Gradito
ritorno di Falstaff alla Scala: una
volta tanto (peccato che capiti, appunto, piuttosto di rado) uno spettacolo complessivamente
di buon livello, accolto anche ieri (alla seconda)
con favore dal pubblico (di un Piermarini peraltro non esaurito).
Per
non smentire una tradizione ormai consolidata, dopo quello ampiamente
anticipato di Barbara Frittoli (che diserterà tutte le recite) ecco il forfait – annunciato in sala alle 19:55
– di Fabio Capitanucci, rimpiazzato da Massimo Cavalletti, originariamente
scritturato per le sole recite del 2-6-8 febbraio. (Brutta cosa programmare le
stagioni in pieno inverno, smile!)
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Falstaff è l’opera-testamento di Verdi, o
forse sarebbe meglio definirla l’estremo sberleffo (la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di
sorridere di se stesso e dell’intero mondo del teatro musicale, al quale aveva
già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è
disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a
forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l’intero ottocento. Ci
troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a
quartetti di Haydn, alla quinta di
Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma
anche a Carmen, ai Cantori e a Parsifal… In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica
che era stata composta o rivalutata in quel secolo, che rimarrà nella storia
come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà
musicale.
Ma tutto fatto in modo intelligente e… pertinente. Come nel
caso della citazione dal Parsifal di
quel Wagner che Verdi non aveva certo in simpatia, ma del quale aveva l’onestà
intellettuale di riconoscere i meriti, e delle cui opere aveva una curiosità
quasi morbosa, a dispetto delle critiche anche radicali cui le sottoponeva. Dunque,
nel monologo di Falstaff all’inizio dell’Atto III, il protagonista,
prefigurando la propria fine, pronuncia la famosa frase (certo una rodomontata,
detta da un dongiovanni ormai pensionato e gabbato, invece che ambìto, dalle comari del luogo): Allor scomparirà la vera virilità dal mondo.
Ebbene, Verdi come te la chiosa? Così:
Si tratta di una citazione quasi letterale dal second’atto del
Parsifal: musica che colà dipinge la personalità di tale Klingsor, un (auto)castrato!
Daniel Harding ha fatto bene il suo compito, esagerando a mio avviso in
qualche fracasso di troppo, che ha talvolta coperto le voci. Rispetto alla prima (ascoltata in radio) ho avuto
l’impressione che sia migliorato nell’insieme, rimediando ad alcune eccessive
(per me) lentezze. Con lui l’orchestra ha mostrato ancora una volta di avere un
buon feeling, a partire dal pacchetto
degli strumentini che abbiamo lodevolmente visto in buca già alle 19:30 per…
scaldare i motori.
Ambrogio
Maestri ha proprio il phisique-du-role del protagonista, non c’è che dire. Peccato che la
voce non sempre riesca a passare come
si deve, quando la partitura non prevede esibizioni stentoree, ma canto a mezza
voce o sussurrato. Comunque una prestazione più che encomiabile.
A Massimo Cavalletti (Ford)
va riconosciuta l’attenuante della chiamata all’ultimo momento: alla quale lui
ha risposto dignitosamente, peraltro forse più sul piano scenico che non su
quello vocale, in specie nelle impervie altezze in cui Verdi impegna il secondo
baritono.
Carlo Bosi è un discreto Dottor Cajus, cui dà la sua voce squillante e
penetrante, oltre che le sue qualità di attore.
A Francesco Demuro
(Fenton) mi sento di dare la sufficienza, non molto di più: la voce è bella di
timbro e certamente adatta al ruolo, ma poco udibile in basso e un tantino
sforzata negli acuti.
Riccardo Botta (Bardolfo) e Alessandro
Guerzoni (Pistola) se la cavano più che bene, dando il loro valido contributo
ai diversi concertati in cui sono coinvolti.
Vengo ora al gineceo:
Daniela
Barcellona ha fra le quattro femmine la parte forse
più impegnativa (Quickly) soprattutto nell’estensione verso il basso. A me è
personalmente piaciuta in questo suo avvicinamento a Verdi (che dovrebbe
culminare più avanti, a Torino, in Eboli!)
Carmen
Giannattasio, assurta fin dalla vigilia al rango di primo cast (vista la defezione cronica
di Frittoli) è un’Alice che mostra qualche pecca negli acuti tendenti
all’urlato, comunque compensata da timbro e sonorità gradevoli.
Laura
Polverelli (Meg) si sente pochino, coperta spesso
dalle altre voci e qualche volta da… Harding (smile!) Non mi sentirei però di darle l’insufficienza.
Piacevole la Nannetta di Irina
Lungu, e brava – al contrario dell’innamorato - proprio nella parte alta
della tessitura impostale da Verdi.
Il coro di Casoni ha
il suo impegno gravoso soprattutto nel finale, con quella strepitosa e
difficile fuga che è chiamato a riempire
di suono, supportando i solisti. Direi che ha assolto puntualmente il suo compito.
Per tutti, alla fine, applausi convinti, anche se non
propriamente da stadio, ma mi pare
giusto così.
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Che dire dell’allestimento?
La premessa fondamentale da farsi è che la sua stessa natura -
di commedia brillante con qualche retrogusto amarognolo – garantisce all’opera
di Boito-Verdi la totale inossidabilità da ogni possibile sofisticazione. Per
dire, mentre rivestire un Rolex con plastica colorata e imbrattargli il
quadrante di schizzi di vernice farebbe (e fa) rivoltare, fare la stessa operazione
con uno Swatch potrebbe addirittura aumentarne l’appeal!
Ecco perché la regìa di Robert
Carsen questa volta non dà luogo a scandali, né a contestazioni particolari
(e pure al Covent Garden lo scorso
anno fu accolta senza… traumi). Certo non tutte le trovate del genio canadese sono impeccabili: quando
si è costretti, per giustificare la propria parcella, a inventare sempre
qualcosa di nuovo e di diverso
(diverso anche e soprattutto dall’originale…)
si rischia immancabilmente di andare oltre le righe.
Il regista presenta alcune sue considerazioni sull’opera nel programma di sala. Insieme a cognizioni che anticipano la scoperta dell’acqua calda (smile!) cerca anche di spiegare i
razionali (!) che stanno alla base del suo allestimento. Fra tutti, una chicca,
roba proprio da edizione critica.
Scrive Carsen, testualmente: Il libretto di Falstaff,
se si legge con attenzione, ha numerosi riferimenti alla passione tipicamente
inglese della caccia. Vi si accenna anche a donne che vanno a caccia, a
differenza di quanto avviene in altri paesi. Nel nostro spettacolo abbiamo
posto l’accento anche su questo aspetto.
Evidentemente il regista dev’essere in possesso di un libretto in versione
originale, mentre noi – teatro e cantanti inclusi – ne abbiamo uno chiaramente adulterato
e apocrifo, dove non c’è la minima traccia di caccia, cavalli, volpi, hounds e affini (salvo la caccia a
Falstaff in casa Ford, smile!) Caccia
che invece il regista usa a sostegno della sua ideona di mettere in scena un
cavallo vero al quale Falstaff propina (direi senza molto successo) il suo
amaro filosofeggiare.
Poi, l’ambientazione. Carsen la sposta in
avanti di cinque secoli e mezzo rispetto alla vicenda narrata da Shakespeare (e
ripresa da Boito) e di tre secoli e mezzo dall’epoca in cui il genio di
Stratford la mise su carta. Rispetto a
quest’ultimo scenario, si passa solo da Elisabetta
I (che pare avesse commissionato l’opera, anche a costo di far… resuscitare
Falstaff) a Elisabetta II! Per la
verità in periodi abbastanza diversi – non dico diametralmente opposti – della
storia albionica: con la prima Elisabetta (più ancora con Enrico IV) l’Impero
era proprio agli albori; con la seconda l’Impero era gli sgoccioli e
soprattutto aveva appena visto la gloriosa e altera Pound sterling venir soppiantata da quel volgare Dollar dei cugini d’oltreoceano, eredi
della feccia dei derelitti degli slum di
Londra, deportati secoli prima nel Nuovo mondo a far da schiavi ai capitalisti
di Sua Maestà… (Forse Carsen si è accorto di ciò, e quindi per rimediare ha
travestito Ford da miliardario texano.) Peraltro, volendo a tutti i costi
traslocare Falstaff in uno scenario a noi familiare, il posto più adatto – oggi
- sarebbe Shanghai!
Ma dato che in tutte le epoche e sotto tutti i cieli c’è sempre
qualche nobilastro decaduto (Falstaff) e qualche intraprendente ed emergente sfruttatore
di forza-lavoro (Ford: un nome, un programma, a proposito di dollari, smile!) ecco che anche l’ambientazione
di Carsen, pur concettualmente strampalata, non fa poi eccessivi danni.
A cominciare dalla Garter
Inn trasformata in un misto di hotel
e club, dove nella seconda parte
dell’Atto I si ritrovano le comari a colazione (servita da Fenton, che immagino
ringrazierà eternamente il regista per averlo promosso da gentleman a headwaiter!)
e dove (inizio dell’atto secondo) il nobile, pur decaduto, Falstaff, riceve
nella sala da fumo (quindi per soli uomini) una donna, per di più una serva, la
badante, diremmo oggi, del Docteur Cajus (in Shakespeare perlomeno)
che risponde al nome di Quickly…
E che dire della dimora di Ford che – a giudicare dalla cucina
- pare quella di un rappresentante della lower-class,
altro che borghesia emergente… e dove il presunto e illuso amante arriva con i
minuti contati per la sua sveltina e
che ti fa? dimentica il sesso per mettersi a tavola a divorare un tacchino!
E infine: la presenza, in apertura di terz’atto, della comparsa
equina (a proposito, la famosa traccia scoperta da Carsen sarà mica l’auto-definizione
di Falstaff audace
e destro cavaliere?) col ricordato riferimento alla caccia (incluso
l’abbigliamento di Quickly) è cosa simpatica e cervellotica allo stesso tempo.
Per dire, allora anche una torma di hooligans
ubriachi – parte integrante dell’attuale panorama albionico - avrebbe potuto trovare
legittima cittadinanza in questo allestimento.
Sul fronte della recitazione, diamo a Carsen ciò che gli
spetta, e facciamo anche i complimenti a tutto il cast, coro e… cavallo
inclusi.
Alla fine mi sentirei di dire che la regìa esageri un filino, portando la gustosa commedia di Boito-Verdi ai confini dell’avanspettacolo. Ma in complesso: ci ha fatto comunque divertire, proprio come voleva Verdi. E ciò, per stavolta, basta e avanza per farcela digerire (smile!)
Alla fine mi sentirei di dire che la regìa esageri un filino, portando la gustosa commedia di Boito-Verdi ai confini dell’avanspettacolo. Ma in complesso: ci ha fatto comunque divertire, proprio come voleva Verdi. E ciò, per stavolta, basta e avanza per farcela digerire (smile!)
5 commenti:
Ciao Daland, ho letto con la consueta attenzione il tuo articolo che mi pare confermi la buona riuscita generale dello spettacolo, anche nella parte musicale che è quella che m'interessa di più.
Purtroppo non ho ascoltato neanche una nota di questo Falstaff (la registrazione giace sul desktop), spero nei prossimi giorni di riuscire a sentirla.
Ovviamente sono particolarmnete felice della prestazione della Barcellona, mia stimatissima concittadina, che so essersi preparata con grande cura per questa parte così impegnativa.
Ciao!
@Amfortas
In effetti, come ho scritto, mi è parso che la parte musicale sia migliorata rispetto alla "prima" (con tutte le riserve dell'ascolto audio).
La Danielona è un po' "fuori taglia" rispetto alle Quickly tradizionalmente minute e tutto pepe (lei ovviamente è perfetta nei Tancredi, Sigismondi e simili...) però ha fatto un figurone e soprattutto ha cantato bene!
Vedremo come se la caverà nel "Don fatale"...
Ciao!
Effettivamente l'affermazione di Carsen sulla caccia può avere senso solo se il riferimento era al testo "originale" di Shakespeare, probabilmente i traduttori hanno contribuito al danno.
@Alberto
Sì, ma anche lì (parlo delle Merry wives) il riferimento è piuttosto labile. Negli "Enrichi" c'è pure qualcosa.
Resta il fatto che oggi se un regista non inventa a tutti i costi qualcosa di nuovo o strano rispetto al libretto passa per un "custode di musei"!
Grazie, ciao!
Pensavo agli Enrichi sì, comunque ho fatto caso al libretto ci sono proprio 2-3 riferimenti alla caccia ma poca roba. Certo Carsen ormai ha da difendere la sua nomea di stralunatore, e tutto sommato direi che questo Falstaff possa avere più aspetti positivi che negativi.
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