Ieri doppia razione di ROF, con spola fra Adriatic
Arena e Teatro Rossini, in una Pesaro ritornata, ma pare solo momentaneamente, quasi
estiva.
Nel pomeriggio il palazzone-vongola era un
barile di… sardine (evidentemente basta la sigla JDF per fare il pieno!)
per un programma
sacro-profano
incentrato, nella prima parte, sulla rediviva Messa di Gloria e nella seconda su due
composizioni giovanili per soli e coro. Avendo Roberto Abbado dovuto
rinunciare, essendosi rotto… (un tendine d’achille) è toccato a Donato Renzetti (già titolare nella
Gazza) guidare la Filarmonica Rossini (di cui è
fresco Direttore principale) e il
Coro di Bologna di Andrea Faidutti,
che hanno accompagnato il quintetto di voci soliste: tenori Juan Diego Florez e Dempsey Rivera, soprano Jessica
Pratt, contralto Viktoria Yarovaya e basso Mirco Palazzi.
Dapprima,
quindi, la Messa corta, che vide la
luce un lontano venerdi 24 marzo del 1820 (festa della Madonna dei Dolori) nella
Chiesa di SanFerdinando
a Napoli. Così ne ricordò l’esecuzione un rossiniano sfegatato, uno che oggi
non si perderebbe un solo minuto dei ROF (da: La vie de Rossini di
Stendhal, capitolo XXXVII, ultimo capoverso):
Avemmo a Napoli, nel 1819 credo, una
messa di Rossini, che impiegò tre giorni a dare l'apparenza di canti di chiesa
ai suoi motivi più belli. Fu uno spettacolo delizioso; noi vedemmo passare
successivamente sotto i nostri occhi, e con una forma un po' differente, che
dava del frizzante ai riconoscimenti, tutte le arie sublimi del grande
compositore. Un prete gridò serioso: Rossini, se tu bussi alla porta del paradiso
con questa messa, malgrado tutti i tuoi peccati, san Pietro non potrà
rifiutarsi d'aprirti!
C’è chi mette seriamente in dubbio
l’attendibilità di questa testimonianza del peripatetico Marie-Henry Beyle. E c’è chi non digerì per nulla la Messa, come un
musicista crucco protestante (!) a nome Carl
Borromäus von Miltitz, che deplorò il suono dell’organo durante l’intera esecuzione,
con l’orchestra che suonava contemporaneamente e Rossini che chiedeva dei fortissimo ora ad uno ora all’altro
degli strumentisti, con conseguente immaginabile dissacrazione della santità
del luogo. (Insomma, un… inganno di
messa!)
In effetti dobbiamo ammettere che più
che una Messa par di ascoltare un melodramma, e qua e là compaiono motivi che
richiamano opere precedenti. Sergio Ragni,
sul programma di sala, ci ricorda dapprima un imprestito da Bianca e Falliero nel Laudamus; poi nel
Domine Deus una chiara scopiazzatura, persino nella tonalità di MIb, del
mirabile motivo di Se tu m’ami, o mia
regina (Aureliano, scena seconda).
E infine, proprio in apertura del Gloria,
il tema che tornerà 6 anni più tardi nel parigino Siège de Corinthe (sinfonia e finale atto II): tema che non è
nemmeno rossiniano in origine essendo mutuato da Atalia di Giovanni Simone
Mayr, che forse lo aveva a sua volta ripreso da un Salmo di Benedetto Marcello (della serie: le
combinazioni dei 12 suoni della nostra civiltà non sono infinite!) Di più: il
finale fugato pare proprio essere stato composto dallo specialista in
contrappunto a nome Pietro Raimondi,
cui Rossini chiese aiuto per la bisogna.
JDF ha subito messo tutti in
apprensione: finito di cantare il Gloria,
proprio mentre Jessica Pratt si alzava per il Laudamus, lui abbandonava il palco! Fortunatamente per rientrarvi
giusto in tempo per il suo successivo Gratias
agimus. Dalla sua cera, a dir la verità, sembrava uno cui sono rimasti
sullo stomaco gli spaghetti allo scoglio, ecco. Come abbia potuto continuare a
cantare all’altezza della sua fama è per me un miracolo. A lui e alla Jessica
si è aggiunto su un gran livello Mirco Palazzi, mentre un gradino sotto è
rimasta la Yarovaya.
Senza voto Rivera, che ha una parte invero minuscola, di sola seconda voce del
tenore principale nel Christe. Discreta la Filarmonica Rossini e possente il
coro misto bolognese di Faidutti. In fin dei conti, un’esecuzione di tutto
rispetto.
___
Dopo la Messa
del Rossini maturo, ecco due opere del Rossini poco più che ragazzo. Un Rossini
fantastico, anche se ancora piuttosto acerbo, come dimostra l’enfasi sparsa a
piene mani sulle partiture, ricche di dinamiche spinte all’estremo (è un po’
come il primo Verdi della famosa vanga!)
La cantata Il pianto d'Armonia sulla morte d'Orfeo (per tenore, coro maschile
e orchestra, testo del gesuita Girolamo
Ruggia) è del 1808 (di fatto una prova di Liceo, eseguita giovedi 11 agosto
di quell’anno, a Bologna).
Subito dalla Sinfonia si avverte un’ambientazione che fa pensare a Cherubini o a Gluck, o anche a Haydn, con
l’introduzione lenta (DO minore e sesta
napoletana) e poi con l’esposizione di un motivo serrato e protervo, che
percorre in discesa e risalita l’accordo perfetto di DO minore, e si sviluppa
poi nella relativa MIb e sulla sua dominante SIb. Segue un temino nell’oboe in
MIb. Poi il tutto ripetuto in forma variata e con modulazione a SOL minore e
chiusura in diminuendo che anticipa
(come ci ricorda ancora Sergio Ragni)
il passaggio che nel Barbiere chiude
il temporale.
Il SOL torna dominante del DO maggiore
sul quale entra il coro con una prima quartina (Quale i campi rodopei) ed una seconda (Perché i rai discioglie in pianto) sulla dominante SOL, da cui si torna a casa sul
DO.
Qui entra il solista (Armonia) con un mirabile recitativo
accompagnato (Sparse il lacero crine) in FA minore, poi modulante a maggiore e quindi
alla sottodominante SIb. La conclusione riporta la tonalità al DO minore per
introdurre l’aria (Dalle
spietate furie) che vira subito alla relativa MIb
maggiore, con temporaneo passaggio sulla dominante SIb.
Segue
un nuovo recitativo accompagnato (Ma tu che desti già sì dolce suono) introdotto
da uno splendido assolo del violoncello, passato bruscamente a SOL maggiore,
sulla quale tonalità si muove il languido canto del solista. Poi si modula alla
sottodominante DO, con un nuovo intervento solistico del violoncello prima
della chiusa della voce.
Infine
l’aria con coro in DO maggiore introdotta da un romantico e virtuosistico assolo
del corno (o come ieri, del più facile
clarinetto). Dopo la prima quartina, ecco la seconda (Ed Armonia) nella dominante SOL,
poi si torna a DO, il tempo si agita e il corno (non ieri…) esplode in un
fantastico virtuosismo mentre entra il coro (Finchè frondi e fior del Rodope)
subito seguito dal solista (Finchè in pregio l’arti armoniche) che per gli
ultimi due versi della sua quartina (Ogni cor pietoso, e tenero) modula a LAb
maggiore, prima del trionfale ritorno a DO.
Ecco,
per essere opera di un 16enne, non c’è davvero male (sì, Rossini non fu un
bambino prodigio come il suo idolo Mozart, ma insomma…)
Qui un’interpretazione del prossimo
Direttore artistico del ROF, Ernesto Palacio (1990 a Bratislava).
Dopo lo spavento
nella Messa, JDF (cui la Pratt ha
lasciato l’onore dell’ultima parola - inversione dell’ordine delle cantate
rispetto al programma) non ha tradito le aspettative delle falangi di suoi fan arrivati da ogni dove.
___
Subito prima, La
morte di Didone, scena lirica per soprano con cori maschili (testo
dalla Didone abbandonata di
Metastasio) che è del 1810 (stessa dedicataria del Demetrio, Ester Mombelli) anche se fu eseguita parecchi anni dopo (sabato
2 maggio 1818, Venezia).
Qui il birichino
(che rima con Gioachino…) Rossini ha già imparato alla perfezione il trucco
degli auto-imprestiti, così
l’introduzione alla scena è presa quasi di peso dalla Sinfonia del Pianto!
Una possente
scarica del timpano introduce il coro che canta Misera, sventurata! Didone abbandonata! riprendendo di fatto l’atmosfera di DO minore
della sinfonia, da cui mutua anche il successivo temino in MIb maggiore, sui
versi L’amante
tuo spietato alfin se ne partì, prima di tornare al DO minore per
ripetere la quartina.
Un’altra raffica
del timpano introduce il recitativo accompagnato di Didone (Tutto è orror,
tutto è morte) dove torna il tema principale della sinfonia (Infido,
sconoscente!) Il recitativo prosegue con modulazioni a SIb e persino
a RE maggiore (!) prima del ritorno al MIb sul quale la protagonista canta la sua
prima aria: Se dal ciel pietà non trovo,
introdotta e poi accompagnata dall’accorato suono del corno inglese e dalla cadenza
dei violini, uno stilema in 3/4 che ritroveremo spesso nei lavori di Rossini.
Il coro interviene a contrappuntare il canto del soprano il quale, dopo un
concitato crescendo supportato da un ostinato tonica-dominante, va a toccare
(opzionalmente, cosa che la Jessica peraltro non ha fatto) anche il MIb
sovracuto e poi chiude in bellezza sulle parole Tradita dall’amor!
Ma è una falsa
chiusura, chè la scena riprende, con il coro che invita Didone a fuggire (Fuggi, Regina,
fuggi!) su un concitato DO maggiore. Segue un nuovo recitativo
accompagnato di Didone (Ingiustissimi dei!) che si muove dal DO al
SOL, al RE e chiude sul MI, dominante del LA minore su cui si apre l’aria
conclusiva (Per
tutto l’orrore) dove la tonalità vira al DO (La smania, il furore). Abbiamo
ora la ripetizione (tutta in LA minore) degli stessi versi.
Quindi riecco il
coro (Più
scampo non ci resta) che ha modulato a FA maggiore, sulla quale
tonalità Didone riprende il suo canto (Ch’io ceda ad un tiranno?) contrappuntata dal
coro (Di te,
di noi pietade). L’ultima esternazione di Didone (Enea, l’ingrato)
resta sul FA fino al ritorno del canonico DO (Precipiti Cartago) sul quale il
soprano sale fino ad un ultimo sovracuto (Il cenere di lei) prima della cadenza orchestrale.
Ecco come l’ha interpretata
nel 2010 un’extracomunitaria dell’est che
qui a Pesaro si è direttamente… accasata, non proprio come badante (smile!) ma assumendo il difficile ruolo
di nuora del sovrintendente del ROF.
Ieri l’imponente
Jessica ha offerto una prova buona ma
non proprio eccellente, mostrando difficoltà a farsi udire nelle note gravi;
comunque per lei grandi applausi e ripetute chiamate.
___
___
Il tempo per una piadina (!) e poi trasferimento al
Teatro Rossini (non certo affollato come l’arena) per L’Inganno felice, per la quale farsa il ROF
ripropone dopo 21 anni l’allestimento di Graham
Vick.
Spettacolo assai curato nei dettagli (Vick era già
qualcuno nel 1994!) e, come è caratteristica somatica del regista inglese,
arricchito da (qui pochi e per fortuna innocui) tocchi di ideologia
socialistoide, del tutto inventati rispetto al soggetto originale di Giuseppe Foppa.
Così una vicenda – ambientata
casualmente nei pressi di una miniera - che più personale e privata non
potrebbe essere (antefatto: la moglie del Duca invano insidiata dal di lui
braccio-destro il quale per vendetta la denuncia al marito ottenendone la
condanna) diventa per Vick l’occasione per ricordarci che un tempo anche i
bambini venivano mandati a lavorare in miniera: così ne vediamo uno in
particolare (con berrettino rosso vivo
di ordinanza) che diventa quasi protagonista muto (tipo la gazza di
Michieletto…) per movimentare un po’ la scena.
La recitazione è curatissima, anche
laddove ci presenta gratuiti comportamenti di alcuni personaggi, tipo: Batone
che dà una moneta al ragazzino dal berretto rosso per toglierselo di torno,
moneta che però il poveretto è costretto (dal padre, si presume) a restituire.
Morale? Mah, forse ci viene ricordato che il proletariato non vuole elemosine,
ma parità di diritti… La stessa Nisa dapprima – da povera ex-nobile - insegna
premurosamente a leggere e scrivere al minator-ino di cui sopra, ma alla fine,
tornata in sella (che rima con Isabella) lo abbandona alle sue umili mansioni
di pelar patate; poi impedisce al marito di lasciare un doveroso obolo al suo
salvatore-protettore Tarabotto. Della serie: un nobile è socialmente utile ed
accettabile solo fin quando è… decaduto!
Evabbè, rispetto alle radicali
rivisitazioni di Mosè e di Tell, qui siamo ancora sul sopportabile. Vengo ora a
ciò per cui (Vick permettendo) un melomane si reca a teatro.
L’Orchestra è la Sinfonica Rossini (da non confondersi con la Filarmonica, protagonista della prima metà del pomeriggio):
orchestra che al ROF è ormai di casa da qualche anno e che si conferma di buon
livello in tutti i reparti. Alla sua guida Denis
Vlasenko, tornato qui dopo 7 anni (quando diresse un Reims dell’Accademia) che mi è sembrato davvero autorevole e
attento a tutti i dettagli della partitura.
Il cast dei 5 personaggi è abbastanza ben
assortito Per cavalleria parto da Mariangela
Sicilia, tornata al ROF dopo due anni (ebbe parti in Italiana e Donna del Lago
nel 2013): voce squillante e ben impostata, ha confermato alle mie orecchie la
buona impressione già fatta alla prima radiofonica. Cito su tutto il resto l’aria
(che in passato veniva spesso sostituita da altra musica) Al più dolce e caro oggetto,
dove c’è fra l’altro una fugace citazione (auto-imprestito) dalla Didone udita
nel pomeriggio (Ah, quanto pena un’anima).
Fra i quattro signori che contornano la
protagonista i più convincenti sono stati i due bassi: Davide Luciano (già segnalatosi nell’Italiana del 2013) che mi
sembra ulteriormente cresciuto e che è stato un Tarabotto poco meno che
perfetto, per chiarezza e profondità della voce e sensibilità interpretativa;
accanto lui Carlo Lepore, ormai
veterano e beniamino del ROF, che ha ben ricoperto il ruolo semi-serio di
Batone. Davvero encomiabile – in particolare – il loro duetto (Va taluno
mormorando) accolto da un interminabile applauso.
Un filino al di sotto della media il
Bertrando di Vassilis Kavayas, apparsomi
poco intonato e dall’espressione piuttosto piatta e monotona: anche il pubblico
ha avuto per lui solo applausi di stima. Personalmente lo ricordavo meglio dall’Armida
dello scorso anno. Giulio Mastrototaro
era il cattivone Ormondo: una parte (relativamente) leggera, con un’aria
piuttosto breve (Tu
mi conosci, e sai) che è stata comunque sostenuta con pieno merito.
In definitiva, una simpatica riproposta che
il pubblico ha mostrato di gradire assai, ripagando tutti di applausi e
consensi, dopo ciascun numero e alle
uscite finali.
(next: La Gazzetta)
Nessun commento:
Posta un commento