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18 gennaio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.12 - Tjeknavorian

Alla ripresa della stagione principale, dopo le fatiche del Concerto di Capodanno (quattro serate in Auditorium più una al KKL di Lucerna) l’Orchestra Sinfonica di Milano propone, sempre sotto la guida di Emmanuel Tjeknavorian, un programma otto-novecentesco che ci porta da Schumann a Shostakovich.

Del romantico di Zwickau si ascolta il Concerto per violoncello, spesso criticato (come tanta sua altra musica) come difficile, contorto e, soprattutto, male orchestrato. Al punto che uno dei suoi interpreti più famosi, Mstislav Rostropovich, dopo averlo più volte suonato, chiese all’amico Shostakovich (che di ri-orchestrazioni se ne intendeva… Musorgski ne sa qualcosa) di rimetterlo a nuovo.

Il solerte Dmitry, che già nel 1959 gli aveva dedicato il suo primo, lo accontentò subito (1963). E pochi anni dopo (1966) gliene dedicherà anche un secondo! L’ascolto del concerto riorchestrato permette di percepire alcune delle novità introdottevi da Shostakovich: una chiara sovraesposizione degli strumentini (con impiego dell’ottavino) e delle trombette; l’aggiunta dell’arpa al Langsam centrale e, nel finale, alcune scariche, tipicamente novecentesche, dei timpani.

Ma curiosamente Rostropovich, dopo averne sperimentato questa versione russa, tornò… all’ovile di Schumann! Del quale oggi vengono sempre di più rivalutati anche gli originali delle Sinfonie, che tale Mahler si era permesso di… correggere, nell’intento di migliorarne l’appeal verso il pubblico.

È Jeremias Fliedl, un conterraneo e amico del Direttore e, come lui, poco più che un ragazzo (classe ’99) ad interpretare l’Op.129 così come lasciataci dal suo Autore (qui una sua recente esibizione).

Tecnica sopraffina e grande qualità del suono del suo strumento (targato Stradivari) hanno davvero restituito a questo brano tutto il suo struggente contenuto romantico, conquistando il pubblico, anche ieri assai folto e caloroso, a testimonianza che il Tjek – con gli amici che si porta dietro – sta già imprimendo un chiaro salto di quantità alle presenze in sala. Il Direttore ha chiesto uno speciale applauso anche per il primo violoncello Mario Shirai Grigolato, al cui strumento Schumann organizza un simpatico rendez-vous con quello del solista.

Grandi applausi per tutti, e così il ragazzino Jeremias si commiata ringraziando Milano per l’accoglienza con… Bach.

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Del compositore russo (scomparso proprio mezzo secolo fa) ascoltiamo poi l’enigmatica Decima Sinfonia (qui alcune mie note illustrative in proposito). Come accade anche per altri lavori legati in qualche modo a contenuti extra-musicali (nella fattispecie i difficili e altalenanti rapporti di Shostakovich con il potere sovietico, piuttosto che la sua bizzarra relazione con l’allieva azera) personalmente tendo a gustare la musica solo per se stessa, cercando se possibile di ignorare quei legami.

E se non è proprio possibile, quando si incontra, come nel finale, un’autentica gragnuola di DSCH (RE-MIb-DO-SI, la carta d’identità del compositore) beh, accettiamola come un giustificabile sfogo da parte di un uomo che – a Stalin defunto – ci teneva a ricordarci tutti i torti subiti dal regime, ecco.

laVerdi ha una tale dimestichezza con questa musica (acquisita fin dai tempi in cui incise tutte le 15 Sinfonie con Oleg Caetani) che la resa dell’esecuzione è sempre garantita, ma certo che il Tjek ancora una volta ha stupito, dirigendo a memoria questo mostro: cosa non ha saputo cavare dal finale a dir poco travolgente, aizzando il pubblico ad un vero e proprio tumulto! 


23 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.8

Ancora il Direttore Musicale sul podio di Largo Mahler. E ancora con un concerto di quelli di una volta, e immerso nel più profondo romanticismo! Auditorium ancora preso d’assalto, con illustri presenze (cito solo lo scaligero Sovrintendente con signora…) e la diretta su Radio3 introdotta dal navigato Bossini.

L’antipasto che Tjeknavorian ci propone (se ne è vista un’anticipazione nella scorsa puntata di Splendida cornice su RAI3) è opera di Felix Mendelssohn, la sua Ouverture zu den Hebriden (Fingals Höhle) composta a cavallo dei primi anni 30 dell’800 dopo un viaggio in Scozia. È in effetti un micro-poema-sinfonico (10’ sì e no) il cui soggetto è l’ambiente naturale di quelle isole scozzesi (che ispireranno poi la Terza Sinfonia) e in particolare di Staffa (con le sue imponenti colonne basaltiche che incorniciano la grotta marina) sul quale si innesta la spuria leggenda del guerriero Fingal (Fionn mac Cumhaill) preteso padre di Ossian e fiero nemico di invasori vichinghi e romani.

In Appendice qualche nota sulla struttura del brano, che il Tjek ci ha offerto con leggerezza proprio mendelssohniana, mettendone in risalto i contrasti, ma senza mai eccedere in facili eccessi enfatici.

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Arriva ora un altro poco più che ragazzo, il 23enne Daniel Lozakovich, svedese di nascita, ma di genitori migranti dall’est, Bielorussia e Kirgizistan, quindi fulgido esempio di globalizzazione dal volto umano, ecco!  

Ci suona il tormentato Concerto per violino di Robert Schumann, opera composta quasi allo scadere dell’avventura terrena del genio di Zwickau, definita da molti un concerto maledetto, anche a causa dell’eccesso di circostanze reali (il sequestro dei manoscritti da parte del deluso e scettico dedicatario Joachim) e di invenzioni romanzate (apparizioni di Schumann in sedute spiritiche) che si sono diffuse relativamente alla sua composizione e poi alla sua riscoperta, come avevo succintamente ricordato anni fa in occasione della precedente esecuzione qui all’Audtorium.

Certo, che il lavoro sia partorito da una mente disturbata è cosa difficile da negare: se si esclude il centrale Langsam, basta osservare la ossessiva riproposizione di frasi musicali lasciate a metà, o di cadenze che… non cadono mai (specie nel finale). Ma, se eseguita con la giusta ispirazione, è un’opera che merita di essere rispettata ed apprezzata.

E devo dire che il giovanissimo Daniel, che con il giovane Emmanuel ha un solido legame di amicizia, ha proprio raggiunto l’obiettivo, distillando il meglio da questo Schumann tanto bistrattato. Proprio nella polacca conclusiva (mi) ha convinto del tutto, a partire dal tempo tenuto, che molti suoi colleghi snobbano come insopportabilmente lento e trasformano in… Ciajkovski!

E ovviamente le sue eccezionali doti tecniche hanno poi fatto il resto, garantendogli un urgano di applausi che lui ha ricambiato, osservato e ammirato dal Direttore sedutosi fra le viole, con una sensazionale Ballade di Ysaÿe.

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La chiusura era riservata a Franz Schubert e alla sua piccola Sinfonia in DO. Così amichevolmente chiamata per distinguerla da quel mostro, sempre in DO, che va sotto il nome di grande.

Schubert, sommo liederista e camerista, difficilmente sarebbe passato alla storia solo grazie alle sue sinfonie. La cui debolezza principale – oltre al fatto di essere, come minimo le prime tre (ma possiamo arrivare anche a questa…) lavoretti scolastici di uno che era poco più che un ragazzino - si annida sempre nel primo movimento, quello che, da Haydn in poi, e massimamente con Beethoven, dà l’impronta a tutto il lavoro.

E il primo tempo deve essere in forma-sonata; e la forma-sonata richiede tassativamente la presenza di (come minimo) due temi: il primo di carattere maschio (eroico, imperioso) e l’altro  (femmina,  contemplativo, elegiaco) che devono prima presentarsi, poi provare - se ci riescono - a convivere, ma in ogni caso devono confrontarsi e magari addirittura affrontarsi e scontrarsi, per poi concludere miracolosamente la pace con la quale il secondo tema entra nella casa del primo (proprio come una moglie entra, patriarcalmente, in quella del marito).

Ebbene, al giovane Schubert sinfonista mancava proprio la capacità non di inventare dei piacevoli temi (e ci mancherebbe!) ma di trovarli ed accoppiarli con le caratteristiche richieste da quelle regole del gioco. Nei primi tempi delle sue sinfonie i due temi sono quasi sempre neutri (né completamente eroici, né completamente elegiaci: né-carne-né-pesce, si potrebbe malignamente insinuare) e quindi il compositore fatica assai a creare le condizioni per farli muovere e vivere all’interno della forma canonica. 

Questo limite si manifesta puntualmente anche nella sesta sinfonia, che si apre con ben 30 battute di un solenne Adagio (proprio à la Haydn) che serve ad introdurre l’immancabile Allegro. Il quale però soffre della mancanza di stacco, di conflittualità (potremmo dire) fra i due temi, cui non basta certo differenziarsi per la tonalità (DO-SOL) per creare quell’atmosfera particolare che è l’essenza dei primi tempi di sinfonia:

La scarsa distanza fra le personalità dei due temi (il secondo pare più un controsoggetto del primo) ha come conseguenza l’atrofizzazione dello sviluppo, poi compensata da una corposa ricapitolazione seguita infine da una coda pretenziosamente enfatica.

Nei movimenti centrali (Andante e Scherzo-Trio) la vena melodica di Schubert va a nozze; poi il Finale è ancora una volta assai ricco (pur se monotono la sua parte) con una coda in cui compare anche un protervo Beethoven: un chiaro preludio a quello della futura grande.

Il riservato Tjek, che deve avere tutta la biblioteca di partiture ben ordinata nella sua folta… capigliatura, con questo Schubert non ha lesinato nemmeno la retorica e l’enfasi che aveva controllato assai nei primi due brani.

Ne è uscita un’esecuzione che ha trascinato il pubblico all’entusiasmo, sfociato in applausi ritmati che il Direttore ha trasferito ai suoi ragazzi, davvero in stato di grazia.

E domenica mattina, come sgambatura di preparazione in vista della replica del concerto del pomeriggio, il Tjek e sette magnifici archi dell’orchestra saranno al Teatro Gerolamo per deliziarci ancora con Mendelssohn e Schönberg!   

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Appendice. Le Ebridi.

Il breve brano è in Allegro moderato, in forma-sonata e vi campeggiano due temi principali: il primo in SI minore, piuttosto mosso, quasi agitato, è subito esposto da fagotto, viole e celli in tre ondate successive dell’alzarsi della marea, con armonizzazione di Si minore, poi RE maggiore, poi FA# minore (come a scalare la triade di SI minore) creata da violini, clarinetti e flauti:

Appare una seconda idea, derivata dal tema, che viene ripreso dai violini, ancora seguito dalla seconda idea. Ora abbiamo un corposo ponte basato su varianti del primo tema, che ci porta ad una distensione dell’atmosfera, culminante nell’esposizione del secondo, più calmo e sereno, quasi uno squarcio di mare in bonaccia… affidato a celli e fagotto, canonicamente nella tonalità di RE maggiore:

Lo riprendono tosto i violini, poi una cadenza chiude l’esposizione e il primo tema ricompare per dare inizio ad un grandioso sviluppo, caratterizzato dal risuonare di fanfare e poi da un ripetuto e stentoreo richiamo dei fiati (che siano il ricordo delle eroiche imprese di Fingal in quelle acque?) Il secondo tema e poi il primo (questo portato in tonalità maggiore) sembrano preparare un’apparente calma che però presto si trasforma in un’atmosfera agitata, caratterizzata dall’irruzione (sul primo tema esposto con ritmo marziale) che progressivamente porta ad un climax che ricorda epici scontri e battaglie marine.

Ma anche il trambusto si attenua rapidamente. Siamo quindi alla ricapitolazione: il primo tema torna portandosi dietro reminiscenze guerresche, poi si calma lasciando spazio al secondo, che riappare, canonicamente in SI maggiore e romanticamente ampliato.

Ma ancora c’è tempo (…Animato) per un ultimo e trionfale sfogo del primo tema, in mezzo a folate di vento e squilli di tromba. Poi tutto si chiude in pianissimo, con i due temi che si riuniscono, proprio in una stessa battuta, la terz’ultima: il primo nel clarinetto, sul FA#, il secondo nel flauto, sul SI, la quinta vuota che oboi e archi ripetono in pizzicato


17 maggio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.23

Il concerto di questa settimana dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretto da Michele Gamba, si inquadra nella prestigiosa rassegna Milano Musica, giunta alla 33ma edizione, e presenta quindi una prima assoluta di un’opera contemporanea, dal titolo evocativo (perchè legato alla seconda parte del programma) Kinderszenen, Concerto per pianoforte, elettronica e orchestra di Marco Momi, che collabora con l’IRCAM di Parigi di cui impiega anche in questo lavoro i servizi elettronici e informatici, governati da Serge Lemouton e Jérémie Henrot.

Alla tastiera la rediviva Mariangela Vacatello, apparsa in Auditorium per la prima volta precisamente 9 anni orsono (poi aveva suonato con laVerdi alla Scala all’inaugurazione della stagione 21-22). [Attualmente la coppia Vacatello-Gamba occupa le posizioni di Direttore Artistico e Direttore Musicale del Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano.]

Della narrativa del brano, che dire? Ciò che si sente effettivamente ha qualche riferimento a scene bambinesche, nel senso che pare di ascoltare un bimbetto che, in ginocchio sulla poltroncina dell’esecutore, si diverte un mondo a pestare sui tasti del pianoforte… e poi non si accontenta della tastiera, ma vuol anche provare a ravanare dentro la cassa. 

Il pianoforte poi è amplificato, quindi il suono che ne esce riempie la sala sovrastando l’orchestra e pure… l’informatica/elettronica, che qui assume quasi il ruolo di basso continuo. 

Poi scopriamo (almeno io) che il violino è anche uno strumento a fiato (!?) Poiché può emettere uno specialissimo suono quando l’esecutore lo avvicina alla bocca e soffia sulle corde. Insomma, grandi novità, da lasciare a... bocca aperta.

Ora però, la critica che personalmente mi sento di fare a quest’opera (a parte che... ops, la tonalità d’impianto è indecifrabile) è che dura quasi il doppio del pezzo pianistico di pari titolo di Schumann!

Va da sé che compositore, solista, direttore, strumentisti e addetti tecnologici meritano comunque un applauso di cortesia per l’abnegazione dimostrata. E va detto che parte dello scarso pubblico è andata anche più in là, in fatto di accoglienza.
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Poi, guarda caso, a completare il programma è quel grande dell’800, Robert Schumann, di cui si è eseguita la Prima Sinfonia (nickname: Primavera).

Che, chissà come, dopo 180 anni ancora si ostina ad accendere il calore e l’entusiasmo di tutto il pubblico. 

16 dicembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.6

Il sesto concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano vede sul podio il Wunderkind Thomas Guggeis che dirige un programma fatto tutto (si potrebbe dire) in famiglia.

Siamo infatti a casa Schumann e ci troviamo un frequentatore abituale: Brahms. Entrambi pubblicheranno 4 Sinfonie e il concerto prevede l’esecuzione delle due Terze. Gli esegeti si sono sbizzarriti nel proporre più o meno improbabili similitudini e confronti: uno di questi apparenterebbe le due sinfonie all’Eroica beethoveniana: entrambe hanno i movimenti esterni assai energici, il primo di entrambe è in tempo 3/4 e una di esse ha pure il MIb di impianto…

In realtà sono due sinfonie dal carattere sereno, in modo maggiore (MIb per Schumann, FA per Brahms). Schumann evoca la Natura, sotto le spoglie del più grande fiume romantico, il Reno (nel quale romanticamente si getterà, totalmente uscito di melonera…) e dell’austero gotico della Cattedrale di Colonia; nella sinfonia del secondo la padrona di casa, Clara, dichiarerà di vedere (primo movimento) boschi e foreste con il sole che sorge dietro gli alberi, i boscaioli (secondo movimento) inginocchiati ai piedi di una cappella nel verde, e ancora lo sciacquio del ruscello ed il ronzio degli insetti… (quindi, niente di eroico, ma una Pastorale? Dopo un’altra pastorale, la Seconda?)

Questi due esempi possono farci riflettere sull’eterno problema dell’essenza della musica. Nel caso di Schumann la Sinfonia fu dallo stesso Autore inizialmente arricchita di attributi extra-musicali: un mattino sul grande fiume, l’austera cerimonia in una chiesa… attributi poi ritirati per far posto all’invito all’ascoltatore ad abbandonarsi alle note, solo da esse traendone gratificazione (40 anni dopo il suo epigono – e ri-orchestratore - Mahler cadrà nella stessa trappola). Quanto a Brahms, che nulla lasciò trapelare della sua ispirazione per la Sinfonia, la reazione di Clara è la lampante dimostrazione che i suoni (o certi suoni) possono generare o far emergere dal profondo della psiche umana immagini o sensazioni extra-musicali.

In questo concerto andiamo a ritroso nel tempo, ascoltando per prima la Terza Sinfonia di Brahms (1883). E qui conviene domandarsi il perché di questa sequenza, che oltretutto spiega e giustifica anche il titolo dato al concerto: La Renana.

E la risposta alla domanda sta nelle note Brahms-iane che arrivano quasi subito alle nostre orecchie: sì, perché sono di… Schumann! 

Brahms eleva alla dignità di primo tema dell’esposizione un motivo che Schumann aveva impiegato marginalmente, 33 anni prima, nella ripresa del movimento iniziale della sua Terza: senza dubbio un omaggio al grande amico e sostenitore, ed allo stesso tempo un esplicito riferimento al soggetto extra-musicale che lo aveva ispirato (il Reno fiancheggia proprio il lato sud di Wiesbaden, dove Brahms compose la Sinfonia). 

Ma se si tratta di Reno, come si fa a non citare un convitato di pietra a questo concerto: Richard Wagner, che al grande fiume si ispirò per la sua Commedia renana. Nella quale troviamo almeno tre Leit-Motive basati su una variante (la sesta invece della tonica di partenza) del tema schumanniano: le Figlie del Reno, il Sonno e l’Uccellino del bosco.  

Sarebbe azzardato affermare che Wagner abbia mutuato il suo tema da Schumann: è ben vero che la musica del Ring vede la prima luce almeno un paio d’anni dopo la Renana, ma è difficile immaginare che il Wagner migrante perché inseguito da un mandato di cattura potesse perder tempo a scopiazzare partiture altrui non ancora fresche di stampa…

Invece, a proposito di Wagner, l’esternazione di Clara richiama alla mente il cosiddetto Waldweben (il mormorio della foresta, second’atto del Siegfried) composto 7 anni dopo la Sinfonia del marito e 26 prima di quella dell'amico prediletto! Ed era una indiretta risposta al purista Eduard Hanslick (convinto ammiratore di Brahms, si noti) che negava alla musica qualsivoglia capacità di esprimere (menchemeno di descrivere) alcunchè, al di fuori di se medesima. Ma alla base di ciò vi era un grande equivoco: di certo, senza un testo cantato o almeno ad essa associato dall’esterno (tipo il soggetto di un Poema Sinfonico) la musica da sola nulla può descrivere; ma invece è fuor di dubbio che qualunque musica, indipendentemente da ciò che può averla ispirata, sia in grado di suscitare in noi le più diverse sensazioni, o evocare alla nostra mente immagini, oggetti e persino concetti. 

Dopodichè ciascuno di noi può abbandonarsi a fantasticherie indotte dall’ascolto di un brano musicale, oppure limitarsi a (possibilmente) godere di esso la macro- e la micro-struttura, esclusivamente dal punto di vista estetico. Accade lo stesso alla vista di un dipinto, di cui si può ammirare il contenuto esteriore, oppure il magistero artistico dell’Autore.      

Ecco, nel caso di entrambe le Sinfonie in questione, hanno ragione sia Clara che Hanslick: e il merito è dei due Autori, che hanno saputo costruire le loro opere con tale maestria da consentire a noi fruitori di apprezzarle per ciò che evocano alla nostra mente, oppure per il puro piacere estetico suscitatoci dal loro ascolto.

Le tre battute iniziali della Sinfonia recano altrettanti pesanti accordi di FA-LAb-FA, autentico motto dell’opera, dallo stesso Brahms sintetizzato come FaF, che decodificato sta per Froh aber Frei, felice ma libero. (Oggi magari, in servile omaggio ai nostri nostalgici governanti, potremmo tradurlo: Libero e Giocondo !?!)

Motto che tornerà a più riprese (e spesso quasi in incognito…) nel corso dell’iniziale Allegro con brio e infine, significativamente, a chiudere con procedimento ciclico l’intera Sinfonia, con la mutazione in modo maggiore (FA-LA-FA) cui segue una vera perla di Brahms: il tema schumanniano trasfigurato nei violini:

Che purtroppo si rischia sempre di perdere, essendo suonato in pianissimo contro il piano dei corposi accordi dei fiati…
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Ed ecco la Renana, come ormai si chiamerà nei secoli, a dispetto del disconoscimento del nick da parte del suo Autore. L’avevamo ascoltata e apprezzata qui – proprio nell’orchestrazione di Mahler - poche settimane orsono, interpretata dall’ensemble Spira Mirabilis; ieri è risuonata ancora in tutto il suo splendore, una vera gioia per l’orecchio e per… l’anima!
È costruita sul modello (variato) della Pastorale beethoveniana: cinque movimenti, con lo Scherzo avanzato in seconda posizione e un (insolito) quarto movimento di carattere severo, prima del radioso finale. Un modello che il suo epigono Mahler impiegherà per tre (più una… o due…) delle sue nove (dieci...) sinfonie. (Poi anche Édouard Lalo baserà sulla stessa struttura, incluso il quarto movimento serioso, la sua Symphonie Espagnole.)
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Orchestra in grande spolvero, in primis la retroguardia dei fiati, qui messi davvero a dura prova e giustamente lodati dal Direttore al termine di ciascuno dei due brani.

E, appunto, Guggeis? Ormai non c’è più nulla da scoprire, solo da apprezzare. Anche ieri ha confermato le sue doti (innate, penso proprio) di interprete raffinato. Innanzitutto, in Brahms, la stringatezza ed essenzialità (tempi e dinamiche) che nulla ha concesso a divagazioni o facili libertà. In Schumann invece un sapiente uso del rubato e di piccole variazioni agogiche sempre impiegate con equilibrio e misura.

Il suo gesto, a volte fin troppo appariscente, altre assai secco e imperioso, può far nascere qualche riserva, ma complessivamente le due prestazioni mi son parse di grande livello e proprio da incorniciare.

E così pare averla pensata anche il pubblico (di un Auditorium non affollatissimo, per la verità) che non ha lesinato ovazioni ed applausi ritmati al Direttore. Il quale, da parte sua, si è modestamente limitato a due sole uscite alla fine dei due brani in programma.  

12 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#12

L’ultima Orchestra Ospite del Festival è la Toscanini di Parma, guidata da Omer Meir Wellber (al suo esordio in Auditorium) che ci ha presentato un concerto già dato nei giorni scorsi a Como e a Parma (quindi ormai… collaudato).

Vi troviamo le tre principali componenti della produzione mahleriana esplorate dal Festival: Sinfonia, Lieder e orchestrazioni di musica altrui (Schumann, nella fattispecie).

Si è quindi aperto con l’Andante-Adagio, unico movimento portato (quasi) a compimento della Decima, che Mahler mise sulla carta nell’estate del 1910 a Toblach, la sua ultima estate e per di più quella più dolorosa (almeno quanto quella del 1907 a Maiernigg): perché vi arrivò la terza martellata che il superstizioso Mahler aveva cancellato dal finale della sua Sesta (anzi, potremmo dire fosse in realtà la quarta martellata): il tradimento di Alma! Un colpo che peraltro il compositore, riavutosi dallo choc della sorpresa, incassò con grande dignità, ammettendo le sue colpe (inadempienze ai doveri del letto matrimoniale, per essere precisi) nei riguardi della moglie e correndo fino a Leiden per farsi aiutare da Freud a rimediare alla catastrofe. 

Ed in effetti Alma decise di rimanere stoicamente al suo fianco, mentre il marito arricchiva gli schizzi della nascente Sinfonia costellandoli non già di note, ma di sfoghi, invocazioni, imprecazioni e lamenti. Mahler si dovette poi occupare della trionfale prima dell’Ottava a Monaco e infine partì per NewYork, dove imperterrito continuò a lavorare alacremente con la NYPO, dirigendo un concerto dietro l’altro, fino a che… il cuore già da sempre malmesso fu attaccato dallo sbifido virus che provocò la fatale endocardite. 

E della Sinfonia Mahler lasciò quindi solo lo scheletro (ma una specie di Frankenstein, senza una chiara indicazione di quali fossero le braccia, le gambe, il torso e il bacino, tanto per dire…) Lo stesso movimento completato doveva essere presumibilmente il secondo dei cinque sbozzati in Particell (1-2-3-4-5 righi musicali al massimo) e arrivati a noi dalla moglie Alma che li rese pubblici nel 1924.

E persino su questo movimento giuntoci in manoscritto nella sua interezza (orizzontale e… verticale) possiamo star tutt’altro che certi che sarebbe rimasto proprio così se l’Autore avesse avuto il tempo materiale per ulteriormente rivisitarlo e rifinirlo, come fece per tutte le sue Sinfonie precedenti.

Ne è prova che persino curatori diversi della pubblicazione di questo Adagio non hanno concordato fra loro. Ad esempio, nell'ormai lontano 1964, proprio nel periodo in cui Deryck Cooke – Alma permettendo - stava facendo eseguire la sua prima versione dell'intera sinfonia, Erwin Ratz, nella sua prefazione all'edizione Universal del solo Adagio, scriveva papale-papale: 

Ciò che sta scritto su questi fogli (i manoscritti mahleriani, ndr) era completamente intellegibile dal solo Mahler, e nemmeno un genio sarebbe capace, da questo stadio di sviluppo del lavoro, di divinare l'approccio alla sua forma definitiva. 

Ma questa sentenza - un grosso siluro a Cooke - veniva pubblicata proprio nella prefazione all’Adagio, che Ratz aveva a sua volta editato (come risulta dal corposo Revisionsbericht…) in quanto incompleto la sua parte, e in base alla considerazione che ormai quel movimento era entrato nel repertorio di tutte le orchestre, e tanto valeva dargli una veste, per così dire, ufficiale, con la benedizione della Internationale Mahler Gesellschaft di Vienna.  

Se si confrontano le due partiture dell’Adagio – di Ratz e Cooke – si possono rilevare differenze di varia natura: alcune sono bizzarrìe belle e buone, come notare un FA bequadro (Cooke) invece di un MI diesis (che Ratz non si accontenta di indicare in chiave, ma scrive esplicitamente davanti alle note); in altri casi troviamo indicazioni agogico-dinamiche divergenti (dove Cooke è assai più ricco ed esplicito di Ratz); infine abbiamo differenze non da poco nell'orchestrazione, dove ad esempio Cooke impiega flauti, oboi, clarinetti e tromboni a4 (mentre Ratz li limita a3), prevede clarinetto basso e controfagotti (assenti nella versione Ratz) e a volte ispessisce il suono aggiungendo oboi e flauti sopra gli ottoni (peraltro sempre in modo distinguibile rispetto al contenuto del manoscritto).

Certo, ad un ascolto superficiale son differenze magari impercettibili, che non cambiano poi di molto la sostanza, ma che testimoniano dell'incompletezza del lavoro mahleriano, che dobbiamo accontentarci di immaginare, più che di assaporare compiutamente.

Meir Wellber – a giudicare dagli strumenti messi in scena – deve aver dato ragione a Ratz. Comunque, Ratz o Cooke, sempre Mahler é… e il Direttore israeliano e la Toscanini lo hanno valorizzato al massimo, facendo emergere i tratti più espressionisti della partitura (che si muove ormai ben oltre i confini della tonalità) insieme alla nobile cantabilità del tema principale. 
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Ancora Mahler con i cinque Rückert-Lieder (qui alcune mie brevi note sui contenuti) interpretati da quel Christoph Pohl che avevamo giorni fa ammirato ed applaudito, con la SantaCecilia, nei Lieder dal Wunderhorn.

Dato che Mahler non indicò alcuna tassativa sequenza di esecuzione, Pohl ha comprensibilmente posto in coda alla sua performance i due Lieder più corposi e di maggior effetto: Um Mitternacht e Ich bin der Welt. Per lui scroscianti applausi, ovazioni e ripetute chiamate.
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Ha chiuso la parte ufficiale del concerto la Quarta di Schumann rivisitata da Mahler. Le differenze rispetto all’originale che anche un non esperto può individuare sono: la mancanza del da-capo dell’esposizione nel movimento iniziale (ma questo è ciò che può fare chiunque…) e i rinforzi dei corni a dare splendore ad alcuni passaggi topici.

Meir Wellber l’ha diretta a memoria, non negandosi/negandoci suoi personali tocchi interpretativi, soprattutto a livello agogico, che hanno impreziosito la Sinfonia ben al di là del valore aggiunto mahleriano.

Alla fine il trionfo (applausi ritmati, urla) non è mancato, cosicchè è stato ricambiato dal mascagniano Intermezzo dalla Cavalleria.    

31 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#6

Il sesto concerto del festival era interamente dedicato (così come il quarto) al Mahler arrangiatore di partiture altrui, nella fattispecie la ri-orchestrazione delle quattro Sinfonie di Robert Schumann. Dopo la Terza interpretata dall’Orchestra Spira Mirabilis, ecco le prime due suonate da un’altra prestigiosa orchestra milanese, quella dei Pomeriggi Musicali, guidata dal giovane newyorkese James Feddeck, che dal 2020 ne occupa la posizione di Direttore Principale.

Uno dei capitoli del nuovo libro Tutto Mahleruscito proprio in occasione e in relazione al Festival, è dedicato dal curatore Gastón Fournier-Facio alla presentazione (da lui tradotta in italiano) che David Matthews predispose per l’uscita del CD delle quattro sinfonie schumanniane riorchestrate da Mahler e incise da Riccardo Chailly con la Gewandhaus di Lipsia.

Vi si legge che nella Prima Sinfonia (la Primavera) oltre a modifiche difficilmente percepibili da un ascoltatore meno che preparatissimo, c’è invece un macroscopico intervento di Mahler, proprio nelle prime 5 battute e riguarda le parti dei corni e delle trombe in SIb (la tonalità d’impianto) che suonano la fanfara di apertura. In realtà qui Mahler non fa che ripristinare l’idea originaria di Schumann, che poi, insoddisfatto della resa del passaggio, aveva attuato un suggerimento di Mendelssohn per porvi rimedio.

Nella versione pubblicata e normalmente eseguita (prima ma anche dopo l’intervento di Mahler) la prima parte della fanfara (suonata all’unisono) percorre una melodia che parte dalla mediante (REb) per poi risalirvi dalla tonica SIb, passando per la sopratonica DO. Quindi: REb/SIb-DO-REb. La seconda parte della fanfara inizia una terza sopra ed è armonizzata per quinte, ottave e terze, partendo dalla dominante FA, per poi ripetere il percorso della prima parte. Quindi: FA/SIb-DO-REb (in rosso gli interventi di Mahler):

Viceversa, la versione originale di Schumann percorreva la melodia esattamente una terza sotto, partendo dalla tonica: SIb/SOL-LA-SIb, poi REb/SIb-DO-REb. Ebbene, Schumann ascoltandola alle prove (dirette da Mendelssohn con gli strumenti senza valvole) si accorse che il SOL e il LA della prima parte uscivano malissimo. E così il Direttore suggerì all’Autore l’idea di innalzare di una terza quelle note.

Ascoltiamo le due versioni: dapprima quella pubblicata (Bernstein, 11”-22” e 23”-35”) e poi quella originale (Chailly, 2”-9” e 10”-18”). Non facciamo caso all’agogica, che è affare dei Direttori, ma la differenza è lampante! Da un punto di vista estetico (ma qui parlo per me) aveva ragione il primo Schumann, che prevedeva una perfetta simmetria fra le due sezioni (percorso tonica-tonica e poi mediante-mediante); simmetria che viene a mancare nella versione pubblicata (mediante-mediante e poi dominante-dominante-mediante) per riallinearsi in vista del passaggio a RE minore, dove Mahler potenzia assai le trombe (si confronti Bernstein, 37”-43” e Chailly, 20”-24”) per poi modificare anche il rullo di timpano (dominante LA al posto della mediante FA di Schumann).

Altri interventi di Mahler riguardano il potenziamento del suono (ad esempio i violini all’inizio del secondo movimento) o la sottrazione di suono (tipicamente degli ottoni) quando rischia di coprire altri strumenti (tipo i fagotti). Interventi sulle dinamiche sono infine percepibili nello Scherzo e poi nel Finale, con crescendi e diminuendi del tutto assenti in Schumann (ma questi sono interventi simili a quelli che molti Direttori fanno comunque nell’interpretare il testo scritto).

Quanto alla Seconda Sinfonia, abbiamo sempre piccoli o piccolissimi interventi di Mahler volti ora a mattere in evidenza, ora a dare meno peso a qualche strumento, per aumentare (secondo lui…) la chiarezza dell’esposizione dei temi. Un esempio lo troviamo precisamente all’inizio della Sinfonia: Schumann lo affida alle due trombe accompagnate dai due corni e da un trombone: in questa esecuzione di Herreweghe si vedono bene (fino a 35”) i due corni… Mahler cancella (qui Chailly, fino a 37”) i corni e il trombone, lasciando soltanto le due trombe in primo piano.

Poi abbiamo ancora interventi su agogica e dinamica, che Mahler tende sempre a… complicare, rispetto alle indicazioni abbastanza scarne e statiche di Schumann. Un intervento sull’armonia è invece presente (anche se può facilmente sfuggire) nelle ultime battute della Sinfonia (qui Herreweghe da 35’39”) da confrontare con Chailly, da 6’56”).           
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Auditorium non certo esaurito, ma comunque abbastanza popolato e soprattutto da un pubblico che non ha lesinato prolungati applausi alla compagine milanese, che ha mostrato tutto il suo valore, nei singoli come nell’insieme.

James Feddeck (lo vedevo-sentivo per la prima volta…) mi ha fatto un’ottima impressione: a partire dalla misura e parsimonia della sua lettura, mai prendendosi gratuite libertà; gesto sobrio e senza inutili gigionerie, quindi molto efficace (mi ha ricordato il suo connazionale Trevino, che vedremo sabato prossimo, impegnato con la Quinta mahleriana); e infine grande empatia con gli orchestrali, a testimonianza di un rapporto ormai solido e di una comunità di intenti fra podio e Musikanten.

Bella serata davvero, anche dal punto di vista meteorologico, dopo i disastri della scorsa notte!

28 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#4

Altra Orchestra ospite per il quarto appuntamento del Festival Mahler: la Spira Mirabilis, la cosiddetta orchestra-senza-direttore (e senza confini, aggiungerei) che per l’occasione si è cimentata nella Terza Sinfonia di Schumann, la Renana, nella versione orchestrata da Gustav Mahler (il che spiega il suo inserimento nel Festival). Nei due giorni scorsi l’Orchestra l’ha già eseguita (come rodaggio…) nella sua terra di nascita modenese, precisamente a Formigine e San Possidonio.

Uno dei capitoli del il nuovo libro Tutto Mahler, uscito proprio in occasione e in relazione al Festival, è dedicato dal curatore Gastón Fournier-Facio alla presentazione (da lui tradotta in italiano) che David Matthews predispose per l’uscita del CD delle quattro sinfonie schumanniane riorchestrate da Mahler e incise da Riccardo Chailly con la Gewandhaus di Lipsia. Vi leggiamo che i principali interventi del compositore boemo riguardano le parti di trombe e timpani (soprattutto tagli nei due movimenti esterni) e poi interventi su molti passaggi, volti a sottrarre o aggiungere strumenti per ottenere nuove o più trasparenti sonorità.

In generale gli interventi di Mahler rischiano di sfuggire ad un ascoltatore non preparatissimo, e solo un minuzioso ascolto comparato fra lo Schumann originale e quello… mahlerei può mettere in chiara evidenza le differenze. Va infine aggiunto che molti esperti tendono oggi a rivalutare proprio il barbaro originale di Schumann (un po’ come è accaduto a Musorgski, liberato dalle incrostazioni di Rimski…) 

Ma queste disquisizioni su Schumann-Mahler in fondo contano poco di fronte all’incredibile realtà della Spira Mirabilis, che è la più netta smentita alla tesi proposta da Fellini nel suo Prova d’orchestra! Certo, capita spesso (e per fortuna!) che un’intelligenza singola arrivi più in alto o più in là di un’intelligenza cooperativa: i Mahler, Walter, Furtwängler, Karajan, Bernstein, Abbado, etc. ne sono prova lampante, ma… è altrettanto vero che la cooperazione fra individui di pari diritti e autonomia può ben tener testa ad una tradizionale organizzazione verticale ed aziendalista.

Ne abbiamo proprio avuto conferma qui: ascoltando una compagine che sa creare grandi esecuzioni con il contributo non solo materiale ma anche intellettuale di tutti.

Dove tutti significa anche ciascuno, e così anche le consuetudini riservate al Direttore o al Solista di concerto qui si estendono a tutta la compagine che, finita la Sinfonia, esce tutta insieme di scena e poi tutta insieme rientra (e non una sola volta!) per ringraziare degli applausi del pubblico.

Personalmente rimpiango solo di non essermi potuto trattenere (Scala incombente!) più a lungo per assistere al consueto congedo dei musicisti dal pubblico, invitato a commentare, chiedere, scambiare impressioni sull’opera eseguita e sulla vita dell’Orchestra.

Resta comunque la sensazione di aver vissuto un’esperienza (almeno per me) unica nel suo genere.

07 maggio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 28


A tre giorni di distanza dall’annuncio del restyling del brand dell’Orchestra e del programma della prossima stagione, lo smilzo finnico Hannu Lintu è tornato qui in Auditorium, dove ormai ripassa con cadenza triennale: giugno 2016, giugno 2019 e ora maggio 2022. Alla sua prima comparsa si era già cimentato con lo Schumann sinfonico (4a) e ora del genio di Zwickau ci propone la celebre Terza.

Ma prima arriva Luca Buratto (artista in-residenza qui) per interpretare, di Béla Bartók, il Terzo concerto per pianoforte. Concerto che il compositore magiaro non riuscì a completare per sole 17 battute di orchestrazione del finale, raggiunto dalla morte il 26 dicembre del 1945 a NewYork. Una morte ormai attesa, il cui avvicinarsi potrebbe aver indotto Bartók a dare all’opera un taglio assai diverso da quello della sua precedente produzione, in particolare da quello dei suoi due altri concerti, composti 19 e 15 anni prima: in effetti un approccio assai più riflessivo, meno spigoloso e, per ciò che riguarda la tastiera, meno... percussivo.

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Esploriamolo sommariamente insieme a Hélène Grimaud e Pierre Boulez. Il primo movimento (Allegretto, tonalità MI) rispetta sostanzialmente i canoni della forma-sonata. Al primo tema, piuttosto tranquillo e sereno, esposto dal pianoforte, segue (45”) un lungo ponte dove l’orchestra è protagonista fino a 1’12”, quando il solista riprende le redini e porta al Tema 2 in SOL (2’11”) un po' più nervoso, che chiude l’esposizione. A 2’56” un inciso del primo corno apre la sezione di sviluppo, assai complesso, con almeno quattro parti in tonalità diverse sempre crescenti su una scala a toni interi (da LAb fino a SOL#) prima di arrivare (4’38”) alla ripresa del primo tema e poi (6’24”) del secondo, portato canonicamente sulla tonalità MI del primo. Una breve coda di 10 battute conduce alla fine, con un gaio intervento del primo flauto e un’ultima... sbirciatina del solista.

Segue ora (7’34”) l’Adagio religioso, in DO, che ha la semplice forma A-B-A’. Dopo 15 battute introduttive degli archi supportati dal clarinetto, il pianoforte (8’51”) presenta la sezione A in forma di solenne corale, caratterizzata da 5 domande-risposte con gli archi. A 12'14” inizia la sezione B, assai più mossa, che si può ben definire - sulla scia della beethoveniana Pastorale - ornitologica, articolata in tre ripetizioni bipartite del canto di uccelli, protagonisti oboe, clarinetto e flauto a provocare le risposte del pianoforte. A 14’02” ecco la ripresa di A che, rispetto alla prima presentazione, è affidata principalmente ai fiati, con il pianoforte a fare da contraltare. Si chiude con le battute introduttive del movimento, prima dell’attacco diretto al conclusivo Allegro vivace in MI (18’45”).

Qui abbiamo un classico (e semplice) Rondo, strutturato come A-B-A-C-A’ più una coda bipartita. È il pianoforte protagonista della sezione A, caratterizzata da ritmo sincopato, cui segue (19’27”) una transizione chiusa da un lungo intervento del timpano solo. La sezione B inizia a 19’42”, dapprima affidata al pianoforte solo, poi raggiunto dagli archi e quindi dai fiati. Altra transizione (20’39”) che ci porta al ritorno (20’52”) della sezione A. Dopo la relativa transizione (21’10”) ancora chiusa dal timpano, ecco la sezione C (21’20”) più distesa, che comprende (21’47”) un passaggio fugato e poi (22’29”) una lunga transizione che ci porta in crescendo all’ultima comparsa (23’10”) della sezione A (estesa).

Dopo due battute di pausa, a 24’19” ecco la prima parte della Coda, che prepara il rush finale (25’11”).
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Luca ne cava un’interpretazione davvero ispirata, che ha il suo apice nel corale dell’Adagio religioso, per poi chiudersi trionfalmente con il travolgente Rondo.

Il pubblico non proprio oceanico lo gratifica di ovazioni, così lui si congeda con un bis del suo amato Schumann: In der Nacht, n°5 delle Fantasiestücke op.12. 
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Ed eccoci alla famosa Renana, ultima delle 4 sinfonie composte da Schumann, a dispetto del n°3 di catalogo. Musica che viene da un cervello (temporaneamente) in pace con il mondo, tanta è la vitalità e la comunione con la natura che la ispira.
Lintu ce la restituisce in tutto il suo splendore, grazie ovviamente ad una compagine che la sa suonare divinamente: cito gli ottoni solo perchè hanno le parti più appariscenti, nelle grandiose perorazioni dei movimenti esterni e nel severo corale bachiano; ma tutti indistintamente si sono superati. Significativo l’omaggio che i ragazzi hanno voluto fare al Direttore, restando seduti a... calpestare il tavolato fra gli applausi della sala.