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21 agosto, 2015

Il ROF-36 live (3): La Gazzetta

 

Ieri sera, in un Teatro Rossini piacevolmente gremito, ultima recita al ROF-36 della nuova produzione de La Gazzetta, che ha chiuso così la sua terza presenza al Festival, la prima in forma finalmente completa. La novità del quintetto dell’atto primo (Già nel capo un giramento) è ovviamente al centro dell’attenzione, tanto da occupare gran parte dei saggi pubblicati sul programma di sala a firma di due autentiche autorità in merito: nientemeno che gli editori critici della partitura, Philip Gossett e Fabrizio Scipioni.

 

Gossett – tornato di persona sui luoghi dei suoi vecchi amori e del suo… divorzio - ricostruisce, per così dire, i retroscena musicologici relativi al quintetto: nella sua prima edizione del 2000 (rappresentata al ROF nel 2001, poi ripresa nel 2005, con Dario FO) Gossett stesso aveva musicato il recitativo della scena VI (Alberto che dichiara il suo amore a Doralice, creduta figlia di Pomponio) e poi il testo del quintetto (scena VIII) era stato declamato sul sottofondo al fortepiano della Danza dalle Soirées musicales. Una soluzione assai più complessa e ardita era stata poi proposta in Germania da Stefano Piana, che aveva presentato il quintetto con musiche derivate per induzione dal sestetto de La Cenerentola (opera successiva e oggetto di importanti imprestiti da La Gazzetta, a partire dall’intera Sinfonia) e dal quartetto de La scala di seta, oltre che dal finale primo del Barbiere, per il famoso Mi par d’esser con la testa.  

 

Gossett ammette di aver molto apprezzato l’acume di Piana nel predisporre la sua soluzione alla mancanza della musica del quintetto, soluzione che è poi stata in gran parte invalidata dal recente ritrovamento dell’originale di Rossini. Che ha rivelato come la prima sezione del quintetto medesimo sia musica del tutto nuova (c’è in effetti una premonizione a La Cenerentola, ma non al sestetto, bensì all’introduzione); che la seconda derivi effettivamente da La scala di seta, ma con importanti modifiche, specie nelle modulazioni di tonalità; e che la terza riprenda sì il sestetto del Barbiere, ma anche qui con importanti varianti (non c’è la sezione in MIb e nel finale il DO maggiore lascia fugacemente spazio ad un LAb maggiore).   


Da parte sua Scipioni, dopo aver ricostruito le vicende che portarono alla creazione del libretto (da Goldoni) e alla rappresentazione dell’Opera, ci ragguaglia con minuziosi dettagli riguardo ai numerosi imprestiti sparsi nella partitura, ma concentrati prevalentemente nel primo atto. Oltre a quelli già citati da Gossett, veniamo a sapere che già nell’Introduzione quadripartita troviamo il coro (Chi cerca il piacere) che proviene da Torvaldo e Dorliska; poi, dopo l’aria di Alberto, nuova, il recitativo accompagnato (Oh sior Alberto) da L’equivoco stravagante e da La scala di seta; infine il terzetto con coro (Portala qua) ancora da Torvaldo. La cavatina di Lisetta (Presto, dico) proviene, ma diversamente orchestrata, dall’aria sostitutiva di Fiorilla (Presto amiche) del Turco in Italia. Il finale primo, strutturato in quattro sezioni, presenta nella terza (Giusto ciel) un imprestito dal Torvaldo. Altri imprestiti più o meno corposi vengono da La pietra del paragone, La cambiale di matrimonio e Sigismondo.

La presenza del quintetto appare davvero come una necessità (musicale innanzitutto, ma anche drammaturgica e spettacolare) tanto che si fatica ormai ad immaginare come potesse configurarsi una rappresentazione che ne fosse priva: e questo credo proprio spieghi la lunghissima assenza dalle scene di un’Opera che aveva un primo atto ridotto musicalmente, drammaturgicamente e spettacolarmente ad un corpo deforme perché mutilato. Restano così ancor più inspiegabili le ragioni per cui Rossini in persona lo volle rappresentato in tal forma.
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Ieri l’ascolto (e visione) dal vivo mi ha confermato la buona impressione della prima ascoltata in radio, e anche il pubblico ha mostrato di apprezzare, applaudendo a scena aperta dopo ciascun numero, e tributando alla fine un meritato trionfo per tutti.

E su tutti ha spiccato lo Storione del volga di Nicola Alaimo, per possanza di voce (oltre che per… stazza fisica!): qualche eccesso gli si può perdonare, portandolo a credito della componente attoriale della sua prestazione.

Benissimo l’esordiente (al ROF, sia chiaro) Vito Priante, un Filippo davvero convincente, bella voce tornita e chiara in tutta l’estensione, da baritono rossiniano. Buone notizie anche per Maxim Mironov, che si è confermato tenor-ino (nella voce, -one nel fisico da cestista) di qualità, presentandosi subito sicuro nell’esordio di Ho girato il mondo intero, e poi guadagnandosi un’ovazione alla fine dell’aria del second’atto (O lusinghiero amor).
Completavano la sezione-androceo del cast Andrea Vincenzo Bonsignore, che si è onorevolmente accollato la parte non proibitiva di Traversen, e Dario Shikhmiri, un onesto Anselmo.

Nel campo femminile, discreta prestazione della Lisetta di Hasmik Torosyan (per la verità mi aveva meglio impressionato alla radio) che è dotata di voce ragguardevole che però, soprattutto salendo agli acuti, tende un filino a stimbrarsi, virando al… metallizzato. Discreta la sua tecnica, come testimoniato dai virtuosismi richiesti dalla parte. Abbastanza sicura Raffaella Lupinacci, che ha creato un’onorevole Doralice, manifestatasi in pieno nell’aria (spuria) Ah, se spiegar potessi. Un gradino sotto (per me, s’intende) la Madama di Josè Maria Lo Monaco, voce dal timbro sgradevole e intonazione non sempre appropriata. Le tre cantanti (così come Bonsignore e Shikhmiri) vengono da recenti esperienze dell’Accademia di Zedda (che sedeva in un palco a ricevere i loro omaggi…) il che testimonia della validità di tale iniziativa, ma anche di una certa fretta nel promuovere le voci al cartellone principale del ROF.

Il coro maschile di Andrea Faidutti ha meritoriamente dato il suo contributo al successo della serata. Enrique Mazzola ha confermato quanto di buono udito in radio: direzione attenta ai particolari e alle sfumature (qui l’Orchestra bolognese ha confermato la sua buona forma) e precisa concertazione delle voci; insomma, per lui un ritorno proficuo al ROF dopo le presenze marginali (ma significative) risalenti all’ultima fine-secolo (!)
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L’allestimento di Marco Carniti (applauditissimo anche lui alle uscite finali) mi è parso complessivamente indovinato. Le scene di Manuela Gasperoni assai spartane, racchiuse da lunghi pannelli a mo’ di tendaggio semitrasparente, con tavoli mobili e poco più (così immagino abbiano contribuito a non far aumentare troppo il rapporto debito/PIL del Festival) hanno comunque creato spazi e occasioni per i movimenti di singoli e masse. Simpatici i costumi di Maria Filippi ed efficaci le luci di Fabio Rossi. In generale mi è parso di rilevare una specie di crescendo (rossiniano) nella tinta complessiva della scena: si è passati da mille sfumature di grigio (con poco bianco e nero) del primo atto ad una progressiva accentuazione cromatica col progredire della rappresentazione.

Da segnalare in particolare la sceneggiatura del terzetto maschile del second’atto (il duello) che ha impegnato i protagonisti in esilaranti gag, con Alaimo nelle vesti dell’elefante ballerino, culminate in uno sfrenato Cantiamo, balliamo, che ha strappato un uragano di applausi divertiti.

Non si può a questo punto non parlare del Tommasino di Ernesto Lama. Come la gazza di Michieletto e il ragazzino-minatore di Vick, è stato il prezzemolo sparso a piene mani sulla rappresentazione. Lui sembrava un Pietro DeVico di buona memoria, una macchietta straordinaria cui Carniti ha affidato il compito di vivacizzare ogni scena, mettendogli anche in bocca qualche battuta non precisamente scritta da Palomba. E affidandogli anche qualche sottile (e tutto sommato innocente) messaggio socio-politico (Vick ha fatto scuola) culminato nel cartello esibito alla fine: con la cultura si mangia?  

Ecco, facendo proprio questo drammatico interrogativo, chiudo il mio personale diario del ROF-36 operistico. Mi resta però ancora un’ultima stazione di via-crucis (smile!): eh sì, quella dove… Stabat Mater.

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