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17 agosto, 2015

Il ROF-36 live (1): La Gazza ladra

 

Primo mio personale incontro diretto con il ROF-36, La Gazza ladra, arrivata alla terza delle quattro rappresentazioni. Titolo noto a tutto l‘universo, ma solo per via della strepitosa Sinfonia. Al proposito Lodovico Settimo Silvestri, nel suo tomo Della vita e delle opere di Gioachino Rossini, del 1874, ci racconta ciò che il Maestro scrisse in risposta a tale signor De Mirandel, che gli chiedeva consigli sul momento migliore per comporre l’Ouverture di un’opera:

1. Aspettate fino alla sera prima del giorno fissato per la rappresentazione. Nessuna cosa eccita più l'estro, come la necessità, la presenza d'un copista che aspetta il vostro lavoro, e la ressa d'un impresario in angustie che si strappa a ciocche i capelli. A tempo mio, in Italia, tutti gl'impresari erano calvi a trent'anni.
2. Ho composto l'ouverture dell'Otello in una cameretta del palazzo Barbaja, ove il più calvo ed il più feroce dei direttori mi aveva rinchiuso per forza senz'altra cosa che un piatto di maccheroni, e con la minaccia di non poter lasciare la camera, vita durante, finchè non avessi scritta l'ultima nota.
3. Ho scritto l'ouverture della Gazza Ladra il giorno della prima rappresentazione sotto il tetto della scala, dove fui messo in prigione dal direttore, sorvegliato da quattro macchinisti che avevano l'ordine di gettare il mio testo originale dalla finestra, foglio a foglio, ai copisti, i quali l'aspettavano abbasso per trascriverlo. In difetto di carta da musica, avevano ordine di gettare me stesso dalla finestra.
4 Pel Barbiere feci meglio: non composi ouverture, ma ne presi una che destinava ad un'opera semiseria chiamata Elisabetta. Il pubblico fu arcicontento.
5. Ho composto l'ouverture del Conte Ory stando a pesca, coi piedi nell'acqua, in compagnia del signor Aguado, mentre costui parlava di finanze spagnuole.
6. Quella del Guglielmo Tell fu scritta in circostanze presso a poco simili.
7. Quanto al Mosè non ne feci alcuna.

Lo stesso autore ci informa di come venne presa la Sinfonia alla prima della Scala da un musicista giovane ma già… conservatore:

A Milano l'introduzione del tamburro nell'orchestra gli valse un nemico terribile. Era un'allievo di Alessandro Rolla, un violinista della Scala. Questo giovino artista non poteva vedere, senza dare ne li eccessi della più violenta colera, l'istromento ritmico dei reggimenti aggiunto ai nobili organi della sinfonia. Il prodigioso risultato del novatore lo fece andare fuori dei gangheri. La sua colera divenne una specie di furioso delirio. Egli andava per le vie, pei caffè gridando a tutti quelli che volevano ascoltarlo, che bisognava uccidere Rossini affine di salvar l'arte, e che egli s'incaricava di dargli un colpo di stile per finirla coi tamburi, i crescendo, le cabalette ed il resto. L'idea dei tamburi lo faceva soprattutto dare nelle più frenetiche smanie. La voce di questo progetto d'assassinio che il giovine violinista non si faceva scrupolo di manifestare a chiunque incontrasse, giunse fino a Rossini. Il colpevole autore dell'introduzione del tamburo nell'orchestra, trattando con disprezzo ogni timore, volle vedere faccia a faccia il vendicatore di sì gran misfatto ed intrattenersi un momento con lui. Alessandro Rolla fu incaricato di trattare la conferenza. Egli da principio non voleva assumersi la responsabilità.
– Se il mio allievo ti vede, disse Rolla a Rossini, egli ti coprirà d'ingiurie, puoi essere sicuro.
- Io gliele renderò, replicava il maestro, la mia provvista non è ancora esausta. Ma io desidero a qualunque costo, di conferire coll'uomo che vuole pugnalarmi per cagione del tamburo.
Alessandro Rolla non avendo nulla a replicare ad una volontà si recisamente formulata mise finalmente il maestro alla presenza del suo terribile antagonista dopo di avere ammonito assai costui. L'incontro fu dei più curiosi. Il compositore con quella maniera che un accusato dovrebbe presentarsi al suo giudice, spiegò i motivi della sua azione, patrocinò le circostanze attenuanti in suo favore, fece in una parola quanto potè per ottenere una sentenza assolutoria.
– Vi sono si o no soldati nella Gazza Ladra? domanda al suo feroce avversario.
- Non vi sono che gendarmi! rispose questi di cattivo umore.
- Sono essi a piedi od a cavallo? riprese l'incolpato con una dolcezza angelica.
– No, essi sono a piedi, rispose il conservatore.
– Ebbene se sono a piedi essi hanno il tamburo, o il devono avere come tutte le truppe a piedi. Perché dunque volete pugnalarmi per non averli privati? l'impiego del tamburo all'orchestra era voluto dalla verità drammatica. Date al libretto tutti i colpi di stilo che vi piacerà, io non mi oppongo in nessuna maniera: egli è il vero colpevole, ma risparmiate il mio sangue, se desiderate evitare i rimorsi.
E siccome quest'aringa non bastava a far disparire tutta la colera e dissipare tutti i dubbi del suo futuro assassino, Rossini gli promise con una comica solennità che avrebbe mai più adoperato il tamburo nelle sue nuove opere. - E questa promessa fatta, in circostanza cosi buffa, seppe mantenere il compositore. Certamente egli non avrebbe potuto violare senza mancare alle leggi dell'onore. La storia della scena burlesca nella quale Rossini fece cadere il pugnale dalle mani del Ravaillac del purismo musicale, sparsa per tutta Milano, aumentò, se il poteva, il trionfo della Gazza Ladra. Il maestro aveva bene il diritto di prendersi un po' a giuoco gli avversari delle sue felici innovazioni. Egli aveva creato uno dopo l'altro, quattro de' suoi più grandi capolavori ed in un genere tutto affatto diverso. La viva commedia del Barbiere, la possente tragedia shakespiriana dell'Otello, il racconto della Cenerentola, ed il melodramma della Gazza Ladra.
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Evidentemente il rodaggio delle due prime rappresentazioni è servito: personalmente ho avuto l’impressione di un certo miglioramento complessivo della prestazione di tutti, rispetto alla non entusiasmante prova dell’inaugurazione, ascoltata alla radio. Confermo l’apprezzamento per la concertazione di Renzetti, che mi pare abbia colto lo spirito dell’opera, che è – a parte l’introduzione ed il finale – un dramma serioso, se non proprio una tragedia. L’orchestra del Comunale di Bologna lo ha ben assecondato, nell’insieme e nelle parti solistiche.

 

Quanto alle voci, sempre sugli scudi Alex Esposito (cui perdonerei un paio di calate non determinanti) che propone un Fernando davvero autorevole. Anche gli altri due bassi non hanno sfigurato: Mirko Mimica è un più che discreto Podestà, che tende forse a incupire eccessivamente una voce chiara e ben impostata; e Simone Alberghini, un Fabrizio dignitoso.


Nino Machaidze non ha fatto miracoli (che penso siano fuori dalla sua portata) semplicemente mi è parsa meno urlacchiante e vetrosa negli acuti rispetto alla prima: la vociona ce l’ha, ma dovrebbe amministrarla meglio, ecco. Teresa Iervolino ha messo in mostra una voce dal timbro fin troppo scuro, ma proprio per questo abbastanza adatto ad impersonare la severa Lucia. Un filino sotto (a mio avviso) il Pippo di Lena Belkina, la cui voce fatica a passare adeguatamente.

René Barbera (Giannetto) è quello che mi è parso progredire di più rispetto alla prima; il tenorino yankee ha messo in mostra voce squillante, acuti sicuri e buon fraseggio. Lo risentiremo a giorni nello Stabat Mater che chiuderà il Festival. Da tutti gli altri (vedi locandina) prestazioni complessivamente accettabili. Assai bene anche il coro di Andrea Faidutti.

Doverosa citazione per la Gazza – Sandhya Nagaraja – che Damiano Michieletto ha elevato a protagonista dell’opera. E così parliamo della messinscena, che era conosciuta fin dalla sua comparsa nel 2007, quando venne pure premiata (!?) e poi dalla successiva fruibilità in web. Una proposta tutto sommato dignitosa e godibile (non parliamo però di capolavori, please…) che ha il pregio di non raccontarci una storia inventata dal regista al posto di quella scritta dal librettista, ecco.

Sì, perchè l’idea di farci apparire la vicenda come il brutto sogno di una ragazzina che si mette nei panni del volatile (della famigerata serie bracardiana: la donna c’ha ‘n cervello de galina) è tanto gratuita quanto innocua, non inducendo lo spettatore a distrarsi dallo spettacolo (la musica, soprattutto!) per cercar di decifrare il Konzept del regista. Poi la cosa assume qualche aspetto di incoerenza, come il pentimento che la (ra)gazza sembra provare al vedere la frittata che ha combinato (alla povera Ninetta) col furto del cucchiaio, che non le impedisce poi di tornare ladra, innescando però in tal modo il lieto fine per Ninetta e un incubo per sé medesima, trovatasi di fronte il plotone d’esecuzione destinato alla protagonista, dal quale si salva grazie al brusco risveglio (!?)

Per il resto, detto della miracolosa guarigione del Podestà (che nel 2007 – Michele Pertusi - era affetto da chiara zoppìa, ora perfettamente scomparsa) resta da chiedersi la ragione per la quale l’intero secondo atto si debba svolgere in un acquitrino provocato da una pioggia torrenziale che investe la prigione di Ninetta proprio all’inizio dell’atto. Acqua che oltretutto ha fatto proprio da menagramo, a giudicare dai temporali che in questi giorni flagellano la riviera.

Ma insomma, alla fine Rossini non delude mai e il pubblico, per la verità non proprio… oceanico, ha accolto con gran calore questa riproposta pesarese.

(coming soon: Messa e Inganno… o inganno di una messa?)

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