà la sua voce squillante e penetrante, oltre che le sue qualità di attore.

A Francesco Demuro (Fenton) mi sento di dare la sufficienza, non molto di più: la voce è bella di timbro e certamente adatta al ruolo, ma poco udibile in basso e un tantino sforzata negli acuti.    

Riccardo Botta (Bardolfo) e Alessandro Guerzoni (Pistola) se la cavano più che bene, dando il loro valido contributo ai diversi concertati in cui sono coinvolti.

Vengo ora al gineceo:

Daniela Barcellona ha fra le quattro femmine la parte forse più impegnativa (Quickly) soprattutto nell’estensione verso il basso. A me è personalmente piaciuta in questo suo avvicinamento a Verdi (che dovrebbe culminare più avanti, a Torino, in Eboli!)  
        
Carmen Giannattasio, assurta fin dalla vigilia al rango di primo cast (vista la defezione cronica di Frittoli) è un’Alice che mostra qualche pecca negli acuti tendenti all’urlato, comunque compensata da timbro e sonorità gradevoli.  

Laura Polverelli (Meg) si sente pochino, coperta spesso dalle altre voci e qualche volta da… Harding (smile!) Non mi sentirei però di darle l’insufficienza.

Piacevole la Nannetta di Irina Lungu, e brava – al contrario dell’innamorato - proprio nella parte alta della tessitura impostale da Verdi.

Il coro di Casoni ha il suo impegno gravoso soprattutto nel finale, con quella strepitosa e difficile fuga che è chiamato a riempire di suono, supportando i solisti. Direi che ha assolto puntualmente il suo compito.

Per tutti, alla fine, applausi convinti, anche se non propriamente da stadio, ma mi pare giusto così.  
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Che dire dell’allestimento?

La premessa fondamentale da farsi è che la sua stessa natura - di commedia brillante con qualche retrogusto amarognolo – garantisce all’opera di Boito-Verdi la totale inossidabilità da ogni possibile sofisticazione. Per dire, mentre rivestire un Rolex con plastica colorata e imbrattargli il quadrante di schizzi di vernice farebbe (e fa) rivoltare, fare la stessa operazione con uno Swatch potrebbe addirittura aumentarne l’appeal!

Ecco perché la regìa di Robert Carsen questa volta non dà luogo a scandali, né a contestazioni particolari (e pure al Covent Garden lo scorso anno fu accolta senza… traumi). Certo non tutte le trovate del genio canadese sono impeccabili: quando si è costretti, per giustificare la propria parcella, a inventare sempre qualcosa di nuovo e di diverso (diverso anche e soprattutto dall’originale…) si rischia immancabilmente di andare oltre le righe.

Il regista presenta alcune sue considerazioni sull’opera nel programma di sala. Insieme a cognizioni che anticipano la scoperta dell’acqua calda (smile!) cerca anche di spiegare i razionali (!) che stanno alla base del suo allestimento. Fra tutti, una chicca, roba proprio da edizione critica. Scrive Carsen, testualmente: Il libretto di Falstaff, se si legge con attenzione, ha numerosi riferimenti alla passione tipicamente inglese della caccia. Vi si accenna anche a donne che vanno a caccia, a differenza di quanto avviene in altri paesi. Nel nostro spettacolo abbiamo posto l’accento anche su questo aspetto. Evidentemente il regista dev’essere in possesso di un libretto in versione originale, mentre noi – teatro e cantanti inclusi – ne abbiamo uno chiaramente adulterato e apocrifo, dove non c’è la minima traccia di caccia, cavalli, volpi, hounds e affini (salvo la caccia a Falstaff in casa Ford, smile!) Caccia che invece il regista usa a sostegno della sua ideona di mettere in scena un cavallo vero al quale Falstaff propina (direi senza molto successo) il suo amaro filosofeggiare.

Poi, l’ambientazione. Carsen la sposta in avanti di cinque secoli e mezzo rispetto alla vicenda narrata da Shakespeare (e ripresa da Boito) e di tre secoli e mezzo dall’epoca in cui il genio di Stratford  la mise su carta. Rispetto a quest’ultimo scenario, si passa solo da Elisabetta I (che pare avesse commissionato l’opera, anche a costo di far… resuscitare Falstaff) a Elisabetta II! Per la verità in periodi abbastanza diversi – non dico diametralmente opposti – della storia albionica: con la prima Elisabetta (più ancora con Enrico IV) l’Impero era proprio agli albori; con la seconda l’Impero era gli sgoccioli e soprattutto aveva appena visto la gloriosa e altera Pound sterling venir soppiantata da quel volgare Dollar dei cugini d’oltreoceano, eredi della feccia dei derelitti degli slum di Londra, deportati secoli prima nel Nuovo mondo a far da schiavi ai capitalisti di Sua Maestà… (Forse Carsen si è accorto di ciò, e quindi per rimediare ha travestito Ford da miliardario texano.) Peraltro, volendo a tutti i costi traslocare Falstaff in uno scenario a noi familiare, il posto più adatto – oggi - sarebbe Shanghai

Ma dato che in tutte le epoche e sotto tutti i cieli c’è sempre qualche nobilastro decaduto (Falstaff) e qualche intraprendente ed emergente sfruttatore di forza-lavoro (Ford: un nome, un programma, a proposito di dollari, smile!) ecco che anche l’ambientazione di Carsen, pur concettualmente strampalata, non fa poi eccessivi danni.

A cominciare dalla Garter Inn trasformata in un misto di hotel e club, dove nella seconda parte dell’Atto I si ritrovano le comari a colazione (servita da Fenton, che immagino ringrazierà eternamente il regista per averlo promosso da gentleman a headwaiter!) e dove (inizio dell’atto secondo) il nobile, pur decaduto, Falstaff, riceve nella sala da fumo (quindi per soli uomini) una donna, per di più una serva, la badante, diremmo oggi, del Docteur Cajus (in Shakespeare perlomeno) che risponde al nome di Quickly…

E che dire della dimora di Ford che – a giudicare dalla cucina - pare quella di un rappresentante della lower-class, altro che borghesia emergente… e dove il presunto e illuso amante arriva con i minuti contati per la sua sveltina e che ti fa? dimentica il sesso per mettersi a tavola a divorare un tacchino!

E infine: la presenza, in apertura di terz’atto, della comparsa equina (a proposito, la famosa traccia scoperta da Carsen sarà mica l’auto-definizione di Falstaff audace e destro cavaliere?) col ricordato riferimento alla caccia (incluso l’abbigliamento di Quickly) è cosa simpatica e cervellotica allo stesso tempo. Per dire, allora anche una torma di hooligans ubriachi – parte integrante dell’attuale panorama albionico - avrebbe potuto trovare legittima cittadinanza in questo allestimento.   

Sul fronte della recitazione, diamo a Carsen ciò che gli spetta, e facciamo anche i complimenti a tutto il cast, coro e… cavallo inclusi.

Alla fine mi sentirei di dire che la regìa esageri un filino, portando la gustosa commedia di Boito-Verdi ai confini dell’avanspettacolo. Ma in complesso: ci ha fatto comunque divertire, proprio come voleva Verdi. E ciò, per stavolta, basta e avanza per farcela digerire (smile!) 

07 febbraio, 2012

Salonen fa cippirimerlo alla Scala


Stando a quanto riporta il suo sito personale, Salonen ha diretto un concerto a Parigi il 27 gennaio, e riprenderà l'attività il 24 febbraio, a Essen. In pratica, salta i quattro concerti scaligeri: questo della stagione della Filarmonica e i tre del prossimo fine-settimana, della stagione del Teatro. La Scala ha annunciato la defezione per i tre concerti dell'11-12-13 il giorno 23 gennaio con e-mail inviata ai possessori di biglietto; la Filarmonica (per il concerto del 6) ha fatto altrettanto il 25 gennaio. Ma già dal 21 la notizia era di dominio pubblico. Dal che si deve dedurre che, mentre ancora stava tenendo concerti a Parigi e confermava quelli successivi in Germania, Salonen ha cancellato quelli milanesi di inizio febbraio. Nulla di tutto ciò compare sul sito del maestro, né vi si trovano notizie di malattie, indisposizioni o altre cause del default. La vicenda assomiglia vagamente a quella di cui fu protagonista Abbado un paio d'anni fa (lui almeno aveva esibito un certificato medico, smile!) e quindi, applicando il metodo induttivo di quella vecchia volpe di Andreotti… evidentemente c'è del marcio nei rapporti fra il maestro e il teatro. Il che fa perdere al pubblico italiano le prestazioni di un direttore (e compositore, datosi che c'era il suo concerto per violino nell'originario programma di ieri) di quelli che oggi vanno per la maggiore. Ora, Salonen sarà pure un ragazzino (53enne!) un po' viziato… ma possibile che tutti i contrattempi capitino proprio qui da noi?

Meno male che è stato recuperato in fretta e furia Daniel Harding per rattoppare il buco, peraltro con un programma modificato (niente Musorgski, niente… Salonen) con l'inserimento del Primo concerto di Brahms, eseguito al pianoforte da Lars Vogt, che avevamo ascoltato in Auditorium lo scorso settembre, in occasione del primo concerto della stagione de laVerdi (allora in un apprezzato Imperatore). Questo Brahms non è certamente di quelli che ti strappano le budella né ti eccitano qualche corda dell'io profondo… e Vogt si guarda bene dal metterci qualcosa di suo per smuovere le acque. Insomma: una prestazione dignitosa, la sua e quella dell'orchestra (acciaccature indesiderate del corno a parte, ma nella norma, smile!) che va valutata anche tenendo conto dello stato di relativa emergenza indotto dalla defezione finnica.

È per fortuna rimasto in programma Le sacre, già diretto qui da Harding tempo addietro (col balletto). Opera potremmo dire di repertorio per la Filarmonica, che vi si è esibita lodevolmente un paio d'anni fa anche con Daniele Gatti. Harding mi è parso frenare certe intemperanze della partitura, allentando un pochino i tempi e smussandone gli spigoli più aguzzi (per lo meno, questa è stata la mia percezione del suo approccio). Certo, è musica che non ti lascia mai indifferente… e se lo fa ormai da cent'anni, vuol dire che è materia tosta assai!

Un'ultima nota di ambiente: parrebbe proprio che fra Harding e i Filarmonici stia crescendo un feeling particolare, almeno a giudicare dai reciproci atteggiamenti e ammiccamenti prima e dopo la prestazione. Qualcuno avverta Barenboim…
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30 maggio, 2011

Harding e la MCO in una Scala semideserta



Ieri sera la Scala ospitava un concerto benefico della Mahler Chamber Orchestra, guidata dal suo Direttore Principale, Daniel Harding. Concerto a favore del Progetto Itaca. Certo, i prezzi erano politici (cioè alti, in questo caso, data la finalità) e anche Pappano con SantaCecilia ad aprile – in occasione analoga - non era stato accolto da un teatro esaurito, ma ieri sera si è davvero toccato il fondo: l'affluenza dei milanesi al Piermarini non deve aver superato quella registrata alle 22 per il ballottaggio Moratti-Pisapia! Cioè teatro letteralmente mezzo vuoto. Che differenza, per Harding e i bravissimi della MCO, rispetto all'accoglienza trionfale di pochi giorni fa alla Gewandhaus per il festival Mahler!

A parte la finalità benefica, l'occasione era davvero ghiotta per i musicomani, con un programma di alto livello e soprattutto con interpreti sopraffini. La MCO – una delle creature di Abbado - è una signora orchestra, ed è un piacere anche solo vederla suonare, perché si capisce che è gente che lo fa per passione e non solo per professione: alla fine del concerto vedere orchestrali che si abbracciano e che si complimentano a vicenda è cosa non proprio comune da queste parti.

Brahms e ancora Brahms nelle due parti della serata: dapprima il Concerto Op.77 che ci è stato magistralmente porto da Isabelle Faust. Harding lo attacca forse con eccessiva circospezione, ma poi si slancia da par suo nell'Allegro, dove la Faust fa cantare divinamente il suo Stradivari, eseguendo alla fine la cadenza di Busoni, caratterizzata dall'insolita presenza dei timpani. Splendido l'Adagio, dove la bravissima primo oboe Mizuho Yoshii ci delizia con l'esposizione del dolce tema in FA maggiore, prima che venga ripreso dalla Faust con grande nobiltà. Faust che poi si scatena nell'Allegro giocoso che chiude degnissimamente il concerto. Diverse chiamate per lei, ma nessun bis.

Chiude la Seconda sinfonia, la cosiddetta pastorale del burbero amburghese, scritta poco prima del concerto per violino e poco dopo l'impegnativa prima. Luminoso e leggero il suono che Harding trae dai suoi (disposti alla tedesca, con i bassi a sinistra) come ben si addice a quest'opera piena di serenità e pace. Fugacemente interrotte, prima della volata finale, da un Sempre più tranquillo in cui compare un motivo per quarte discendenti di cui si ricorderà Mahler al momento di comporre la sua prima:

Poi la cavalcata conclusiva, con i fiati (trombette in testa) in grande evidenza nelle quattro battute di crome staccate che fanno mozzare il fiato:

Lo scarso pubblico si fa in quattro per decretare un meritato e grandissimo trionfo ai ragazzi e ad Harding, che per farsi perdonare (smile!) il mancato ritornello dell'iniziale Allegro non troppo, ci regala come bis il finale della sinfonia.

Peggio per chi se n'è rimasto a casa…
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21 gennaio, 2011

Pagliacci e Cavalleria alla Scala



Andata scioperata la prima, le sue ormai tradizionali veci sono state prontamente assunte dalla seconda (trasmessa anche in TV, ma non in web, chè siamo ancora al paleolitico di questa tecnologia… quindi pazienza) dove si sono sprecati (massimamente, ma non solo, dopo Pagliacci) fischi, buh e contestazioni nei riguardi di molti protagonisti (Direttore e Regista compresi). Tutti letteralmente dileggiati dal barcaccione Stinchelli! Con il naturale contraltare di qualcuno che invece vi ha visto l'interpretazione del millennio (come la dantesca Carmen? mah…)

Quindi, matematicamente, dall'altrettanto scontato buona la seconda siamo shiftati al buona la terza! Appunto la rappresentazione di ieri sera, accolta da applausi e ovazioni, che avrebbero sommerso (ammesso ci fossero stati) anche i fischi più acuti e i buh più incarogniti. Avevano quindi ragione i (relativamente pochi) laudanti del 18? O, come spesso accade, la verità sta in qualche punto intermedio, magari non proprio equidistante dagli estremi? Dico subito che personalmente mi colloco senza esitazione nel campo dei apprezzatori (non certo degli idolatri) di questo dittico.

Che ormai le prime (di diritto o di fatto) della Scala abbiano qualcosa di sospetto (o magari solo di sfigato) dev'essere chiaro anche ai responsabili, se è vero come è vero che quasi all'ultimo momento decisero di invertire la tradizionale, e annunciata, sequenza delle opere: mai successo, a memoria d'uomo, che Pagliacci abbia preceduto Cavalleria (quando dati insieme, smile!) L'unica seria ragione di ciò non può non risiedere nei dubbi che già in partenza devono aver assillato i responsabili dello spettacolo, portandoli alla decisione di anteporre la parte più a rischio a quella prevedibilmente meno a rischio, stanti la levatura degli interpreti e la loro preparazione. Quindi, un approccio del tipo: prendiamoci gli ortaggi subito, fuori il dente, così poi magari chiudiamo in recupero; ed è quello che più o meno è successo il 18.

Ieri, guarda caso, con il pubblico normale (o popolo-bue, secondo taluni?) l'ordine tradizionale avrebbe potuto essere tranquillamente ristabilito, a giudicare dall'accoglienza riservata ai Pagliacci di Cura e Dyka. Nonostante il primo mi sia sembrato – se possibile – persino peggiorato rispetto all'ascolto radio del 18! Io, che son di bocca buona, ho però qualche riferimento, diciamo così, estremo: fra una cariatide che canta almeno discretamente e un Lawrence Olivier che urla e stonacchia, scelgo con decisione massima la cariatide (chè il teatro musicale - fosse pure Wagner - senza la musica, nulla è per me…) Peggio ancora quando chi urla e stonacchia non è nemmeno un Olivier, ma un… pagliaccio (smile!) Cura ha in effetti gigioneggiato come fosse all'avanspettacolo (a proposito di verismo) e pare aver riservato le (poche) risorse di benzina rimastegli ai LA della Giubba e ai SIb del Pagliaccio. Per il resto, una prestazione canora che richiederebbe moltissima… cura (smile!) Quanto alla Dyka, mi sentirei di darle una risicata sufficienza. In ogni caso, se è stato applaudito a scena aperta il Cura della Giubba, allora lo andava anche la Dyka, dopo la sua ballatella ornitologica! Voto più che discreto per Maestri e sufficiente, o sufficiente- per Albelo e Cassi. Sempre all'altezza il coro di Casoni.

Harding, essendo uno che viene da fuori, per di più dal profondo nord, ha il vantaggio di non farsi condizionare più di tanto dall'ambiente, e di fidarsi solo e ciecamente della partitura. Il che può magari procurargli l'appellativo non propriamente entusiasmante di battisolfa, rispetto a direttori che vedono - e applicano – anche segni e indicazioni agogiche scritti evidentemente con inchiostro simpatico, del tipo qui mettere calore mediterraneo oppure suonare con passionalità tutta nostra (smile!) Il simpatico Stinchelli trova addirittura che il giovine Harding dirige come un 97enne!

Cavalleria più che dignitosa, con un Licitra un filino falloso, ma diciamo alla Balotelli: non sarà sempre perfetto, però spesso e volentieri segna gol decisivi, e questo conta pur qualcosa! Una domanda: dov'era collocato a cantare la sua siciliana a sipario chiuso? La voce pareva arrivare dalla stazione MM di Cordusio! La D'Intino direi bene (data l'età, smile!) una Santa all'altezza, mai urlante, sempre composta e ben immedesimata nel difficile personaggio. Sgura più che sufficiente e discrete le altre due protagoniste, Piunti e nonnina-Zilio. Anche qui un Harding asciutto, che mi sembra aver rallentato – rispetto al 18 - la velocità dell'Intermezzo (dove avrà tenuto 48 di metronomo, invece dei 54 prescritti… sempre meglio di tale Serafin, un'autentico lumacone mediterraneo, meno di 36!) ma in generale una lettura più che apprezzabile, sotto ogni punto di vista, compreso il giusto equilibrio fra strumenti e voci (ricordo solo una copertura eccessiva di Sgura - da parte del possente coro di Casoni, peraltro, non dell'orchestra - nella chiusa dell'aria di sortita). Meritato il consenso riservatogli dal pubblico (adesso qualcuno aprirà magari una petizione per chiederne l'arruolamento in pianta stabile?)

La regìa dei due spettacoli era di Mario Martone (in combutta con Sergio Tramonti per le scene) che il 18, intervistato su Radio3 (e anche in un video sul sito del teatro) aveva sottolineato i tratti caratteristici, e assai diversi, dei due allestimenti.

Pagliacci è ambientato ai giorni nostri e ci mostra impietosamente quanto sia regredita la nostra civiltà (figlia della cultura cristiano-giudaica) rispetto al lontano 1870. Anche nella ridente Montalto di Calabria è arrivata la modernità, rappresentata dalla futuristica A3, di cui vediamo una caratteristica rampa cadente. Sotto (e sopra) la quale rampa si aggirano signorine che svolgono una professione in altri tempi (lo vedremo più tardi) esercitata all'interno di apposite strutture di business. Possiamo quindi esser certi che ci troviamo dopo il 20 settembre 1958… Le vetture (camioncini della compagnia e berlina di Silvio) ci orienterebbero verso la fine anni '70.

Intelligente l'impiego di saltimbanchi, che animano la scena nei lunghi momenti in cui essa è occupata solo dal coro. Quanto ai personaggi, detto dello scarso verismo del Canio, mi è parso eccessivamente sputtanato (dal regista) il povero Silvio, trasformato in tamarro metropolitano, che arriva in BMW520 (prima serie) nel posto che probabilmente visita ogni sera (per via delle signorine di cui sopra) ad incontrare Nedda. La quale ci lascia il dubbio sulla sua intima natura: una donna sposata con un uomo possessivo e nomade, e che legittimamente aspira alla libertà e ad una stabile sistemazione, e si innamora sinceramente di un bravo giovine… oppure una sgualdrinella potenziale (o reale) attirata dagli averi, non dall'essere, di Silvio? La carta sporcata da Leoncavallo escluderebbe del tutto, mi pare, la seconda alternativa. Martone no. Insomma, una lettura interessante, ma con le sue belle distorsioni, come capita spesso a registi che si sentono in obbligo di inventare qualcosa di nuovo.

Cavalleria è presentata invece con taglio tutto cerebrale, introspettivo e socio-filosofeggiante, che subito si manifesta: bordelli! Le scene sono state costruite tempo fa, quindi mancava la targa "Villa San Martino - Arcore" per rendere l'ambientazione un filino più aderente al tema. Ecco, intanto sappiamo di trovarci prima del 20 settembre 1958, ed è già qualcosa. Poi, mostrare un casino in piena attività nella mattinata di Pasqua è una genialata di cui tutti i siciliani saranno eternamente grati al regista! Ma poco dopo scopriamo la vera intenzione di Martone: scolpire da subito la personalità di Alfio. Un tipo che, appunto, a Pasqua si alza e va direttamente al bordello; e ha tanto poco rispetto per la donna (moglie o puttana, fa lo stesso) che dopo (non prima) dello sfogo fisiologico va dal barbiere a farsi bello! Servono a qualcosa o no, i registi, vivaddio?

Non disprezzabile invece l'idea della scena inizialmente vuota, riempita via via da sedie su cui il popolo prende posto, senza più andarsene. Facendo da costante testimone dei drammi esistenziali che si svolgono lì attorno. La Santa che arriva con la sua sedia sotto braccio e fatica a sistemarsi in mezzo alle altre sedie rende efficacemente l'idea dell'espulsione della donna peccatrice da una società bigotta e piena di pregiudizi. A differenza di Nedda, Lola è – perché così ce la musica Mascagni, sul testo dei suoi librettisti – una ragazza piuttosto leggera, per così dire, una civetta piuttosto vanesia; e così ben ce la propone la regìa di Martone. Detto dell'arbitrarietà dell'impersonificazione di Alfio, bene invece anche l'esposizione di Turiddu e mamma Lucia.

In definitiva, una serata più che piacevole, grazie soprattutto a questa musica, in cui si sentono atmosfere sonore, se non proprio spunti tematici, che appariranno in quegli anni nelle sinfonie di Mahler, che fu interprete entusiasta sia di Mascagni che di Leoncavallo (a dispetto degli scontri avuti con quest'ultimo) e dalla cui musica dal taglio popolare fu sicuramente ispirato.
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11 gennaio, 2011

In montagna con Harding e la Filarmonica della Scala


Come pre-riscaldamento prima di slanciarsi contro le asperità del dittico verista (la prima di domenica 16 sarà trasmessa, oltre che da Radio3, anche in video da RAI5 - chissà se pure in web…) Daniel Harding ha diretto Il primo concerto del 2011 dei Filarmonici scaligeri, con un programma che ha affiancato due autori assai lontani per concezione, approccio e ideali, pur avendo convissuto per 40 anni nello stesso secolo.

Ha aperto il concerto la Suite A dell'Ulisse di Luigi Dallapiccola. Solisti di canto Manuela Bisceglie e Lucio Gallo (ascoltato sabato 8 dal MET, nei panni di Jack Rance). Domandarsi perché un'opera come Ulisse abbia avuto – dal 1968 – rappresentazioni che si contano con le dita di una sola mano è cosa forse stucchevole… guarda caso l'altra sera i commentatori-radio della Fanciulla americana si domandavano perché l'opera più innovativa di Puccini (che oltretutto gli aveva dato la consacrazione di sommo musicista) fosse anche la meno eseguita e la meno amata dal grande pubblico! (perché non c'è quasi nulla da potersi fischiettare, o cantar sotto la doccia, era la spiegazione aleggiante colà…) Ergo, tirèm innanz.

Nella seconda parte del concerto Harding ha guidato i Trepper nell'ipertrofica Eine Alpensinfonie di Richard Strauss. La dotazione minima indicata da Strauss è un'orchestra-base di 107 professori, cui se ne dovrebbero aggiungere, per un passaggio nella scena della Vision, altri 10 (a raddoppiare alcuni strumentini); più – tanto per gradire – altri 16 ottoni posti in lontananza, nell'episodio Der Anstieg. Due arpe, possibilmente da raddoppiare, percussioni a josa, incluse macchina del vento e – per sole 3 battute di impiego, quale spreco! – macchina del tuono (in realtà un lamierone appeso ad un trespolo e percosso con mazza da tamburo). In tutto: almeno 133-135 elementi, roba da bengodi, non da Bondi... Forse ieri c'era qualche elemento in meno (gli ottoni fuori scena poi, chi poteva contarli? Di sicuro c'erano 5 corni, poi entrati in orchestra… )

Le difficoltà per gli strumentisti dei fiati sono così tremende, che Strauss medesimo si è preoccupato di aggiungere una nota in calce alla partitura, consigliando loro di usare l'aeroforo di Bernard Samuels (inventato proprio a ridosso della composizione, nel 1912) per avere adeguata dotazione d'aria alla bocca, con cui far fronte ai lunghi legati! Il marchingegno non ha avuto grande successo, a dir la verità, presentando più controindicazioni che vantaggi, come riconosciuto da qualche diretto interessato. Né risulta che alcuno abbia mai proposto di installare (dietro le quinte, o sotto il tavolato del palcoscenico) un impianto centralizzato di erogazione aria (simile a quelli impiegati in ospedale per l'ossigeno e l'azoto) con qualche decina di cannelli, sbucanti dal pavimento, a disposizione degli strumentisti bisognosi.

Che dire? Harding ha dato una lettura sobria di questo elefante, senza esagerare troppo con l'enfasi e l'affettazione e mostrando il meglio proprio nei passi più intimistici e raccolti di questa partitura. L'orchestra ha risposto bene, e particolarmente nella sezione che è solitamente definita come suo tallone d'Achille: gli ottoni, e i corni in particolare. Grandi ovazioni per tutti: un buon viatico per il Direttore, in vista dell'appuntamento con Mascagni-Leoncavallo.
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Nella sinfonia (un poema sinfonico, in realtà) si esplora un intero giorno, da notte a notte, dall'alzataccia per i preparativi dell'escursione al ritorno a casa, dopo una giornata faticosa, anche pericolosa, ma entusiasmante ed indimenticabile. I vari momenti dell'avventura musicale sono chiaramente indicati in partitura, precisamente con 22 sottotitoli, che ci guidano meticolosamente per tutto l'arco della giornata.

Quindi un'opera programmaticamente descrittiva, per quanto possa la musica descrivere cose, luoghi, animali, e atteggiamenti, movimenti e sensazioni umane. Se ad un ascoltatore, ignaro del soggetto, si fa udire il tema dell'ascesa, chiedendogli cosa ci vede, c'è una probabilità su qualche milione di miliardo che lui indovini trattarsi del passo spedito di un escursionista alle pendici delle Alpi (in ciò un Hanslick qualunque ha perfettamente ragione). Idem se gli si chiede cosa vede nel tema wagneriano della spada (se nessuno lo avverte che quel tema vuol rappresentare, appunto, una spada). Peraltro è indiscutibile che, una volta che noi sappiamo che quel tale tema vuol rappresentare il passo del camminatore (o la spada di Wotan, nel secondo caso) noi non possiamo far a meno di riconoscere che effettivamente quei temi sono assai calzanti agli oggetti o movimenti che intendono rappresentare. Il che significa che gli autori di quei temi hanno saputo idearli e metterli sul pentagramma con grande abilità e sopraffino genio musicale.

Tornando a Strauss, la musica che ci descrive quelle 22 stazioni è perfettamente attagliata a luoghi, circostanze, sensazioni, pericoli, visioni che un escursionista incontra sul suo cammino e prova al cospetto di ciò che incontra. Ovviamente, come musica potrebbe piacere (o dispiacere) anche se quei sottotitoli mancassero, oppure se ve ne fossero appiccicati di totalmente diversi (è il solito Hanslick a garantircelo).

Ed infatti – complice il medesimo Strauss, bisogna dire, con le sue sparate sull'Antichrist – ci sono i soliti scafati che vengono a spiegare (a noi poveri pirla) come e qualmente, in quest'opera, sotto l'esteriorità del programma naturalistico si celino in realtà problematiche socio-politico-filosofico-psicologico-esistenziali di abissale profondità. E che quindi i titoli delle 22 stazioni si potrebbero sostituire con altri, del tipo: l'uomo nella notte dell'ignoranza e della religione; scocca la scintilla della ragione e si fa luce; il lungo cammino verso la conoscenza; il pensiero umano si inoltra nella foresta del dubbio; le prime conquiste della scienza; errori ed eresie; finalmente la pienezza della liberazione e della purificazione morale… e così via inventando. Diciamo la verità: con simili sottotitoli la Alpensinfonie diventerebbe una stucchevole, velleitaria riproposizione dello Zarathustra o della narcisistica e megalomanìaca Heldenleben

Volendo, si potrebbero proporre anche altre, diverse e ancor meno naturalistiche, visioni dell'opera. A partire da quella autobiografica: nel 1915 Strauss, a 51 anni (l'età che aveva il suo amico-rivale Mahler al momento di morire, quattro anni prima) dopo aver composto e fatto eseguire tutti i suoi Tondichtungen e quattro cosucce come Salome, Elektra, Rosenkavalier e Ariadne, si sentiva all'apice del successo, avvertendo allo stesso tempo che gli sarebbe stato difficile rimanere in vetta per sempre e che forse stava già per cominciare anche per lui la fase di discesa (in effetti durata ben 34 anni, durante i quali continuò comunque a produrre musica tutt'altro che disprezzabile). Così come si può interpretare questo racconto come un film sulla parabola dell'arte musicale mitteleuropea ed occidentale, che – agli occhi di Strauss e a fronte di rivoluzioni in atto (Schönberg, Stravinski) – poteva sembrare avviata al tramonto, dopo i fasti wagneriani, brahmsiani e… straussiani! O anche – stante la grande guerra in pieno svolgimento – come la presa d'atto, con gran rimpianto, del tramonto di un'intera civiltà, dopo le vette toccate a cavallo del secolo.

Ecco perché, personalmente, tendo ad apprezzare quest'opera proprio guardandola - e ascoltandola, soprattutto! - con l'occhio-orecchio ingenuo dell'escursionista che passa una bella giornata in montagna! E che giornata…

1. Nacht – notte

Tempo lento e tonalità di SIb minore. Un moto discendente di archi e fagotti, che in 8 misure copre precisamente due ottave, a partire dalla tonica SIb, fa da introduzione al solenne tema della montagna ancora avvolta dalle tenebre, esposto da tromboni e basso tuba:
Poi i contrabbassi creano un movimento di ondeggianti terzine, come un sommesso, sordo stormire di fronde, mosse dalla brezza che annuncia l'albeggiare; arpeggi dei fagotti preparano ancora il tema notturno, esposto a canone largo da tuba, tromboni e corni. Ora, poco a poco più mosso, flauti, trombe, oboe e corni eseguono a turno degli squilli (una quinta ascendente) come di qualcosa che si risveglia, o forse sono gli olà degli escursionisti che si danno il richiamo per radunarsi in vista della partenza. Tutti gli archi adesso stormiscono a veloci quartine; quindi, accelerando, il tema della montagna si fa solenne (il giorno si avvicina) passando dal SIb minore al SIb maggiore, nei tromboni, trombe, corni e con archi e strumentini che ingrossano ulteriormente il suono, con velocissime biscrome. Una terzina della tromba e degli strumentini, in fortissimo, sempre in SIb maggiore, conduce, con un ardito salto di tonalità, a LA maggiore...

2. Sonnenaufgang – spunta il sole

Tempo sostenuto, moderatamente lento. Il sole che sorge è interpretato da un tema degradante per quasi due ottave, fatto a dente di sega, che ben rappresenta la luce che scende progressivamente, inondando i crinali delle montagne e rivelandocene così i profili frastagliati e – sottolineate dai piatti – le cime aguzze:
È sempre di 8 misure, suonato da archi, trombe e strumentini, poi da corni e tromboni, via via contrappuntato dagli archi e fiati. Eccolo lì, proprio davanti a noi, il maestoso teatro della nostra escursione! Dopo una transizione dei tromboni a REb maggiore, violini e poi strumentini sembrano mostrare ancora al nostro sguardo il suggestivo panorama, ancora lontano, fatto di picchi, boschi, valli, ghiacciai e burroni. Ricompare il tema della montagna, dapprima in minore, che poi sfocia in SOLb maggiore, in tromboni e trombe, che sembra spronarci con un: forza, in marcia! Accelerando, arriva una scala ascendente di tromboni, corni e fiati, poi le trombe introducono frammenti del successivo tema dell'ascesa, come se ci si stesse riscaldando prima di attaccare l'escursione...

3. Der Anstieg – l'ascesa

Tempo piuttosto vivo ed energico. Il tema dell'ascesa è esposto dagli archi bassi (prima sezione) con aggiunta delle viole (seconda sezione) poi dei violini (terza sezione):
Ci dà proprio l'idea di una camminata spedita, passo deciso, morale alto, ad affrontare le prime salite. Lo risentiamo ancora, in forma più mossa e variata (anche a canone inverso). Quindi si dà un po' di riposo (poco rallentando) ma subito riprende vigore in archi, fagotti e clarinetti (piuttosto energico) per toccare una breve sospensione, e lasciare spazio ad un nuovo tema, marcatissimo (lo scalpitare di uno stambecco che si inerpica su un costone? o i nostri rapidi balzi, di roccia in roccia, a scavalcare i primi ostacoli?) esposto da corni e tromboni, chiuso anche dalle trombe:
Qui si devono udire in lontananza (fuori scena) ben 12 corni, 2 trombe e 2 tromboni (neanche fossimo ad una battuta di caccia alla volpe della Regina d'Inghilterra!) che suonano consuete terzine, mentre continuiamo a sentire, in contrappunto, il caratteristico, ascendente scalpitìo (che siano camosci inseguiti dai cacciatori?) cui si aggiungono tre ripetizioni di una figura dei clarinetti (quasi tre respiri un po' affannati, che ci consentono di prender fiato dopo la prima parte della salita) a preparare...

4. Eintritt in den Wald – entrata nel bosco

Un poderoso accordo generale, in tonalità di DO minore ci descrive la cupa maestosità del bosco, che ci sta proprio davanti; profondi arpeggi degli archi ci rappresentano lo stormire delle fronde nel folto. Ed ora corni e tromboni intonano un tema solenne, piuttosto arcano, che ben dipinge le nostre sensazioni al momento di addentrarci in una foresta, un misto di curiosità e di inconscio timore:
Fagotti e archi bassi (un po' serrato) riprendono il tema dell'ascesa (ma in tono minore, come a sottolineare lo scenario misterioso che ci circonda) poi nei fiati alti (di nuovo lento) torna il tema del bosco, che si piega e risale, negli archi, ancora poi contrappuntato da quello dell'ascesa, nei fagotti. Una progressione ascendente di trombe e strumentini porta ad un picco sonoro in MI maggiore, da cui si ridiscende sulla tonalità di LAb maggiore (tempo un po' più vivo) sulla quale i violini intonano un nuovo motivo, dal profilo sognante:
Che sfocia, riprendendo il tempo primo, nella tonalità di LA maggiore, su cui torna il tema del bosco in clarinetto basso e controfagotti, contrappuntato da tre autentici cinguettìi del clarinetto piccolo e dal flauto che a sua volta imita un usignolo. Si ridiscende, passando da DO maggiore, e poi da MIb (di nuovo un po' stretto) dove il tema precedente viene ripetuto in minore, per lasciar posto agli ottoni che riprendono il tema del bosco (poco a poco calmando) poi in contrappunto con gli strumentini, fino al ripristino di tempo (un poco moderato) e di tonalità (LAb maggiore) su cui violini e viole ripropongono il tema dell'ascesa, anzi una sua variazione languida (forse il pendìo qui è meno impegnativo, oppure la fatica comincia a farsi sentire…) sulla quale subito violini primi e la viola sola sembrano quasi invitarci a meditare, ascoltando per qualche attimo… il silenzio del bosco, prima che il tema dell'ascesa riprenda e si espanda in lunghe peregrinazioni (evidentemente siamo in un tratto di percorso relativamente abbordabile) culminando (un poco largo) in quattro specie di saltelli che ci portano giù verso un ruscello, annunciato da fluttuanti sestine di semicrome di flauti e clarinetti...

5. Wanderung neben dem Bache – passeggiata presso il ruscello

Il tema dell'ascesa ricompare in archi bassi, fagotti e clarinetto basso, mentre archi, clarinetti e flauti ci fanno sentire la presenza dell'acqua che scorre più in basso; il tempo si fa poco a poco più mosso; fagotti e corni espongono ancora il tema dell'ascesa, sempre in LAb maggiore; veloci figurazioni del flauti, poi ancora il tema dell'ascesa, sempre in fagotti e corni, gli uni in LAb maggiore, gli altri in DO minore. Ora il tempo si fa poco a poco sempre più vivo, si cammina ormai vicino all'acqua, come sottolineano le figurazioni di archi e clarinetti; i violini primi, con i corni, conducono ora il tema dell'ascesa ad una concitata progressione, mentre archi e strumentini descrivono la corrente sempre più impetuosa del ruscello. Ma adesso stiamo quasi correndo anche noi, perché siamo irresistibilmente attirati, verso monte, dal classico rumore di una cascata...

6. Am Wasserfall – presso la cascata

In tempo molto vivo e tonalità di RE maggiore, il tema scalpitante (sono i nostri ultimi balzi per arrivare al cospetto della cascata? o qualche stambecco che se ne scappa via da lì, spaventato dal nostro arrivo?) è riproposto, fortissimo, da trombe e corni, mentre flauti, clarinetti, fagotti e violini producono precisamente delle cascate di note discendenti:
Su un sottofondo dei piatti percossi da bacchette, che rende perfettamente l'idea del vaporizzarsi dell'acqua a contatto con le rocce, la cascata continua, prima in tempo quaternario, poi in ternario, punteggiata dalle due arpe e dalla celesta, mentre si prepara una...

7. Erscheinung – apparizione

Chissà se per caso si tratta della famosa Alpenfee, la Maga delle Alpi (quella che anche il byroniano Manfred incontra proprio sotto una cascatella…) È sempre il ribollire della cascata che occupa il campo, con continui glissando di violini e arpe, finchè il primo corno intona un dolce tema (lo risentiremo presto, e in quale maestosità!) che sfocia in quello dell'ascesa:
Tema che strumentini e violini riprendono e chiudono con una salita al RE, poi al MI, che conduce al FA#, dominante della tonalità che caratterizza la scena successiva...

8. Auf blumige Wiesen – su campi in fiore

Tempo molto vivo e tonalità di SI maggiore. Il tema dell'ascesa è ancora una volta ripreso negli archi bassi, mentre gli strumentini e le arpe emettono suoni al limite del ronzìo, forse a rappresentare gli insetti e le api che si affannano attorno ai fiori. Poi il tema si apre – proprio come lo scenario che stiamo attraversando adesso, sottolineato dalle crome in pizzicato dei violoncelli, che paiono descriverci le corse di qualche leprotto - in nuove forme, sempre più vivace:
per condurci, accompagnati dal tema dell'apparizione, verso una nuova tonalità, che introduce anche una nuova scena...

9. Auf der Alm – sul pascolo

In tempo moderatamente veloce e tonalità di MIb maggiore fagotti, clarinetti e corno inglese emettono come degli jodel, accompagnati dagli squittìi del flauto piccolo. Il clarinetto piccolo e gli oboi letteralmente belano, suonando con la tecnica nota come frullato (il tedesco Flatterzunge, consistente nel far vibrare la lingua mentre si emette il suono). Poi corni, viole e un violoncello intonano un nuovo tema, derivato da incisi uditi sin dall'inizio, dopo lo spuntar del sole, che si innalza in volute successive:
Il sottofondo è sempre di squittìi dei flauti, jodeln di corno inglese, clarinetti e fagotti, mentre si odono anche dei campanacci, evidentemente di mandrie che pascolano in qualche alpeggio nelle vicinanze… Corni e archi riprendono il tema, anche a canone, mentre jodeln, squittìi e suoni di campanaccio si fanno più intensi, poiché adesso dobbiamo essere assai vicini al pascolo. Un'ultima perorazione del tema negli archi, porta a una nuova scena, in tempo veloce: strumentini e fagotti espongono, in entrate successive, una figura discendente per ben quattro ottave, da dominante a dominante (chissà, il richiamo dello zufolo di un pastore che riecheggia più volte, riflesso da diverse pareti rocciose…) e subito dopo il primo corno, facendosi largo, avanti con freschezza, espone un nuovo tema:
Tema orecchiabilissimo questo, proprio da… montanari in marcia, che però si amplia, negli archi, in figurazioni mosse, come di un gregge che corre qua e là, e che introduce la scena seguente...

10. Durch Dickicht und Gestrüpp auf Irrwegen – attraverso roveti e boscaglia su sentieri sbagliati

L'ultimo tema del pascolo continua ad occupare la scena, ora in forma fugata, variato e in tonalità cangiante, da maggiore a minore, e sempre in carattere, spingendo violentemente, con forti scale ascendenti dei corni. Ci siamo adesso inoltrati su sentieri non battuti, siamo circondati da arbusti spinosi e ci troviamo in una situazione piuttosto critica; ma non ci perdiamo d'animo, anzi usciamo dai rovi e procediamo sempre accelerando. Qui il tema dell'ascesa è suonato anche dalle tubette tenore (wagneriane) che udiamo per la prima volta. La musica ci porta ad una sospensione, in minore e fortissimo, di tutta l'orchestra, allorquando trombe e tromboni ripropongono maestosamente, in SIb minore, il tema iniziale della montagna, sul quale i corni riprendono, in FA minore, il tema dell'ascesa, che ora ci ha fatto raggiungere il ghiacciaio...

11. Auf dem Gletscher – sul ghiacciaio

Tempo sostenuto, ma vivo e tonalità di RE minore. Mentre viole e poi violoncelli emettono ondulanti sestine di semicrome (attenzione, perché qui si scivola!) trombe e strumentini riprendono il tema dello scalpitìo (qui sono i nostri scarponi che faticano a reggere l'equilibrio) che in seguito viene affiancato dal tema variato dell'ascesa, che si conclude sulla sopratonica di RE minore:
Adesso, poco calando, passiamo alla successiva descrizione...

12. Gefahrvolle Augenblicke – momenti pericolosi

Tempo vivo, come prima. Fagotti, poi corni e trombe riprendono ancora il tema dello scalpitìo, che qui rappresenta bene il nostro difficoltoso arrampicarci sul ghiaccio, costellato da varie scivolate (scale discendenti di fagotti e violoncelli). Il violoncello solo riprende il tema dell'ascesa, in FA minore, ma qui con estrema circospezione, data la precarietà del momento! Ancor più cauti e tremebondi i tromboni ripetono, in MIb, il nostro procedere a scatti, sul tremolo invero rabbrividente degli archi (diciamo la verità, un pochino di caghetta qui ci sta assalendo). Infine viole e violoncelli e poi la tromba, in LA minore, ripresentano i temi dell'ascesa e dei saltelli, finchè i corni, se Dio vuole, con ultimi balzi decisi, ci portano...

13. Auf dem Gipfel – sulla vetta

Siamo, almeno inizialmente, in tonalità di FA maggiore e i tromboni interpretano l'arrivo in vetta con tre balzi sempre ascendenti: dominante-tonica, tonica-dominante, dominante-tonica:
È questo il momento culminante della giornata, l'obiettivo della nostra escursione. E ce lo vogliamo godere come si merita (e come ci meritiamo!) Ci sediamo su un masso e ascoltiamo ammirati: nell'incredibile silenzio dei ghiacciai, un po' più tranquillo, l'oboe espone una delicata melodia:
È a tratti esitante, chiusa su una cadenza presa dalla conclusione del pascolo cui, più mosso, il flauto, con gli archi in tremolo, risponde con un inciso che ricorda, sviluppandolo, l'apice del tema dell'ascesa; ancora l'oboe, di nuovo più tranquillo, ribadisce il suo tema esitante, che adesso sfocia (più mosso, in tutta l'orchestra e con una modulazione da FA maggiore a DO maggiore) nella grandiosa, enfatica perorazione del tema della magnificenza della Natura. Che altro non è se non l'ultima sezione del tema dell'ascesa, magistralmente sviluppata. Qui la parte dei flauti:
Ecco, quando Strauss alludeva alla sinfonia con il nome nietzschiano di Antichrist è probabile che avesse in mente soprattutto questa scena e questa tonalità: il DO, che rappresenta la Natura nella sua pura oggettività (si noti come il tema precedente sia esposto impiegando le sole note della scala diatonica, i tasti bianchi del pianoforte, ad esclusione della sensibile!) Adesso sono i tromboni che, in allegro maestoso, ripetono i tre balzi ascendenti, direttamente sfocianti (piuttosto trattenuto, con l'aggiunta delle trombe) in una riesposizione del tema iniziale della montagna, in LA minore, cui segue, nei corni, in DO maggiore, il tema solenne, esposto poco prima (nella scena dell'apparizione, dopo la cascata) e ulteriormente sviluppato, che bene fotografa la superba vista sulla natura circostante:
Il tema è ora esposto anche dai violoncelli, mentre archi alti e clarinetti lo contrappuntano, con inebrianti salti di quasi due ottave discendenti, e con risalite vertiginose, sempre più su, dopo ogni sosta, seguite ancora da salti in basso (l'ultimo è addirittura un intervallo di 17ma, un vero e proprio tuffo nell'abisso!) Qui davvero è descritto in modo sublime l'esterrefatto stupore che assale il piccolo uomo, di fronte a un tale spettacolo!
Dopodichè corni e tromboni, poi le trombe, ripresentano il tema dei nostri balzi, come se volessimo raggiungere una postazione ancor migliore per esplorare il panorama; e quel panorama ci viene rappresentato (abbastanza largo) dalla riproposizione del tema del sorgere del sole, qui in DO maggiore, davvero una cosa mozzafiato, ancora più radioso, se possibile, rispetto all'esposizione iniziale. Sono archi alti, trombe e strumentini ad esporlo, con i corni a contrappuntarlo con entusiasmanti salite fino al FA acuto. Si arriva quindi alla...

 

14. Vision – vision

Il tempo è sostenuto e trattenuto e il tema dei tre balzi ascendenti si ripresenta, esposto in tonalità diverse (inizialmente FA#) da trombe, corni ed oboi, e porta lentamente alla riapparizione del tema del sorgere del sole, ora esposto da violini e flauti in LAb maggiore (si noti: un semitono più basso rispetto alla prima esposizione, all'alba, e a partire dalla mediante, anzichè dalla tonica, come a segnalarci che ci stiamo lentamente avviando verso il meriggio?) Anche le quattro tubette tenore ingrossano il volume di suono. Il tema della vetta torna in tromba e corni, ma in tonalità oscure, come DO#, contrappuntato nei tromboni dal tema dei tre balzi, in SIb, fino a sfociare, forte, nel tema del sorgere del sole, esposto da trombe, viole e violoncelli che iniziano in LA (sempre dalla mediante, peraltro) come all'alba, ma ora in uno scenario piuttosto abbrunato dal tremolo degli archi e dal cromatismo dei fiati, per poi scendere e fermarsi per un attimo sulla dominante MI maggiore; da cui peraltro ci si allontana subito, con archi e fiati che risalgono faticosamente la scala cromatica, fino all'esplodere del tema notturno della montagna, in SIb minore, negli ottoni, corni esclusi... (per questo passaggio Strauss prescrive il raddoppio degli strumentini, per dare ancor più incisività al timbro). La grande visione del maestoso scenario alpino si sta però offuscando, poiché ormai…

15. Nebel steigen auf – sale la nebbia

Tempo ancora un poco più largo. Sono solo 8 battute, dove tutti gli archi in tremolo eseguono figure ascendenti (sì perché, in montagna, la nebbia sale dal basso…) mentre clarinetti e poi flauti rendono bene lo scenario delle minuscole particelle acquee che stanno invadendo la scena...

16. Die Sonne verdüstert sich allmählich – il sole si offusca poco a poco

I violini secondi, cui si accompagna l'organo, espongono ancora, in SIb maggiore, il tema del sorgere del sole, che è però irrimediabilmente offuscato dalla nebbia, sempre rappresentata dai fiati e dalle trombe; un'ultima volta tromba, organo e fagotto lo ripetono; poi, poco calando, si passa alla successiva...

17. Elegie – elegia

In tempo moderato espressivo gli archi intonano una mesta melodia, derivata per degradamento da quelle udite in vetta, la tonalità è indefinita, sempre cangiante, dal FA# minore al DO#. La sostiene un pedale d'organo, poi i fagotti e il clarinetto basso; il corno inglese ripete ancora, mestamente, il tema del sorgere del sole, ormai totalmente deperito. Ancora oboe e i violini espongono il tema dell'elegia e poi, in un tempo tranquillo, gli archi bassi e le viole preparano la transizione verso la scena successiva...

 18. Stille vor der Sturm – quiete prima della tempesta

Timpano e grancassa annunciano sordi e minacciosi tuoni, per ora in lontananza. Il clarinetto, in tempo sempre più tranquillo espone, in SI minore (perché ormai l'atmosfera è tutt'altro che serena…) la melodia esitante che l'oboe aveva suonato sulla vetta; il corno inglese e poi il flauto riprendono l'elegia; ora è il corno inglese ad abbozzare la melodia della vetta, seguito dal clarinetto basso. Dall'oboe sembrano cadere le prime gocce di pioggia; ancora fagotto e flauto si cimentano nella melodia della vetta, in FA# minore e sempre più lento; ecco un trillo del clarinetto, nel silenzio generale, poi compare un primo lampo, seguito da altri due, che il flauto piccolo rappresenta con brevi guizzi ascendenti. Fiati e archi bassi ripropongono il tema degradante iniziale, in SIb minore, poi timpani, tamburo e macchina del vento (più vivace) ci fanno capire, imitando la natura, che la tempesta è ormai vicina, mentre flauti, oboi, arpe e violini in pizzicato lasciano cadere gocce d'acqua in quantità crescente; con un accelerando di tutta l'orchestra si entra nel temporale vero e proprio...

19. Gewitter und Sturm, Abstieg – temporale e tempesta, discesa

Tempo veloce e veemente e tonalità di SIb minore. Tutti gli archi in tremolo e i flauti eseguono veloci scale discendenti, proprio a rappresentare gli scrosci della pioggia portata dalla bufera; tutti i fiati, tromboni esclusi, ripropongono il tema dell'ascesa a rovescio, poichè ora si scende, e maledettamente in fretta! Flauti, clarinetti e trombe emettono lampi e saette, mentre i timpani esplodono (oh, col dovuto ritardo!) i relativi tuoni. Il tema dello scalpitìo riappare qui nei fiati, proprio a rappresentare la fuga verso valle, a saltelloni; ancora lampi e tuoni in grande quantità, altri balzelloni all'ingiù nelle trombe, poi negli archi, con la tonalità che cambia in LA minore. Ancora balzelloni negli ottoni, finchè si ripassa dalla cascata: tre sole battute bastano a ricordarcela, perchè non è proprio il momento di fermarci ancora ad ammirarla, ma quello di scappare... In DO minore prosegue il temporale, con i temi della discesa e dei salti, intercalati da reminiscenze di suoni uditi prima della tempesta, che prosegue ancora, mentre si ripassa dai pascoli (da DO minore alla relativa MIb maggiore) con i corni a riesporre il loro bel tema, ora in tempo molto vivace (chè siamo, per così dire, di fretta…) Poco dopo si ripassa anche dal bosco, e si riode nelle trombe il relativo tema, subito ripreso da corni e tromboni… Da notare qui una – sicuramente voluta – variante di percorso su cui Strauss ci ha condotti, nella discesa. Ricordiamo che, salendo, eravamo passati prima dal bosco, dopo davanti alla cascata, e dopo ancora presso i pascoli. Scendendo invece incontriamo prima la cascata, poi i pascoli e quindi il bosco! Comunque sia, adesso si può correre a rotta di collo: su un accelerando ascendente di tutta l'orchestra si passa ad un molto veloce, dove ancora sentiamo lampi e tuoni (qui anche prodotti dalla Donnermaschine) accompagnati da scrosci d'acqua e dal vento persistente. Si intuisce però che forse il peggio sta per passare, perciò il nostro passo si fa più disteso (tema della discesa molto largo negli ottoni). Ancora gocce di pioggia, ma sempre più rade, qualche sporadico lampo (poco calando). Un tuono ancora, forte, ma lontano; un po' più largo e maestoso, ricompare negli ottoni il solenne tema notturno della montagna, nella sua originaria tonalità di SIb minore. Perché ormai siamo al tramonto...

20. Sonnenuntergang – tramonto del sole

Si modula alla sesta (SOL bemolle) e strumentini e violini riprendono in maggiore per riesporre il tema dell'alba, contrappuntato da trombe, tromboni e arpe con il tema dell'ascesa, ma molto allargato; nel tema dell'alba si inserisce una ampia divagazione, derivata da quello dell'elegia. Si passa poi alla tonalità relativa di MIb minore, con altri fraseggi degli archi, sempre contrappuntati da trombe e tromboni col largo tema dell'ascesa. Una stupenda modulazione porta al SI maggiore, con cui trombe e poi tromboni riespongono il tema dell'aurora, sempre sostenuti dalle figure degli archi, in perenne tensione cromatica, che sfocia poi nella ricaduta sul MIb maggiore che conduce a...

21. Ausklang – epilogo

Tempo poco largo e solenne. Sono le sensazioni a caldo che proviamo appena rientrati a casa, al termine dell'escursione, mentre rivediamo come in un replay l'emozionante giornata. È l'organo ad esporre la prima parte del tema dell'aurora, seguito dai corni, poi dalla tromba, che conduce alla riproposizione, negli strumentini, dell'esaltante tema della vetta (là era in DO maggiore, tonalità legata alla visione laicaAntichrist! - della natura, qui in MIb Maggiore, che ne rappresenta il lato religioso) con gli abissali intervalli discendenti e le sue risalite, poi contrappuntato nei corni dall'altro tema della vetta. Gli archi, quasi a voler impedire alla giornata di concludersi, intonano una lunga e struggente variazione sui temi della vetta, che viene qua e là contrappuntata dagli ottoni con spezzoni del tema dell'apparizione e dell'ascesa, fino ad arrivare ad un culmine in cui l'inizio del tema dell'alba è esposto da archi alti e strumentini in SOLb maggiore; una modulazione repentina ci riporta al MIb, su cui si conclude la cadenza... Adesso, un poco più vivace, i flauti, inseguiti dai clarinetti, ci fanno riascoltare il tema iniziale della scena del pascolo, caratterizzato dalle quattro discese di ottava. Poi, sul tempo primo, violini e viole sembrano tornare all'ascesa, imitati subito da corni, fagotti, tuba e archi bassi, ma non è che il pallido ricordo della baldanzosa scalata del mattino, e serve solo a riportare alla nostra memoria l'alba, il cui incipit viene riproposto da tromba, oboi e corno inglese, col pedale dell'organo, nell'originale tonalità di LA maggiore; ma ormai sta tornando…

22. Nacht – notte

Siamo proprio stanchi, ma ancora i ricordi della giornata ci accompagnano verso il sonno. In tonalità di SIb minore i clarinetti e i secondi violini, seguiti da fagotti e viole, poi dai violoncelli e dai contrabbassi, riespongono il tema degradante con cui la giornata, e con lei la sinfonia, si era aperta; per l'ultima volta, il tema notturno della montagna riappare negli ottoni (corni esclusi) per poi morire, in tempo molto adagio, su un'estrema e lenta reminiscenza, nei violini, del tema dell'ascesa.

Ecco: ora possiamo proprio addormentarci sereni, diciamo la verità… grazie alla Alpen-Reisen Strauss!
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