XIV

da prevosto a leone
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18 ottobre, 2017

Chung esalta Weber alla Scala


Der Freischütz è arrivato ieri alla sua terza delle otto recite alla Scala, dove è tornato dopo quasi 20 anni di latitanza. Myung-Whun Chung, lo dico subito, è l’autentico artefice del successo di questa produzione.

Come per tutti i Singspiel (dal Ratto al Flauto, al Fidelio, e giù fino alla prima Carmen) anche qui nasce il problema di quanto parlato conservare, rispetto a quanto convenga buttare nel cestino. Mi pare che la scelta di questa produzione sia sostanzialmente equilibrata, conservando ciò che è assolutamente essenziale per la comprensione della vicenda, ed eliminando il superfluo. Al proposito è condivisibile la scelta (non è un’invenzione) di Chung riguardo l’inizio del terz’atto. Weber, forse con l’intenzione di creare uno stacco dopo l’infernale Wolfsschlucht che chiude l’atto secondo, ha previsto un’Entre Act brillante che anticipa quasi letteralmente lo Jägerchor che più tardi precederà il finale. Introduzione che è seguita da un lungo parlato, dove un paio di cacciatori si scambiano banali battute di carattere meteorologico (e queste per davvero sarebbero insopportabili) ma dove poi Caspar e Max discutono animatamente sulla distribuzione fra loro e l’impiego delle sette pallottole magiche fuse la notte precedente. Questa parte del dialogo è di fondamentale importanza per comprendere poi ciò che avverrà nel finale (la schioppettata di Max verso la bianca colomba che invece il diavolo Samiel indirizza a colpire Agathe, anzi... Caspar). Bene, Chung elimina l’Entre Act e l’intero parlato che segue, attaccando l’atto con la sublime melodia del violoncello solo che introduce la cavatina di Agathe. Quindi, per rimettere le cose a posto sul piano della comprensibiltà della vicenda successiva, piazza il breve incontro fra Caspar e Max subito prima dello Jägerchor.

La direzione del Maestro coreano è assolutamente di prima classe: forse, mi verrebbe da dire, fin troppo raffinata ed elegante anche in quei non pochi momenti in cui Weber – credo intenzionalmente – carica la musica (e i cori) di accenti piuttosto sbracati e colmi di rozzezza contadina. Ma in compenso il nitore e la trasparenza del suono sono precisamente da incorniciare!

Il Coro di Casoni, appunto, dà ancora una volta una prova della sua compattezza e del suo affiatamento, creando in modo brillante ed efficace sia le atmosfere villerecce che caratterizzano la vicenda, sia quelle da tregenda che accompagnano la spaventevole scena alla Gola del lupo.

Compagnia di canto bene assortita. Su tutti la Agathe di Julia Kleiter, davvero emozionante nelle sue due prove più impegnative: l’aria del second’atto e la cavatina che apre il terzo, lungamente applaudite. Con lei il convincente Caspar di Günther Groissböck, voce corposa e penetrante, perfettamente attagliata al sinistro personaggio.

Michael König è un dignitoso Max, a cui manca forse qualche decibel per meritare l’eccellenza. La voce è bella, squillante (la parte peraltro non mi pare proibitiva) ma appunto fatica a riempire il grande spazio scaligero. Sul suo piano metterei la Äennchen di Eva Liebau, le cui due fatiche solistiche (arietta del second’atto e romanza-aria del terzo) sono state superate onorevolmente, e quindi apprezzate dal pubblico.

Gli altri quattro comprimari (la cui presenza canora in scena è abbastanza sporadica) hanno pure ben meritato. Farei una menzione per Stephen Milling, imponente ed autorevole Eremita.

Alla fine il pubblico non oceanico ha riservato meritati applausi a tutti quanti.
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L’allestimento di Matthias Hartmann è improntato al minimalismo della scenografia (di Raimund Orfeo Voigt) accompagnato dalla bizzarrìa dei costumi della coppia Susanne Bisovsky e Josef Gerger. Efficaci le luci (a parte i profilati di neon, davvero ridicoli) di Marco Filibeck.

Un misto di kitsch e goliardia che ci può anche stare, data la natura del soggetto, che per la verità potrebbe prestarsi anche ad interpretazioni più profonde o magari intellettualoidi.

In definitiva, un ritorno alla Scala (almeno per quanto mi riguarda) assai gradito. 

10 ottobre, 2017

I tiratori tornano alla Scala


Alla Scala torna dopo quasi 20 anni di assenza Der Freischütz, unanimemente riconosciuta come il prototipo dell’opera romantica, tedesca ma non solo.

La prima apparizione dell’opera alla Scala risale al 1872 (50 anni dopo l’esordio tedesco) con il titolo Il franco cacciatore e con la traduzione dall’originale di Friedrich Kind fatta da Arrigo Boito (si noti l’esotico Freyschütz, di moda nell’800 e non solo in Italia):


Il titolo italiano non fu però farina del sacco di Boito, ma si trova già nella traduzione di Francesco Guidi (1843, Pergola di Firenze). Intanto: perchè franco? Escluso che vada inteso etnicamente, come francese, o francone (chè la vicenda si svolge in Boemia); ma neanche come schietto, o sincero (Max non pare proprio un tipo così irreprensibile). Si potrebbe allora interpretare come bravo, preciso, ma il nostro non sembra proprio tale, se deve ricorrere alla magìa per diventarlo. In realtà, se ci basiamo sul finale dell’opera, oltre che sulla traduzione letterale dal tedesco (dove frei sta per libero, ma viene usato nell’ambiente commerciale a significare franco-domicilio, porto-franco, etc.) il protagonista è franco nel senso di affrancato (sfuggito infatti all’esilio che gli aveva comminato il Principe). C’è poi chi – partendo dall’indizio delle pallottole magiche, frutto di diavoleria - azzarda che frei sia da interpretare come stregato, allucinato.

Poi: cacciatore non è certo la traduzione letterale di Schütz, che sta per tiratore (di doppietta) termine letteralmente più aderente al soggetto dell’opera, che tratta - più che di battute di caccia – di gare di tiro. Però da noi cacciatore è anche un termine militaresco, che denomina corpi di fanteria leggera esperti nel tiro, come ad esempio i bersaglieri...

E al proposito: il citato Francesco Guidi aveva precisamente tradotto il titolo come Il franco bersagliere (fantastico qui l’italianizzato De Weber: perchè non... Del Tessitore?):

 
E chissà se il Guidi, oltre ad impiegare un termine come da dizionario, abbia anche voluto rendere omaggio al corpo militare, formatosi proprio pochi anni prima.
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Quanto alla forma, l’opera è un classico Singspiel, con numeri musicali alternati a parlati, tipo Serraglio o Flauto o Fidelio, ecco. E quindi si ripropone il solito dilemma: quanto tagliare di ciò che non suona? Staremo a sentire (a proposito: Radio3 trasmette in diretta venerdi 13).

Sappiamo che Wagner fu un ammiratore entusiasta di Weber e in particolare del Freischütz, nei quali vedeva precisamente il creatore e la creazione di un teatro musicale autenticamente Deutsch... Tale fu la devozione che nel 1844 andò in Albione a riesumare le spoglie del Maestro morto lassù 18 anni prima, onde trasferirle in patria e dar loro una seconda, trionfale sepoltura! E gli rese poi omaggio improntando l’entrata del coro femminile della Wartburg nel Tannhäuser al Vivace con fuoco dell’aria di Agathe del second’atto.

Wagner è sinonimo di Leit-Motive e Weber ne fu certamente un pioniere, in specie con Euryanthe. Qui nel Freischütz c’è invece un piccolo ma significativo esempio di impiego reiterato di un motivo, poco più di un segno, di una traccia, quasi un’impronta che ricompare in momenti e contesti diversi e con diversi accenti: un piccolo tema con variazioni nascosto fra le pieghe di questo capolavoro.

Parto dalla coda, cioè dal terzo atto, e da quella celestiale aria di Agathe Und ob die Wolke sie verhülle, introdotta e poi accompagnata dalla calda melodia del violoncello. Ecco qui:

Le note riquadrate in rosso coprono un intervallo di nona (da dominante a sesta) con ricaduta sulla dominante: una cellula di una bellezza davvero sbudellante. E riappaiono più volte, nello strumento e nella voce, nel corso della cavatina.

Andando a ritroso al primo atto, ecco che ritroviamo quelle cinque note (tonalità a parte) a costituire l’incipit del 
Walzer, n°3, come certificato di seguito:

Certo, mentre con Agathe eravamo in un sognante adagio, qui manca ogni indicazione agogica, così il walzer può essere attaccato con diverso piglio: abbastanza letargico per essere abbordabile da due solerti bambinette allieve di pianoforte nel Baden-Württemberg; oppure come un comodo Ländler dal compaesano Rafael Kubelik; o anche come una rincorsa di bersaglieri (toh!) dietro un indiavolato Carlos Kleiber! Sentiremo poi Chung...

Ma non finisce qui, perchè, con tempo ancora più lesto (Molto vivace) quella cellula era apparsa ancor prima, proprio alla fine del primo coro Victoria, Victoria! (qui Sinopoli a 59”):



Sì, va bene, qui la terzina iniziale è sull’arpeggio di dominante e non di tonica... ma di fatto è la stessa cellula (che appena dopo viene precisamente replicata) degli altri due riferimenti. 

Un discorso a parte merita l’Ouverture, che è una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa. Seguiamola dalla bacchetta del grande Giulini (che diresse l’opera alla Scala nel lontano 1955) qui con la New Philharmonia nel 1970.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada (1’04”) alla seducente melodia dei corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. La mirabile melodia si chiude però (2’39”) in DO minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

A 3’39” compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita (4’09”) dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che (4’48”) i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando da DO minore alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi (4’55”) è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce (5’33”) il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare (6’02”) il truce motivo di Caspar, poi (6’57”) ricomparire Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max (7’38”) e Caspar (7’55”) e poi (8’19”) ancora alla sinistra presenza di Samiel.

A 915 una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata (936) dal motivo di Agathe, ripreso ancora (1011) a chiudere in gloria.
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A parte queste spigolature, si tratta di un’opera che non ha perso la sua carica di vitalità e il fascino che continua ad esercitare sull’ascoltatore. Grazie - a dispetto di un libretto non entusiasmante - alla bellezza e all’ispirazione delle melodie (le arie di Agathe da sole meritano un monumento) che la percorrono da cima a fondo, agli squarci altamente drammatici che la caratterizzano (la gola del lupo...), alla grandiosità dei cori e alla lussureggiante orchestrazione (la scelta dei timbri, in particolare) ancor oggi esempio e riferimento assoluti.

Insomma, la grande musica c’è, quindi ci sono tutte le premesse per potersi godere anche un dignitoso spettacolo.

24 marzo, 2009

In viaggio col cacciatore...

Giorni fa, dovendo fare una trasferta giornaliera di 300Km (all’andata neh, + altrettanti per tornare a casa) ho scelto, come al solito, un CD da infilare nel player per aggiungere un po’ di dilettevole all’utile. La scelta, quel giorno, è caduta su Der Freischütz, due ore e poco più (con tale Birgit Nilsson, non so se mi spiego...)

Di passaggio: chi - non so chi, lo ammetto - ha tradotto in italiano il titolo con “Il franco cacciatore” doveva essere un raffinato davvero. Escluso che franco stia per “francese”, ma nemmeno per “francone” (chè la vicenda si svolge in Boemia) nè certo per “schietto”, o “sincero” (Max non pare proprio un tipo così irreprensibile) nè si può proprio concludere che significhi “bravo”, “preciso”. In realtà è franco nel senso di libero (non incarcerato!) E poi cacciatore non è certo la traduzione letterale di Schütz, che sta per “tiratore” (di doppietta).

Ma non è del titolo che voglio parlare, bensì della musica, natürlisch! Anzi, di un piccolo, quasi microscopico particolare della partitura weberiana.

Allora, ascolto purtroppo con una certa superficialità - bisogna prima di tutto guidare, anzi... frenare, per evitare i postumi rimbrotti del tutor - e così arrivo al terzo atto, e a quella celestiale aria di Agathe “Und ob die Wolke sie verhülle“, introdotta e poi accompagnata dalla calda melodia del violoncello. Ecco qui:

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Le note riquadrate in rosso coprono un intervallo di nona (da dominante a sesta) una cellula di una bellezza davvero sbudellante. E riappaiono più volte, nello strumento e nella voce, nel corso della cavatina.

Chissà perchè, mi ricordano qualcosa, ma al momento non riesco a far mente locale (devo anche badare al tutor, accipicchia!) Così alla sera, tornando a casa (i tutor sono già a nanna... almeno stando ai board, che si limitano a suggerire soste con sconto-caffè) ascolto più attentamente e cosa ti scopro? Che quelle cinque note costituiscono anche l’incipit del walzer, n°3 del primo atto! Come certificato di seguito:
















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Certo, mentre con Agathe eravamo in un sognante adagio, qui siamo in un comodo andante, ma la materia prima è proprio la stessa (tonalità a parte).

Ma non finisce qui, perchè adesso mi rendo conto che, con tempo ancora più lesto (“Molto vivace”) quella cellula era apparsa ancor prima, proprio alla fine del primo coro “Victoria, Victoria!”:


















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Sì, va bene, qui la terzina iniziale è sull’arpeggio di dominante e non di tonica... ma di fatto è la stessa cellula (che difatti appena dopo viene precisamente replicata) degli altri due riferimenti.

Insomma: non è certamente un leit-motiv, almeno in senso stretto wagneriano. Ma è pur sempre un segno, una traccia, quasi un’impronta che ricompare in momenti e contesti diversi e con diversi accenti: un piccolo “tema con variazioni” nascosto fra le pieghe di questo capolavoro.

(oh, ma i tutor erano davvero a nanna? ...dico: in caso, i punti vanno decurtati a Carl Maria, chiaro vero?!)
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