Ieri sera, in un Teatro Rossini piacevolmente gremito,
ultima recita al ROF-36 della nuova produzione de La Gazzetta, che ha chiuso così la sua terza presenza al
Festival, la prima in forma finalmente completa. La novità del quintetto dell’atto primo (Già nel capo un giramento) è ovviamente
al centro dell’attenzione, tanto da occupare gran parte dei saggi pubblicati
sul programma di sala a firma di due autentiche autorità in merito: nientemeno
che gli editori critici della
partitura, Philip Gossett e Fabrizio Scipioni.
Gossett – tornato di persona sui luoghi dei suoi
vecchi amori e del suo… divorzio - ricostruisce, per così dire, i retroscena
musicologici relativi al quintetto: nella sua prima edizione del 2000
(rappresentata al ROF nel 2001, poi ripresa nel 2005, con Dario FO) Gossett
stesso aveva musicato il recitativo della scena VI (Alberto che dichiara il suo
amore a Doralice, creduta figlia di Pomponio) e poi il testo del quintetto
(scena VIII) era stato declamato sul sottofondo al fortepiano della Danza dalle Soirées musicales. Una soluzione assai più complessa e ardita era
stata poi proposta in Germania da Stefano
Piana, che aveva presentato il quintetto con musiche derivate per induzione
dal sestetto de La Cenerentola (opera
successiva e oggetto di importanti imprestiti da La Gazzetta, a partire dall’intera Sinfonia) e dal quartetto de La scala di seta, oltre che dal finale
primo del Barbiere, per il famoso Mi par d’esser con la testa.
Gossett ammette di aver molto apprezzato l’acume di
Piana nel predisporre la sua soluzione alla mancanza della musica del
quintetto, soluzione che è poi stata in gran parte invalidata dal recente
ritrovamento dell’originale di Rossini. Che ha rivelato come la prima sezione
del quintetto medesimo sia musica del tutto nuova (c’è in effetti una premonizione
a La Cenerentola, ma non al sestetto,
bensì all’introduzione); che la seconda derivi effettivamente da La scala di seta, ma con importanti
modifiche, specie nelle modulazioni di tonalità; e che la terza riprenda sì il
sestetto del Barbiere, ma anche qui
con importanti varianti (non c’è la sezione in MIb e nel finale il DO maggiore
lascia fugacemente spazio ad un LAb maggiore).
Da parte sua Scipioni, dopo aver
ricostruito le vicende che portarono alla creazione del libretto (da Goldoni) e
alla rappresentazione dell’Opera, ci ragguaglia con minuziosi dettagli riguardo
ai numerosi imprestiti sparsi nella
partitura, ma concentrati prevalentemente nel primo atto. Oltre a quelli già
citati da Gossett, veniamo a sapere che già nell’Introduzione quadripartita
troviamo il coro (Chi cerca il piacere) che proviene da Torvaldo e Dorliska; poi, dopo l’aria di Alberto, nuova, il
recitativo accompagnato (Oh sior Alberto) da L’equivoco stravagante e da La
scala di seta; infine il terzetto con coro (Portala qua) ancora da Torvaldo. La cavatina di Lisetta (Presto, dico)
proviene, ma diversamente orchestrata, dall’aria sostitutiva di Fiorilla (Presto amiche) del Turco in Italia. Il finale primo, strutturato in quattro sezioni,
presenta nella terza (Giusto ciel) un imprestito dal Torvaldo. Altri imprestiti più o meno
corposi vengono da La pietra del paragone,
La cambiale di matrimonio e Sigismondo.
La presenza del quintetto appare davvero
come una necessità (musicale innanzitutto,
ma anche drammaturgica e spettacolare) tanto che si fatica ormai ad immaginare
come potesse configurarsi una rappresentazione che ne fosse priva: e questo credo
proprio spieghi la lunghissima assenza dalle scene di un’Opera che aveva un
primo atto ridotto musicalmente, drammaturgicamente e spettacolarmente ad un corpo
deforme perché mutilato. Restano così ancor più inspiegabili le ragioni per cui
Rossini in persona lo volle rappresentato in tal forma.
___
Ieri l’ascolto (e visione) dal vivo mi
ha confermato la buona impressione della prima ascoltata in radio, e anche il
pubblico ha mostrato di apprezzare, applaudendo a scena aperta dopo ciascun numero, e tributando alla fine un meritato
trionfo per tutti.
E su tutti ha spiccato lo Storione del
volga di Nicola Alaimo, per
possanza di voce (oltre che per… stazza fisica!): qualche eccesso gli si può
perdonare, portandolo a credito della componente attoriale della sua
prestazione.
Benissimo l’esordiente (al ROF, sia chiaro)
Vito Priante, un Filippo davvero
convincente, bella voce tornita e chiara in tutta l’estensione, da baritono
rossiniano. Buone notizie anche per Maxim
Mironov, che si è confermato tenor-ino (nella voce, -one nel fisico da
cestista) di qualità, presentandosi subito sicuro nell’esordio di Ho girato il mondo intero,
e poi guadagnandosi un’ovazione alla fine dell’aria del second’atto (O lusinghiero amor).
Completavano la sezione-androceo del cast Andrea Vincenzo Bonsignore, che si è onorevolmente accollato la
parte non proibitiva di Traversen, e Dario
Shikhmiri, un onesto Anselmo.
Nel campo femminile, discreta
prestazione della Lisetta di Hasmik
Torosyan (per la verità mi aveva meglio impressionato alla radio) che è
dotata di voce ragguardevole che però, soprattutto salendo agli acuti, tende un
filino a stimbrarsi, virando al… metallizzato. Discreta la sua tecnica, come
testimoniato dai virtuosismi richiesti dalla parte. Abbastanza sicura Raffaella Lupinacci, che ha creato un’onorevole
Doralice, manifestatasi in pieno nell’aria (spuria) Ah, se spiegar potessi. Un gradino
sotto (per me, s’intende) la Madama di Josè
Maria Lo Monaco, voce dal timbro sgradevole e intonazione non sempre
appropriata. Le tre cantanti (così come Bonsignore e Shikhmiri) vengono da
recenti esperienze dell’Accademia di
Zedda (che sedeva in un palco a ricevere i loro omaggi…) il che testimonia
della validità di tale iniziativa, ma anche di una certa fretta nel promuovere
le voci al cartellone principale del ROF.
Il coro maschile di Andrea Faidutti ha meritoriamente dato il suo contributo al
successo della serata. Enrique Mazzola
ha confermato quanto di buono udito in radio: direzione attenta ai particolari
e alle sfumature (qui l’Orchestra bolognese ha confermato la sua buona forma) e
precisa concertazione delle voci; insomma, per lui un ritorno proficuo al ROF dopo
le presenze marginali (ma significative) risalenti all’ultima fine-secolo (!)
___
L’allestimento di Marco Carniti (applauditissimo anche lui alle uscite finali) mi è parso
complessivamente indovinato. Le scene di Manuela
Gasperoni assai spartane, racchiuse da lunghi pannelli a mo’ di tendaggio
semitrasparente, con tavoli mobili e poco più (così immagino abbiano
contribuito a non far aumentare troppo il rapporto debito/PIL del Festival)
hanno comunque creato spazi e occasioni per i movimenti di singoli e masse. Simpatici
i costumi di Maria Filippi ed efficaci
le luci di Fabio Rossi. In generale
mi è parso di rilevare una specie di crescendo (rossiniano) nella tinta
complessiva della scena: si è passati da mille sfumature di grigio (con poco
bianco e nero) del primo atto ad una progressiva accentuazione cromatica col
progredire della rappresentazione.
Da segnalare in particolare la
sceneggiatura del terzetto maschile del second’atto (il duello) che ha
impegnato i protagonisti in esilaranti gag, con Alaimo nelle vesti dell’elefante
ballerino, culminate in uno sfrenato Cantiamo, balliamo, che ha strappato un uragano
di applausi divertiti.
Non si può a questo punto non parlare
del Tommasino di Ernesto Lama. Come
la gazza di Michieletto e il ragazzino-minatore di Vick, è stato il
prezzemolo sparso a piene mani sulla rappresentazione. Lui sembrava un Pietro DeVico di
buona memoria, una macchietta straordinaria cui Carniti ha affidato il compito
di vivacizzare ogni scena, mettendogli anche in bocca qualche battuta non
precisamente scritta da Palomba. E affidandogli anche qualche sottile (e tutto
sommato innocente) messaggio socio-politico (Vick ha fatto scuola) culminato
nel cartello esibito alla fine: con la cultura si mangia?
Ecco, facendo proprio questo drammatico
interrogativo, chiudo il mio personale diario del ROF-36 operistico. Mi resta però
ancora un’ultima stazione di via-crucis
(smile!): eh sì, quella dove… Stabat Mater.
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