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29 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 2

Riprendo il discorso partendo dal concetto, caro a Roberta Pedrotti, della coerenza in sè dello spettacolo proposto dal regista, che sembrerebbe (almeno così mi pare di interpretare) condizione sufficiente per promuovere un allestimento di opera lirica.

La mia personale convinzione - già anticipata nella puntata precedente - è invece che la coerenza in sè sia condizione necessaria, ma appunto non sufficiente per dare la sufficienza allo spettacolo. E che il proliferare di allestimenti coerenti in sè ma incoerenti con l’oggetto sottostante stia ormai inducendo nello spettatore un tipico fenomeno di dissociazione, qui intesa come separazione in compartimenti stagni (o in piani paralleli) fra la fruizione della componente suoni (testo+musica) e quella della componente immagini (appunto, la scena); ciascuna delle quali viene fruita (e quindi giudicata) di per sè, e non all’interno di un insieme organico, così come concepito dall’Autore (o Autori) nel quale le due componenti si compenetrano necessariamente per creare un oggetto di forma compiuta.

Pensiamo a ciò che accade ad uno spettatore che assiste per la prima volta ad un’opera della quale non ha alcuna (o ha solo superficiale) conoscenza; magari presentata in una lingua a lui sconosciuta, quindi di non immediata decifrazione. Quali saranno le sue reazioni? Egli naturalmente tenderà a dissociare i due piani: cioè apprezzerà (se apprezzabili secondo i suoi gusti) i suoni che raggiungono le sue orecchie; e separatamente apprezzerà (se apprezzabile secondo il suo gusto) ciò che raggiunge i suoi occhi. Anche volendo, gli sarebbe oggettivamente difficile cogliere, e men che meno giudicare, la coerenza fra i due piani.

Ecco, l’atteggiamento che in quello spettatore ignorante è un fenomeno riflesso, cioè non cosciente, conseguenza naturale della sua stessa ignoranza, e quindi pienamente comprensibile e perfino giustificabile, nello spettatore informato ed esperto rischia sempre più spesso di diventare l’approccio cosciente alla fruizione dello spettacolo. Che viene giudicato separatamente nelle sue due componenti, e non nella sua organica totalità. Così si spiegano giudizi positivi (a volte trionfalistici) di allestimenti che hanno soddisfatto (separatamente) l’orecchio e l’occhio dello spettatore, anche quando invece mancano in tutto o in parte l’obiettivo della coerenza fra le due componenti dello spettacolo.

Naturalmente questa incoerenza non è mai casuale, ma è sempre determinata da una precisa e programmatica scelta (il Konzept, come lo si definisce in Germania, patria del Regietheater) del responsabile dell’allestimento: il regista. Ruolo che ha assunto via via sempre maggior importanza (e visibilità) proprio perchè, evolvendosi, ha ampliato a dismisura il suo raggio d’azione: da puro portatore in scena (interprete) di un oggetto dato, a decifratore (lo scavo cui allude Pedrotti) di aspetti nascosti nell’oggetto originale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici: si va dalla constatazione della pochezza o della totale inattualità dei testi (i libretti) delle opere da mettere in scena (questo si applica per lo più al melodramma ottocentesco); alla pretesa di estrarre dal soggetto originale, per farli assurgere a pilastri della proposta teatrale, aspetti più o meno importanti o anche marginali che possano però far emergere chiari riferimenti all’attualità politica, sociale, filosofica, religiosa, estetica (ne sono esempio le tante interpretazioni del Ring wagneriano); alla tecnica consistente nel de-strutturare il soggetto originale per poi impiegarne alcune componenti per ricostruirne un altro con caratteristiche diverse se non addirittura contrastanti con quelle dell’originale medesimo. All’uopo, nel tempo la figura del regista è stata affiancata da quella del Dramaturg (uso il termine crucco) responsabile di suggerire al regista potenziali aspetti nascosti nel testo e meritevoli di essere valorizzati e messi in primo piano.

Insomma, il rispetto del testo originale (sul quale, non andrebbe mai dimenticato, è stata composta la musica) è diventato quasi un optional, il che può trovare consenziente qualche spettatore preparato, magari sempre in cerca di nuovi... stimoli purchessia, quando assiste per l’ennesima volta alla messinscena di un titolo conosciuto a menadito; ma che rischia di diventare deleterio proprio per lo spettatore naif o neofita, indotto a fare una conoscenza distorta dell’opera cui ha assistito.

Oggi la stessa critica musicale (e mi pare che la Pedrotti condivida) ha accettato come dato di fatto questa situazione, tanto da proporre una categorizzazione degli allestimenti di opere: fra quelli che raccontano la storia originale e quelli che raccontano un’altra storia. Attribuendo quindi piena legittimità anche ai secondi, purchè siano per l’appunto coerenti in sè.

Naturalmente qui non parlo di storia come di pura trama, ma come di sostrato concettuale dell’opera e - più in dettaglio - di natura di ambienti, personaggi e azioni che ne costituiscono il corpo.

Comincio a far qualche esempio per non cadere nel pedantesco. Oltre a Michieletto, propongo Graham Vick che, insieme al regista veneto, è uno dei beniamini di Roberta Pedrotti, che lo cita più volte nel suo saggio.

Di cosa tratta Un ballo in maschera? Della prosaica storia di un personaggio importante che si fa trascinare dalla sua esuberanza e finisce male. Il protagonista è un’altissima autorità (il Re di Svezia, nientemeno, all’origine... poi diventato un Governatore di Sua Maestà Britannica, per ragioni di censura) al quale l’infatuazione adultera per la moglie del suo fedelissimo plenipotenziario e l’eccesso di trasporto verso il suo popolo giocano un brutto scherzo, che lo porta a lasciarci le penne. Che l’ambientazione sia nella Svezia del testo originale, o nel Massachusetts di un secolo addietro come nel libretto verdiano, fa assai poca differenza, poichè i due macro-socio-e-psico scenari si assomigliano assai (un sovrano e un’emanazione di un sovrano che vivono la stessa vicenda).

Damiano Michieletto (2013) mette in scena l’opera alla Scala. La ambienta nel Massachusetts, precisamente come da copione. Poi però, nel lodevole intento di rendere il soggetto attuale, cioè più immediatamente vicino alla nostra contemporaneità, sposta i tempi dell’azione al giorno d’oggi, durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore dello Stato. Ahi ahi, qui cominciano i guai, poichè la storia di un Governatore che si deve far rieleggere al termine di una campagna elettorale - dove stratagemmi e colpi bassi fra i candidati si sprecano - sta precisamente agli antipodi di quella del testo originale, dove Riccardo ha un’investitura che gli viene dall’alto, non da una maggioranza (anzi minoranza, in termini assoluti) della popolazione: non sto a tediarvi oltre - salvo che proprio non lo vogliate - sulle mille e sostanziali differenze (a livello sociale, psicologico, comportamentale) fra i due scenari. In sostanza, qui si racconta - e assai bene, per carità - un’altra storia, coerente in sè. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?


Questo esempio è catalogabile sotto la casistica attualizzazione del soggetto originale. In sostanza il regista intende far sì che l’opera parli a noi del terzo millennio, e non ai nostri trisavoli di metà ‘800. Ora, si può concedere che i tempi cambino, che l’approccio dello spettatore si evolva, che freni censori e inibitori siano via via caduti, rendendo possibile oggi raccontare verità che 150 o più anni fa erano tabù e potevano essere trasmesse soltanto previo camuffamento e senza fare espliciti riferimenti all’attualità (di quei tempi). Ma credo francamente che questo atteggiamento (del regista moderno) faccia un torto all’intelligenza di autori e pubblico, sia quello dell’epoca di creazione delle opere che quello attuale.

Ammesso infatti che l’intento di Verdi fosse quello di mandare al pubblico messaggi, per così dire, di natura socio-politica o di costume, e che fosse costretto, dalle usanze e dalle censure di allora, a farlo ricorrendo a soggetti ambientati in altri tempi (al passato, tipicamente) e non immersi nell’attualità, potremmo spiegare il successo dell’opera solo in due modi: a) essa era così immediatamente e superficialmente coinvolgente tanto da essere apprezzata anche senza essere capita dal vasto pubblico; ma allora non si vede perchè ciò non possa funzionare anche oggi (della serie: prima la musica...); b) il camuffamento funzionava perfettamente, essendo il pubblico abbastanza intelligente da individuare il messaggio dietro l’inattualità della presentazione; il che ci farebbe concludere che i nostri trisavoli fossero assai più scafati di noi, se noi abbiamo bisogno del regista attualizzatore per decifrare il messaggio che si cela dietro l’inattualità del soggetto!

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Vengo ora al Mosè in Egitto. Opera su soggetto biblico: alle vicende narrate nel Vecchio Testamento il librettista Tottola aggiunse solo la trama amorosa Osiride-Elcia (speculare alla futura Ismaele-Fenena di Verdi) per necessità squisitamente melodrammatiche (altrimenti tenore e soprano dovevano fare davvero quaresima) ma anche drammaturgiche (giustificare le richieste di Osiride al padre per trattenere gli ebrei). Andrebbe sempre ricordato che l’opera fu espressamente composta per la Stagione di Quaresima nella Napoli del 1818: quindi programmaticamente a sfondo religioso e a scopo di meditazione e raccoglimento; politica? ideologia? nulla di tutto ciò, ed è precisamente la musica a stabilirlo.

Graham Vick (2011) mette in scena l’opera al ROF. La ambienta nel Medioriente del ‘900, mostrandoci gli ebrei compiere azioni terroristiche in serie (le piaghe che Dio manda sull’Egitto) per conquistare la libertà. È quindi la storia - fedele come un documentario giornalistico - della nascita dello Stato d’Israele, con gli attentati al King David, la strage a Deir Yassin, e con Mosè (sembra BinLaden, ma è in realtà Jabotinsky) che canta Dal tuo stellato soglio imbracciando un Kalashnikov; e giù giù fino ai giorni nostri. Proposta assolutamente coerente in sè, e realizzata con la proverbiale maestria del regista albionico. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

Qui siamo in presenza di una diversa, e assai più ardita (io aggiungo: subdola) forma di attualizzazione: si prende spunto dal soggetto originale (la vicenda biblica del popolo ebraico che cerca di sfuggire alla cattività egiziana - con continui riferimenti a fatti miracolosi) per presentare, impiegando testo e musica di Rossini, vicende delle quali noi siamo stati testimoni, avvenute più di un secolo dopo la creazione dell’opera e caratterizzate da fatti tutt’altro che miracolosi. Il risultato è che la colonna sonora (Rossini si deve rassegnare) sia del tutto inadeguata a supportare lo spettacolo...

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La donna del lago. Romanzo storico, Walter Scott, una donna che si serba fedele al suo innamorato di modeste origini, resistendo faticosamente alla tentazione di accettare le profferte di un altro sincero innamorato, uno sconosciuto che alla fine si scopre essere nientemeno che... il Re. Il lieto fine, arrivato dopo innumerevoli peripezie, certo non deve far pensare ad un racconto di Harmony, ma è ciò che il testo racconta.

Damiano Michieletto (2016) la mette in scena, ancora al ROF. E inventa letteralmente un’altra storia, immaginando ciò che avviene dopo il lieto-fine. Rivisitando quindi l’intera vicenda con il senno di poi, rappresentato dalla presenza quasi costante in scena dei due personaggi uniti in matrimonio nel lieto-fine dell’opera, ma con sulle spalle 20 anni in più e le esperienze del matrimonio. E siccome è matematico che anche le unioni più stabili incontrino nel tempo crisi e ripensamenti, ecco che tutta la vicenda oggetto del testo originale viene inquinata dalle ombre che arrivano dal futuro (!) Anche qui: lo spettacolo è ben curato, a parte qualche... imitazione; e soprattutto è coerente in sè. Ma torna, impietosa, la domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

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Ecco ora Semiramide. Pochi dubbi che il cuore dell’opera sia, toh, Semiramide! In caso contrario Rossi (e Rossini, convinto da lui) avrebbe titolato: Arsace, ovvero la vendetta di Ninia... o qualcosa di simile. La sbifida regina di Babilonia (su di lei e sui suoi liberi costumi sono scorsi fiumi d’inchiostro) è il personaggio chiave dell’opera e ideale per chi voglia occuparsi - anche nel teatro musicale - di casi clinici da affidare alle cure di Freud o di... Basaglia. Rossini ovviamente ci mette le sue note a corredo, il che rende immortale un testo (Rossi non ce ne voglia) che avrebbe avuto di suo morte prematura.

Graham Vick vi si cimenta al ROF del 2019. Chi è il protagonista, secondo lui? Mica certo Semiramide (buoni tutti...) No no, è appunto Arsace, quello della vendetta di Ninia, che Vick mette al centro del suo Konzept, lui e la sua vendetta. Vendetta che prende quindi il posto della sacrosanta giustizia divina, della quale nel testo di Rossi si fa tramite il talebano Oroe. Spettacolo ovviamente coinvolgente, dato il mestiere del regista. A costo di essere molesto, chiedo: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

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Non c’è bisogno, credo, di precisare che gli esempi di cui sopra sono, appunto, esempi, che ho tratto da un insieme ben più ampio di produzioni dei due registi citati. E non mi sogno certo di generalizzare all’insieme ciò che si applica ad una parte (piccola o grande che sia) delle loro produzioni, come di quelle di ogni altro regista in circolazione. Di Michieletto mi limito a citare, come prove a discarico, la sua Scala di seta (ROF) e le sue Nozze di Figaro (Fenice). Di Vick il recente Die tote Stadt (Scala), la Bolena a Firenze e l’ormai storico Moïse al ROF.

Dovessimo esaminare tutte le produzioni di Carsen, Guth, Herheim, DeAna, Loy, Bondi, Bieito, McVicar, Martone e così via troveremmo cose buone e meno buone. É su quelle meno buone (anche se magari tutte coerenti in sè) che mi sento di eccepire, per le ragioni addotte. E infine ribadisco la mia impressione: che la crescente enfasi posta sulla messinscena induca sempre più lo spettatore (ma anche il critico) a giudicare separatamente ciò che arriva all’occhio da ciò che arriva all’orecchio, dando troppo spesso peso prevalente alla prima componente e mettendo in secondo piano la coerenza con la seconda.

Ciascuno a questo punto può giudicare se il fenomeno sia da guardare di buon occhio, come un progresso della civiltà, o invece da considerarsi regressivo (della serie O tempora, o mores...) 

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(2. fine)

18 agosto, 2019

ROF-XL live: Semiramide, ovvero: Vick in galera!


Eccomi quindi a commentare la (terza recita di) Semiramide, in una Vitrifrigo-Arena con diverse poltrone vuote.

Ascoltare uno dei più grandi monumenti musicali di ogni tempo più che discretamente eseguito da Direttore, Orchestra e Voci, ma rappresentato in scena come un esercizio da oratorio parrocchiale non è proprio il massimo... ma si sa, i Festival son fatti per stupire e scandalizzare (o almeno così dice la vulgata). Quindi take-it-easy e ridiamoci sopra!

Testuali parole di Vick: Nel 2019 mi pare imbarazzante fare l'imitazione di un uomo interpretato da una donna, magari con le gambe aperte. È una convenzione tramontata.

Ah davvero? A parte il fatto che il nostro mondo del 2019 (e la tendenza è a crescere...) è pieno di travestiti nobili e proletari, ricchi e poveri, e di gente che cerca la loro compagnia, dall’imbambagiato in Ferrari Lapo Elkann al più sfigato dei derelitti, e quindi non si vede cosa ci sarebbe di imbarazzante in tutto ciò... il problema, caro il mio Graham, è di una semplicità disarmante: It’s the music, stupid!

Tu, caro Grahm, sarai anche un grande uomo di teatro (nessuno te lo nega) ma di MUSICA  capisci poco o nulla, o meglio, temo io, tu la musica - questa, per lo meno - la disprezzi! Come hai fatto, sempre qui a Pesaro nel 2011, impiegando quella del Mosè per rifilarci la storia della nascita dello Stato di Israele (Mosè=Jabotinski!) e nel 2013 travisando completamente l’estetica del Tell, ridotto a strumento di propaganda politico-ideologica di bassa lega.   

E quindi - tanto per limitarci a Rossini - immagino che sarai ben lieto in futuro di farci conoscere (basta che ti appaltino, a fronte di laute parcelle pagate da NOI, la regìa delle rispettive opere) anche l’eroina Tancreda, la regina Cira di Babilonia, la regina sfigata Sigismonda, la Pippa della Gazza ladra... e mi fermo qui per non coprire di ridicolo un’altra mezza dozzina di straordinari protagonisti en-travesti di opere del Gioachino. Che per te era evidentemente un depravato sessuale il quale, rimasto a secco con i poveri castrati, rivolse le sue morbose attenzioni ad altri esemplari targati LGBT...  Ascpide! L’idea che la scelta delle voci cui affidare i caratteri dei personaggi fosse per Rossini di natura squisitamente estetica non ti sfiora nemmeno, vero? Oppure, dato che l’estetica può cambiare - e cambia - nel tempo, ecco che tu ti permetti allegramente di adulterare l’opera originale per adattarla ad una presunta estetica di oggi! Quindi metti un piercing alla Gioconda e il tanga alla Primavera! Apperò! La tua Semiramide si trasforma nella storia in una catena lesbica: Semiramide-Arsace e Arsace-Azema. Geniale!
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Ma Arsace femmina è solo la punta dell’iceberg del colossale travisamento del soggetto perpetrato dal regista albionico che - forse per ammortizzare i costi delle sue fatiche - deve aver trattato Semiramide come corollario della Tote Stadt da lui recentemente inscenata alla Scala: tutta Freud, complessi edipici, visioni oniriche, isterie, allucinazioni (ma là ci stava bene, trovandosi precisamente nel libretto, prima che nella musica!) Il tutto in una strampalata ambientazione moderna, altro che la sontuosa e sfarzosa Babilonia! E dove il tragico, il magico e il soprannaturale - non si è sempre detto che con Semiramide Rossini abbandonò il suo innivativo modello di opera seria sperimentato a Napoli per tornare al tardo-barocco? - cedono il posto alla più ritrita riproposizione freudiana di turbe psichiche ingenerate in un infante, per il resto alle prese con orsacchiotti e gessetti: questo per spiegarci una... belinata, cioè come Arsace sia stato testimone oculare dell’omicidio del padre (azione oltretutto cruenta, come mostra il coltellaccio che lui pargoletto vede nelle mani insanguinate della madre!) e come quel ricordo continui ad emergere dal suo subconscio. Auto-imprestito, si dovrebbe dire (visto che siamo da Rossini): avendo Vick copiato se stesso, vedi l’Arnold del suo Tell che guarda i filmetti dell’infanzia. Così Arsace diventa ossessionato dal desiderio di vendicare la madre, cosa che finalmente gli riuscirà: e lo farà in piena luce, avendola ben visibilmente a tiro, non certo per sbaglio (mano divina) e nella completa oscurità del mausoleo di Nino.

In poche parole: una storia inventata di sana pianta, che contraddice alla grande il testo di Rossi (dove Arsace fino all’ultimo rifiuta ritorsioni sulla madre per rivolgere la sua sete di vendetta esclusivamente su Assur) e - soprattutto - la MUSICA di Rossini, che a quel testo e a quel soggetto si è mirabilmente ispirata. Se a Rossini fosse stata mostrata la messinscena di Vick, ammesso che non fosse scoppiato a ridere ed avesse acconsentito a musicarla, vi avrebbe composto musica totalmente diversa da quella che scrisse per la tragedia di Rossi, mutuata da Voltaire, se ne può star certi.

Oh, in certi momenti Vick è però rispettosissimo del libretto, come quando, nel drammatico confronto fra Semiramide e Assur del second’atto (da lui peraltro trasformato in una scena-di-petting-sul-divano da filmetto osé) ci mostra lei che, cantando La forza primiera ripiglia il mio core, Regina e guerriera punirti saprò, afferra e strizza ben bene i... coglioni di Assur! Quale poesia, quanta profondità di scavo psicologico...

Insomma, non saprei se definire questo spettacolo come irridente o irrispettoso, dissacrante o provocatorio, o semplicemente... una sciocchezza.   
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Beh, chiuso il discorso sulla carnevalata, veniamo alle cose serie, e per fortuna ad aspetti che giustificano (alle mie orecchie, per lo meno, visto che gli occhi sono stati... torturati) la spesa del biglietto. Mariotti si conferma ormai solido interprete di queste impervie partiture rossiniane, guidando la OSN-RAI con il suo proverbiale (quanto abbadiano) gesto della mano sinistra a dettare attacchi e sfumature. Cosa che fa anche con le voci, quasi sempre rispettate (cioè non coperte da fracassi orchestrali) e in particolare con i cori, che qui hanno un ruolo da protagonisti. E il Coro di Giovannni Farina si è da parte sua distinto in tutte le diverse apparizioni e configurazioni, meritandosi un lungo applauso alla riapertura del sipario dopo la fine dell’opera.

La voce che mi ha più impressionato è stata quella di Carlo Cigni (Oroe): grande potenza e profondità, ha piacevolmente invaso gli spazi dell’Arena, caratterizzando al meglio il personaggio del santone talebano che pilota tutta la vicenda, fino al suo tragico epilogo.

La diffusione radiofonica tende ad appiattire tutto, ed anche in questo caso è stato così: voci che dall’etere parevano corpose, dal vivo si rivelano assai meno penetranti. Così è stato per Nahuel Di Pierro, oltretutto esibitosi in alcuni schiamazzi molesti. Nel duetto del primo atto con Arsace, forse temendo di calare, ha invece stonato parecchio per eccesso, con acuti francamente sgradevoli. A lui darò una sufficienza risicata.

Salome Jicia è pure rimasta un filino al di sotto rispetto a quanto udito per radio alla prima: una prestazione onorevole la sua, ma inquinata da alcuni acuti sparati alla sperindio e da un paio di virtuosismi piuttosto approssimativi.

Meglio di lei Varduhi Abrahamyan, la cui voce dal vivo mi è apparsa meno penetrante, ma sempre ben impostata e senza sbavature. Si notano comunque progressi evidenti rispetto al suo esordio di qualche anno fa, quando vestì i panni di Malcom: segno che il mezzosoprano armeno non sta dormendo sugli allori...

Il trionfatore della serata è stato curiosamente... l’intruso (parlando di soggetto letterario): l’Idreno di Antonino Siragusa, che rivaleggia, anche per vetustà di presenza al ROF) con il leggendario JDF. Ha sciorinato le sue due arie con grande sicurezza, ricevendo lunghe ovazioni a scena aperta. La sfilza di DO, RE e DO# acuti (scritti dal signor Rossini o dalla signora... tradizione) gli è uscita alla grande, sia pur non senza evidenti sforzi.

Su discreti standard gli altri interpreti, che metterei in quest’ordine di merito (anche rispetto alla consistenza delle parti): Alessandro Luciano, Sergey Artamonov e Martiniana Antonie.

Per tutti accoglienza assai calorosa, con punte trionfali per Siragusa e Mariotti. Vick... non pervenuto.

30 maggio, 2019

Il trionfo di Korngold alla Scala


Rieccomi qua, dopo sanitaria sosta, a commentare questa strepitosa Die tote Stadt, finalmente (è bastato aspettare un secolo, ecché ‘ssarà mai...) comparsa sulle tavole del Piermarini.

Note tecnico/musicali: a) contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro fino a poche ore dall’inizio della prima, l’opera è stata presentata nella sua struttura originaria, quindi con entrambi gli intervalli fra i tre quadri; b) sempre contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro, il ruolo (secondario?) di Brigitta passa da una brasilera (Kismara Pessatti) ad una rumena (Cristina Damian).

Già detto nel telegrafico intervento di ieri notte di un teatro con ampi spazi vuoti, colpa del secolo d’età di un’opera finita nel dimenticatoio (e conseguente disinteresse - per ignoranza - del vasto pubblico) o della teoria di Pereira sul ritardo dell’allineamento della domanda all’offerta? O di entrambe le cause? Fatto sta che lo spettacolo visto martedi, se non passerà proprio alla storia (mai esagerare con gli epinicii...) di certo resta - parere mio personale - una delle migliori produzioni degli ultimi tempi. E forse qualcosa di più delle pur lodevoli iniziative del Teatro - conferenza e tavola rotonda - andava fatto per promuoverlo.
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Alan Gilbert ha saputo mettere in risalto le diverse qualità della musica, che ha richiami tardoromantici, ammiccamenti da operetta e tratti espressionisti, ma sempre impiegati con appropriatezza e mai lasciati al caso o destinati al puro effetto. L’Orchestra si è evidentemente ritrovata con questa musica, non facile sicuramente da eseguire, ma certamente stimolante per gli esecutori, oltre che per gli spettatori. Da incorniciare i diversi passaggi sinfonici, come il finale primo (il turbamento psichico di Paul e l’apparizione di Marie); l’attacco del secondo quadro (la spettrale Bruges nella quale il protagonista si inoltra); la processione religiosa (che si trasforma in marcia minacciosa e spaventevole); e l’introduzione al terzo quadro, che evoca la notte tumultuosa passata a letto da Paul e Marietta, costellata di... orgasmi! Ma splendidamente resi anche gli afflati più lirici (l’aria del liuto e il Lied di Pierrot) che richiedono delicatezza e raffinatezza di supporto alle voci, senza però scadere in toni eccessivamente operettistici. Insomma un Direttore e un’Orchestra che, in perfetta unità d’intenti, hanno saputo deliziarci con questo coloratissimo caleidoscopio sonoro di Korngold.       

Il Coro di Casoni è impegnato in modo non proibitivo (nel terzo Quadro) e ha fatto benissimo la sua parte. Meglio ancora i piccoli dell’Accademia, perfetti nella scena della processione.

Klaus Florian Vogt è un convincente Paul: la sua vocina è timbricamente perfetta (per me) per caratterizzare questo personaggio-bambino, pieno di complessi e ossessioni. Se in ruoli (pur da lui ricoperti) come Lohengrin, per dire, può sembrare eccessivamente efebico (un Kind-Heldentenor) qui invece rende alla perfezione tutte le turbe mentali che portano Paul ad auto-imprigionarsi nel suo sacrario psicologico, prima ancora che materiale. E passa benissimo dall’assurda euforia iniziale (per il creduto ritrovamento della moglie) alla tremenda dissociazione che la sua psiche subisce (quadro secondo, al momento di assistere alla demoniaca - meyerbeeriana - resurrezione di Marie e di cedere infine a Marietta) all’inferno che invade la sua mente al passaggio della processione-marcia; per finire all’ebete rassegnazione conclusiva, sottolineata musicalmente dalla riapparizione sì della dolcissima canzone del liuto, ma ora a supportare un’amara constatazione: nella vita non c’è resurrezione.  

Marietta (+Marie) è Asmik Grigorian, che si sdoppia benissimo nei due personaggi: quello, limitato nel tempo ma fondamentale, dell’apparizione della moglie defunta e quello ben più esteso della sua pretesa reincarnazione, con tutt’altra personalità. Eccellente la sua performance - con i soci della compagnia teatrale - nel secondo Quadro, dove si è distinta anche per qualità e doti di danzatrice-soubrette. Insomma, una Marietta perfetta nel canto ma anche nella... professione. Per sorridere un po’, mi domando con quale credibilità avrebbe potuto ricoprire questo ruolo una Cerquetti (! ho fatto volutamente un riferimento fuori dall’attualità.)

Anche Markus Werba incarna (come originariamente previsto da Korngold, ma forse anche per ragioni di... spending review) due personaggi. E lui lo fa con la grande professionalità che lo contraddistingue, porgendoci il serioso e quasi pedante Frank (che nella sezione onirica si trasforma però in uno sbifido quanto falso traditore di amici) intercalato dal romantico e patetico Fritz, nell’aria del quale ha modo di mettere in luce tutta la sua vena lirica e quasi belcantista.   

La 42enne Cristina Damian ha sostituito quasi all’ultimo momento la brasilera Kismara Pessatti nei panni di Brigitta, questa anziana badante un po’ bigotta ma assai premurosa. Il mezzosoprano rumeno la interpreta con garbo e discrezione, mostrando voce ben impostata in tutti i registri, anche se non proprio superdotata di decibel.

Da elogiare gli altri quattro interpreti, gli accademici Marika Spadafino, Daria Cherniy e Sergei Ababkin e lo sdoppiato Sascha Emanuel Kramer.
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Vengo ora allo spettacolo, firmato da Graham Vick.

Il soggetto non si presta molto a interpretazioni di carattere ideologico (dove il nostro spesso si lascia prendere troppo la mano dalle sue convinzioni leftist) tuttavia il regista albionico non rinuncia ad inventare anche qui qualcosa di estraneo al libretto e dal sapore politico. Si tratta dell’interpretazione data alla processione e poi soprattutto alla bestiale marcia che occupa la seconda scena del quadro conclusivo, dove vediamo chiarissimi quanto gratuiti riferimenti a nazismo e Shoah: chierichetti fra i quali si mischiano ragazzini della Hitlerjugend (i balilla nazi) e scene di deportazione di ebrei. Fatti che certo Korngold non poteva minimamente divinare nel 1920 quando compose l’opera. Tuttavia mi sento di perdonare volentieri a Vick questa libertà, per due precise ragioni: a) questi riferimenti non intaccano, nè tantomeno sovvertono la drammaturgia originale dell’opera, sono in effetti delle materializzazioni (postume, rispetto ai tempi) di orrori che invadono la mente di Paul, quindi del tutto plausibili; b) si tratta di riferimenti che con Korngold hanno a che fare assai, visto che una quindicina d’anni dopo la composizione dell’opera il nostro fu costretto letteralmente a cambiare vita - materiale ed artistica - proprio a causa dell’avvento di ciò che Vick ci mostra in scena.

Per il resto il regista sfodera tutta la sapienza e maestrìa del consumato uomo di teatro che è. Ben supportato dal suo team - Stuart Nunn per scene e costumi, Giuseppe Di Iorio alle luci e Ron Howell per le coreografie - non ci lascia sfuggire nulla di ciò che il libretto racconta (testo e didascalie).

Geniale per efficacia è la scelta di mantenere l’ambientazione scenica di fondo sempre la stessa, nel tre quadri dell’opera: siamo nel sacrario che Paul ha apprestato in casa sua per ricordare la moglie Marie. Nel secondo e terzo quadro il tendaggio bianco sul fondo si solleverà per far entrare nel sacrario tutti gli elementi dissacranti che compaiono nel sogno di Paul: la Bruges bigotta, le beghine con Brigitta, il Frank traditore, la scanzonata e irriverente compagnia di Mariette, la processione-marcia. Ma son tutte visioni che fanno parte del sogno di Paul, quindi è giusto che si mostrino proprio in quello stesso ambiente dove il poveraccio passa le sue giornate a macerarsi nei ricordi. Detto di passaggio: questa scelta di scenografia raggiunge anche lo scopo - non secondario - di evitare allo spettatore (quando non adeguatamente preparato) di fraintendere tutto quanto avviene in scena nel secondo quadro, pensando si tratti di accadimenti reali e non di immagini oniriche che popolano la psiche di Paul.  

L’ambientazione temporale è - per i costumi - vicina agli anni di composizione dell’opera, mentre è a noi contemporanea quanto alle suppellettili del sacrario (divanetto con struttura metallica; maxi-schermo al plasma a sorreggere il quadro con l’immagine di Marie, che vedremo solo alla fine del primo quadro, al momento dell’apparizione; un inginocchiatoio e soprattutto una teca con le reliquie di Marie, fra cui la famigerata treccia di capelli dorati). C’è poi in scena un elemento assai importante: una stilizzata porta (solo lo scheletro, di plastica trasparente) profilata da neon bianchi e lampadine colorate, che rimane in permanenza in primo piano, sulla sinistra del palcoscenico, e che saltuariamente si sposta di poco, ruotando su una piccola piattaforma circolare. Cosa ci rappresenta? Mah, a parte il significato elementare di ingresso al sacrario, può essere interpretata come il punto di passaggio dalla vita reale (che sta al di qua, verso il pubblico) e la vita virtuale e poi onirica che vive il povero Paul. Il quale, ad esempio, nel terzo quadro vi si affaccia per seguire la processione; oppure attraverso la quale - nel secondo quadro - battibecca con l’immagine del Frank traditore.

Ma come non ammirare la raffinata gestione dei movimenti dei personaggi in scena. Qui faccio solo pochi cenni: alla fine della canzone del liuto, nel primo quadro, Paul e Marietta si trovano seduti per terra, con le schiene appoggiate alle estremità del divanetto; ecco, mentre l’orchestra esala le 10 mirabili battute in SIb della cadenza, la mano sinistra di Paul e la destra di Mariette, palme appoggiate al pavimento, traslano lentamente fino ad incontrarsi... un momento di estasi davvero indimenticabile, un esempio di come valorizzare al massimo grado una frase musicale! E poi tutta la scena dei commedianti del secondo quadro è gestita in modo superlativo, fino a trasformare quasi in poesia anche alcune esternazioni dove sarebbe facilissimo sconfinare nella volgarità. Memorabile, come detto, la scena della processione-marcia, che restituisce tutta la drammaticità dell’autentico incubo che invade la mente di Paul, con povera gente che in nome di dio viene maltrattata e deportata. Impressionante (e Kitsch, sì, ma proprio quanto la musica!) la comparsa del gigantesco e sovrastante teschio che alla fine prende fuoco.

Efficacissima infine la conclusione: dopo che tutte le suppellettili del sacrario sono state rimosse e portate via, la scena si svuota e Paul, chiusa la canzone del liuto con le parole Hier gibt es kein Auferstehen, sulle 11 (apparentemente?) eteree battute cadenzanti dell’orchestra si avvia a testa bassa e con atteggiamento sconsolato verso il fondo del palcoscenico. Immagine assolutamente emblematica dell’ambiguità della soluzione del dramma.

29 maggio, 2019

Una splendida città morta finalmente al Piermarini


Quasi a festeggiare l’imminente centenario della comparsa dell’opera sulle scene (1920) la Scala ospita quest’anno per la prima volta in assoluto Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold. Ieri sera è andata in onda la prima delle sette rappresentazioni in cartellone, in un teatro ancora con evidenti vuoti (anche le gallerie non proprio stipate): lunedi pomeriggio, alla presentazione della nuova stagione agli abbonati, Pereira ha cercato di spiegare il fenomeno come conseguenza dei suoi sforzi per aumentare l’offerta di spettacoli, al quale aumento evidentemente la domanda si starebbe allineando con ritardo (fenomeno che gli esperti chiamano isteresi); parrebbe di capire che gli spettatori totali crescano, ma - per ora almeno - non quanto l’aumento dei posti disponibili... Beh, se lo dice Pereira magari sarà così, chissà.

Dunque, finalmente Korngold è arrivato anche da noi, e devo dire che se lo meritava proprio e che aver atteso quasi il centenario per accoglierlo in Scala sa di scandalo, proprio come la scarsa partecipazione del pubblico.

Mentre invece va dato merito a Direttore, Cast e Regista di aver confezionato uno spettacolo di altissimo livello, valorizzando al massimo le qualità dell’Opera, sul piano strettamente musicale ma anche su quello drammaturgico.

Alla fine il pur scarso pubblico ha tributato a tutti un autentico trionfo. Personalmente ho pochi dubbi che si sia trattato del miglior spettacolo offerto dalla Scala in questa stagione.

Seguirà - dopo un forzato time-out - qualche commento più circostanziato.

21 maggio, 2019

Freud a Brugge: Die tote Stadt alla Scala


Fra pochi giorni al Piermarini andrà in scena la prima di Die tote Stadt, opera del 1920, uscita dalla penna di un 24enne di origine morava trapiantato a Vienna, Erich Wolfgang Korngold. Opera rimasta quasi unica nella produzione di quel ragazzo-prodigio (ammirato persino da Puccini, Mahler, Strauss...) anche a causa delle dolorose vicissitudini cui il compositore andò incontro a seguito dell’ascesa al potere di tale Hitler. Il che lo obbligò ad espatriare e a stabilirsi in USA, dove peraltro trovò l’america, come si suol dire, facendo fortuna e ricchezze in quel di Hollywood, dove divenne il pioniere delle grandi colonne sonore dei film colà prodotti. Dopo la fine della WWII tornò alla musica colta, con il (relativamente) famoso Concerto per violino e una meno famosa Sinfonia.

Visto con il senno di poi, a noi oggi pare quasi scontato che quel fenomeno - innescato da Liszt e portato a dimensioni quantitative e qualitative eccelse da Strauss - che va sotto il nome improprio di musica descrittiva, finisse per contagiare inevitabilmente il mondo del cinema, che di colonne sonore aveva bisogno come dell’aria. E così il buon Korngold, imbevuto di massicce dosi di Liszt e Strauss in salsa wagneriana, e con l’aggiunta di spruzzatine di Mahler e Lehar su moderate dosi di Debussy e di espressionismo à-la-Berg, divenne in breve il re di quel nuovo business.               

A prima vista anche l’opera che si va a rappresentare, pur di una quindicina d’anni anteriore al periodo americano, presenta già qualche tratto caratteristico della musica-da-film, come si può constatare fin dalle prime battute, con suoni che ci sembrano uscire dagli altoparlanti di una sala cinematografica dove si proietta una pellicola con Errol Flynn! Ma sarebbe ingeneroso non riconoscere a Korngold straordinarie doti creative e capacità come pochi di padroneggiare la tecnica di manipolazione dei motivi musicali al servizio del dramma.     
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Due parole sul soggetto, che poggia su un libretto scritto dallo stesso compositore, con la guida del padre - il famoso critico musicale Julius - a partire da testi preesistenti (essenzialmente Le mirage e Bruges-la-Mort di Georges Rodenbach). La città morta è Bruges (Brugge per i fiamminghi) dove si dipana il dramma di Paul, vedovo inconsolabile che fa della sua casa in quella cittadina decaduta un autentico sacrario per la moglie Marie, con tanto di ritratti, oggetti di abbigliamento e persino una lunga treccia bionda conservati come reliquie.  

Un bel giorno Paul incontra per caso Mariette, un’estroversa danzatrice di una compagnia itinerante che pare la copia-carbone della moglie defunta: se ne innamora come se quella fosse la reincarnazione della povera Marie, la invita nella sua casa-cappella, ma deve constatare che invece Mariette ha una personalità agli antipodi rispetto a quella della sua Marie. Così la sua psiche deraglia e, quando Mariette - dopo una notte d’amore di sesso con lui - deturpa deliberatamente l’immagine di Marie, Paul sbrocca e strangola la ballerina.

Finito qui, come nei riferimenti letterari originali? No no, qui c’è addirittura il lieto-fine, o perlomeno un’ambigua morale-della-favola, sospesa fra il rassegnato e il consolante. Perchè scopriamo che tutta la tragica vicenda che ha portato allo strangolamento di Mariette altro non è stato che un sogno di Paul: Mariette è viva e vegeta e se ne torna alla sua compagnia, e Paul - grazie al sogno - si può infine capacitare che la vita può continuare (mah, sarà poi così?) senza rimanere schiavi del passato nè delle futili illusioni del presente.

Abbiamo quindi scoperto una caratteristica peculiare della struttura dell’opera: che mescola un tempo reale con un tempo onirico, proprio come accade spesso nei film, che diventeranno, in USA, il pane quotidiano dell’Autore! Lo schema che segue - dove sono rappresentati i tre quadri e le 13 scene dell’opera - vuol rendere plasticamente il concetto:



Il tempo reale occupa le prime 5 scene del primo quadro e l’ultima del terzo: tutto si compie in una sola serata. Il tempo onirico occupa invece pochi minuti di quello reale (insomma, Paul fa solo un pisolino, il tempo per Marietta - dopo esserne uscita - di tornare in casa sua a recuperare l’ombrellino...) ma vi scorre, come in un film accelerato in FFW, un’intera serata-nottata-mattinata, articolato com’è nella sesta scena del primo quadro, nelle 4 del secondo e nelle prime due del terzo. Grosso modo, su circa 130 minuti di durata complessiva, il tempo reale ne occupa più o meno 50; quello onirico quasi 80, compressi in 5 minuti del primo!

Dallo schema si evince anche come il sogno di Paul sia distribuito su tutti e tre i quadri - che hanno durata simile, attorno ai 45 minuti - il che comporta che venga interrotto dagli intervalli addirittura due volte, cosa che può disorientare lo spettatore o comunque produrre cali di tensione drammatica. In particolare è la prima interruzione, dopo che il sogno è appena iniziato, a rischiare di essere deleteria. Così lo stesso Korngold ha previsto la possibilità di legare senza soluzione di continuità i primi due quadri e all’uopo ha predisposto gli opportuni tagli (138 battute: 93 alla fine del primo e 45 all’inizio del secondo quadro) alla partitura. In questo modo il sogno viene interrotto soltanto una volta, prima della notte che Paul e Marietta trascorreranno insieme. Peraltro una conseguenza di questo approccio è lo squilibrio che si crea fra le durate delle due parti: la prima di circa 90 minuti, la seconda di 40-45. Beh... non si può aver tutto.
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Per fare (o rinfrescare) la conoscenza dell’opera a buon mercato, la si può seguire in rete (fra alcune altre) in questa registrazione vintage (1975) di Erich Leinsdorf con il trio dei protagonisti (Paul, Marietta, Frank) Kollo-Neblett-Luxon, più il Fritz di Prey e la Brigitta di Wagemann.

In omaggio alla notorietà americana di Korngold, l’opera sarà affidata ad Alan Gilbert, fino al 2017 Direttore musicale della prestigiosa NYPO, in procinto di insediarsi alla Elbphilharmonie.

Paul sarà impersonato da Klaus Florian Vogt, che si può apprezzare qui, impegnato in Finlandia nel 2011, e che pare ben calato nella personalità piuttosto... disturbata del protagonista.   

Come è prassi ormai quasi consolidata (del resto è un’indicazione dello stesso Korngold) anche in questa produzione il ruolo minore (come presenza in scena, ma al quale è affidata una delle due arie più famose dell’opera, Da Ihr befehlet, Königin, nel second’atto) di Fritz (il Pierrot della compagnia di Marietta) viene accorpato - visto che ha la stessa tessitura di baritono e mai compare in scena insieme all’altro - con quello un filino più presente, anche se musicalmente meno pregiato, di Frank. Così il simpatico, oltre che bravo, Markus Werba si guadagnerà qualche minuto in più di attenzione del pubblico (e magari, glielo auguriamo, di applausi).

Ad Asmik Grigorian da Vilnius è affidato il ruolo di Marietta, che dà anche la voce all’apparizione di Marie nel primo atto; atto in cui spicca la bellissima aria (del liuto) Glück, das mir verblieb. La carioca Kismara Pessatti completa il quartetto dei protagonisti, interpretando Brigitta.

L’Accademia scaligera dà anche qui un sostanzioso contributo ai ruoli di contorno, con tre delle quattro voci. Contributo che darà anche il Coro di Casoni.

L’allestimento è del genio-(e-sregolatezza) Graham Vick, il che garantisce come minimo accese discussioni sulla sua vision del dramma. 

Dalla locandina del Teatro si dovrebbe evincere che lo spettacolo abbia un solo intervallo, come ad esempio in questa recente produzione berlinese di Carsen. Radio3 riprenderà in diretta (ore 20:00) la prima del 28 maggio. 

19 agosto, 2015

Il ROF-36 live (2): Messa e Inganno

 

Ieri doppia razione di ROF, con spola fra Adriatic Arena e Teatro Rossini, in una Pesaro ritornata, ma pare solo momentaneamente, quasi estiva.


Nel pomeriggio il palazzone-vongola era un barile di… sardine (evidentemente basta la sigla JDF per fare il pieno!) per un programma sacro-profano incentrato, nella prima parte, sulla rediviva Messa di Gloria e nella seconda su due composizioni giovanili per soli e coro. Avendo Roberto Abbado dovuto rinunciare, essendosi rotto… (un tendine d’achille) è toccato a Donato Renzetti (già titolare nella Gazza) guidare la Filarmonica Rossini (di cui è fresco Direttore principale) e il Coro di Bologna di Andrea Faidutti, che hanno accompagnato il quintetto di voci soliste: tenori Juan Diego Florez e Dempsey Rivera, soprano Jessica Pratt, contralto Viktoria Yarovaya e basso Mirco Palazzi.

Dapprima, quindi, la Messa corta, che vide la luce un lontano venerdi 24 marzo del 1820 (festa della Madonna dei Dolori) nella Chiesa di SanFerdinando a Napoli. Così ne ricordò l’esecuzione un rossiniano sfegatato, uno che oggi non si perderebbe un solo minuto dei ROF (da: La vie de Rossini di Stendhal, capitolo XXXVII, ultimo capoverso):

Avemmo a Napoli, nel 1819 credo, una messa di Rossini, che impiegò tre giorni a dare l'apparenza di canti di chiesa ai suoi motivi più belli. Fu uno spettacolo delizioso; noi vedemmo passare successivamente sotto i nostri occhi, e con una forma un po' differente, che dava del frizzante ai riconoscimenti, tutte le arie sublimi del grande compositore. Un prete gridò serioso: Rossini, se tu bussi alla porta del paradiso con questa messa, malgrado tutti i tuoi peccati, san Pietro non potrà rifiutarsi d'aprirti!

C’è chi mette seriamente in dubbio l’attendibilità di questa testimonianza del peripatetico Marie-Henry Beyle. E c’è chi non digerì per nulla la Messa, come un musicista crucco protestante (!) a nome Carl Borromäus von Miltitz, che deplorò il suono dell’organo durante l’intera esecuzione, con l’orchestra che suonava contemporaneamente e Rossini che chiedeva dei fortissimo ora ad uno ora all’altro degli strumentisti, con conseguente immaginabile dissacrazione della santità del luogo. (Insomma, un… inganno di messa!)

In effetti dobbiamo ammettere che più che una Messa par di ascoltare un melodramma, e qua e là compaiono motivi che richiamano opere precedenti. Sergio Ragni, sul programma di sala, ci ricorda dapprima un imprestito da Bianca e Falliero nel Laudamus; poi nel Domine Deus una chiara scopiazzatura, persino nella tonalità di MIb, del mirabile motivo di Se tu m’ami, o mia regina (Aureliano, scena seconda). E infine, proprio in apertura del Gloria, il tema che tornerà 6 anni più tardi nel parigino Siège de Corinthe (sinfonia e finale atto II): tema che non è nemmeno rossiniano in origine essendo mutuato da Atalia di Giovanni Simone Mayr, che forse lo aveva a sua volta ripreso da un Salmo di Benedetto Marcello (della serie: le combinazioni dei 12 suoni della nostra civiltà non sono infinite!) Di più: il finale fugato pare proprio essere stato composto dallo specialista in contrappunto a nome Pietro Raimondi, cui Rossini chiese aiuto per la bisogna.

JDF ha subito messo tutti in apprensione: finito di cantare il Gloria, proprio mentre Jessica Pratt si alzava per il Laudamus, lui abbandonava il palco! Fortunatamente per rientrarvi giusto in tempo per il suo successivo Gratias agimus. Dalla sua cera, a dir la verità, sembrava uno cui sono rimasti sullo stomaco gli spaghetti allo scoglio, ecco. Come abbia potuto continuare a cantare all’altezza della sua fama è per me un miracolo. A lui e alla Jessica si è aggiunto su un gran livello Mirco Palazzi, mentre un gradino sotto è rimasta la Yarovaya. Senza voto Rivera, che ha una parte invero minuscola, di sola seconda voce del tenore principale nel Christe. Discreta la Filarmonica Rossini e possente il coro misto bolognese di Faidutti. In fin dei conti, un’esecuzione di tutto rispetto.
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Dopo la Messa del Rossini maturo, ecco due opere del Rossini poco più che ragazzo. Un Rossini fantastico, anche se ancora piuttosto acerbo, come dimostra l’enfasi sparsa a piene mani sulle partiture, ricche di dinamiche spinte all’estremo (è un po’ come il primo Verdi della famosa vanga!)

La cantata Il pianto d'Armonia sulla morte d'Orfeo (per tenore, coro maschile e orchestra, testo del gesuita Girolamo Ruggia) è del 1808 (di fatto una prova di Liceo, eseguita giovedi 11 agosto di quell’anno, a Bologna).

Subito dalla Sinfonia si avverte un’ambientazione che fa pensare a Cherubini o a Gluck, o anche a Haydn, con l’introduzione lenta (DO minore e sesta napoletana) e poi con l’esposizione di un motivo serrato e protervo, che percorre in discesa e risalita l’accordo perfetto di DO minore, e si sviluppa poi nella relativa MIb e sulla sua dominante SIb. Segue un temino nell’oboe in MIb. Poi il tutto ripetuto in forma variata e con modulazione a SOL minore e chiusura in diminuendo che anticipa (come ci ricorda ancora Sergio Ragni) il passaggio che nel Barbiere chiude il temporale.

Il SOL torna dominante del DO maggiore sul quale entra il coro con una prima quartina (Quale i campi rodopei) ed una seconda (Perché i rai discioglie in pianto) sulla dominante SOL, da cui si torna a casa sul DO.

Qui entra il solista (Armonia) con un mirabile recitativo accompagnato (Sparse il lacero crine) in FA minore, poi modulante a maggiore e quindi alla sottodominante SIb. La conclusione riporta la tonalità al DO minore per introdurre l’aria (Dalle spietate furie) che vira subito alla relativa MIb maggiore, con temporaneo passaggio sulla dominante SIb.

Segue un nuovo recitativo accompagnato (Ma tu che desti già sì dolce suono) introdotto da uno splendido assolo del violoncello, passato bruscamente a SOL maggiore, sulla quale tonalità si muove il languido canto del solista. Poi si modula alla sottodominante DO, con un nuovo intervento solistico del violoncello prima della chiusa della voce.

Infine l’aria con coro in DO maggiore introdotta da un romantico e virtuosistico assolo del corno (o come ieri, del più facile clarinetto). Dopo la prima quartina, ecco la seconda (Ed Armonia) nella dominante SOL, poi si torna a DO, il tempo si agita e il corno (non ieri…) esplode in un fantastico virtuosismo mentre entra il coro (Finchè frondi e fior del Rodope) subito seguito dal solista (Finchè in pregio l’arti armoniche) che per gli ultimi due versi della sua quartina (Ogni cor pietoso, e tenero) modula a LAb maggiore, prima del trionfale ritorno a DO.

Ecco, per essere opera di un 16enne, non c’è davvero male (sì, Rossini non fu un bambino prodigio come il suo idolo Mozart, ma insomma…)  

Qui un’interpretazione del prossimo Direttore artistico del ROF, Ernesto Palacio (1990 a Bratislava).

Dopo lo spavento nella Messa, JDF (cui la Pratt ha lasciato l’onore dell’ultima parola - inversione dell’ordine delle cantate rispetto al programma) non ha tradito le aspettative delle falangi di suoi fan arrivati da ogni dove.
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Subito prima, La morte di Didone, scena lirica per soprano con cori maschili (testo dalla Didone abbandonata di Metastasio) che è del 1810 (stessa dedicataria del Demetrio, Ester Mombelli) anche se fu eseguita parecchi anni dopo (sabato 2 maggio 1818, Venezia).

Qui il birichino (che rima con Gioachino…) Rossini ha già imparato alla perfezione il trucco degli auto-imprestiti, così l’introduzione alla scena è presa quasi di peso dalla Sinfonia del Pianto

Una possente scarica del timpano introduce il coro che canta Misera, sventurata! Didone abbandonata! riprendendo di fatto l’atmosfera di DO minore della sinfonia, da cui mutua anche il successivo temino in MIb maggiore, sui versi L’amante tuo spietato alfin se ne partì, prima di tornare al DO minore per ripetere la quartina.

Un’altra raffica del timpano introduce il recitativo accompagnato di Didone (Tutto è orror, tutto è morte) dove torna il tema principale della sinfonia (Infido, sconoscente!) Il recitativo prosegue con modulazioni a SIb e persino a RE maggiore (!) prima del ritorno al MIb sul quale la protagonista canta la sua prima aria: Se dal ciel pietà non trovo, introdotta e poi accompagnata dall’accorato suono del corno inglese e dalla cadenza dei violini, uno stilema in 3/4 che ritroveremo spesso nei lavori di Rossini. Il coro interviene a contrappuntare il canto del soprano il quale, dopo un concitato crescendo supportato da un ostinato tonica-dominante, va a toccare (opzionalmente, cosa che la Jessica peraltro non ha fatto) anche il MIb sovracuto e poi chiude in bellezza sulle parole Tradita dall’amor!

Ma è una falsa chiusura, chè la scena riprende, con il coro che invita Didone a fuggire (Fuggi, Regina, fuggi!) su un concitato DO maggiore. Segue un nuovo recitativo accompagnato di Didone (Ingiustissimi dei!) che si muove dal DO al SOL, al RE e chiude sul MI, dominante del LA minore su cui si apre l’aria conclusiva (Per tutto l’orrore) dove la tonalità vira al DO (La smania, il furore). Abbiamo ora la ripetizione (tutta in LA minore) degli stessi versi.

Quindi riecco il coro (Più scampo non ci resta) che ha modulato a FA maggiore, sulla quale tonalità Didone riprende il suo canto (Ch’io ceda ad un tiranno?) contrappuntata dal coro (Di te, di noi pietade). L’ultima esternazione di Didone (Enea, l’ingrato) resta sul FA fino al ritorno del canonico DO (Precipiti Cartago) sul quale il soprano sale fino ad un ultimo sovracuto (Il cenere di lei) prima della cadenza orchestrale.

Ecco come l’ha interpretata nel 2010 un’extracomunitaria dell’est che qui a Pesaro si è direttamente… accasata, non proprio come badante (smile!) ma assumendo il difficile ruolo di nuora del sovrintendente del ROF.

Ieri l’imponente Jessica ha offerto una prova buona ma non proprio eccellente, mostrando difficoltà a farsi udire nelle note gravi; comunque per lei grandi applausi e ripetute chiamate.
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Il tempo per una piadina (!) e poi trasferimento al Teatro Rossini (non certo affollato come l’arena) per L’Inganno felice, per la quale farsa il ROF ripropone dopo 21 anni l’allestimento di Graham Vick.

 

Spettacolo assai curato nei dettagli (Vick era già qualcuno nel 1994!) e, come è caratteristica somatica del regista inglese, arricchito da (qui pochi e per fortuna innocui) tocchi di ideologia socialistoide, del tutto inventati rispetto al soggetto originale di Giuseppe Foppa.


Così una vicenda – ambientata casualmente nei pressi di una miniera - che più personale e privata non potrebbe essere (antefatto: la moglie del Duca invano insidiata dal di lui braccio-destro il quale per vendetta la denuncia al marito ottenendone la condanna) diventa per Vick l’occasione per ricordarci che un tempo anche i bambini venivano mandati a lavorare in miniera: così ne vediamo uno in particolare (con berrettino rosso vivo di ordinanza) che diventa quasi protagonista muto (tipo la gazza di Michieletto…) per movimentare un po’ la scena.

La recitazione è curatissima, anche laddove ci presenta gratuiti comportamenti di alcuni personaggi, tipo: Batone che dà una moneta al ragazzino dal berretto rosso per toglierselo di torno, moneta che però il poveretto è costretto (dal padre, si presume) a restituire. Morale? Mah, forse ci viene ricordato che il proletariato non vuole elemosine, ma parità di diritti… La stessa Nisa dapprima – da povera ex-nobile - insegna premurosamente a leggere e scrivere al minator-ino di cui sopra, ma alla fine, tornata in sella (che rima con Isabella) lo abbandona alle sue umili mansioni di pelar patate; poi impedisce al marito di lasciare un doveroso obolo al suo salvatore-protettore Tarabotto. Della serie: un nobile è socialmente utile ed accettabile solo fin quando è… decaduto!

Evabbè, rispetto alle radicali rivisitazioni di Mosè e di Tell, qui siamo ancora sul sopportabile. Vengo ora a ciò per cui (Vick permettendo) un melomane si reca a teatro.

L’Orchestra è la Sinfonica Rossini (da non confondersi con la Filarmonica, protagonista della prima metà del pomeriggio): orchestra che al ROF è ormai di casa da qualche anno e che si conferma di buon livello in tutti i reparti. Alla sua guida Denis Vlasenko, tornato qui dopo 7 anni (quando diresse un Reims dell’Accademia) che mi è sembrato davvero autorevole e attento a tutti i dettagli della partitura.

Il cast dei 5 personaggi è abbastanza ben assortito Per cavalleria parto da Mariangela Sicilia, tornata al ROF dopo due anni (ebbe parti in Italiana e Donna del Lago nel 2013): voce squillante e ben impostata, ha confermato alle mie orecchie la buona impressione già fatta alla prima radiofonica. Cito su tutto il resto l’aria (che in passato veniva spesso sostituita da altra musica) Al più dolce e caro oggetto, dove c’è fra l’altro una fugace citazione (auto-imprestito) dalla Didone udita nel pomeriggio (Ah, quanto pena un’anima).

Fra i quattro signori che contornano la protagonista i più convincenti sono stati i due bassi: Davide Luciano (già segnalatosi nell’Italiana del 2013) che mi sembra ulteriormente cresciuto e che è stato un Tarabotto poco meno che perfetto, per chiarezza e profondità della voce e sensibilità interpretativa; accanto lui Carlo Lepore, ormai veterano e beniamino del ROF, che ha ben ricoperto il ruolo semi-serio di Batone. Davvero encomiabile – in particolare – il loro duetto (Va taluno mormorando) accolto da un interminabile applauso.

Un filino al di sotto della media il Bertrando di Vassilis Kavayas, apparsomi poco intonato e dall’espressione piuttosto piatta e monotona: anche il pubblico ha avuto per lui solo applausi di stima. Personalmente lo ricordavo meglio dall’Armida dello scorso anno. Giulio Mastrototaro era il cattivone Ormondo: una parte (relativamente) leggera, con un’aria piuttosto breve (Tu mi conosci, e sai) che è stata comunque sostenuta con pieno merito.

In definitiva, una simpatica riproposta che il pubblico ha mostrato di gradire assai, ripagando tutti di applausi e consensi, dopo ciascun numero e alle uscite finali.

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