Ancora
il Direttore Musicale sul podio di Largo Mahler. E
ancora con un concerto di quelli di
una volta, e immerso nel più profondo romanticismo! Auditorium ancora preso
d’assalto, con illustri presenze (cito solo lo scaligero Sovrintendente con
signora…) e
la diretta
su Radio3 introdotta dal navigato Bossini.
L’antipasto
che Tjeknavorian ci propone (se ne è vista un’anticipazione nella scorsa puntata
di Splendida
cornice su RAI3) è opera di Felix Mendelssohn, la sua Ouverture
zu den Hebriden (Fingals Höhle) composta a cavallo dei primi anni 30
dell’800 dopo un viaggio in Scozia. È in effetti un micro-poema-sinfonico (10’
sì e no) il cui soggetto è l’ambiente naturale di quelle isole scozzesi (che
ispireranno poi la Terza Sinfonia) e in particolare di Staffa
(con le sue imponenti colonne basaltiche che incorniciano la grotta marina) sul
quale si innesta la spuria leggenda del guerriero Fingal (Fionn mac Cumhaill)
preteso padre di Ossian e fiero nemico di invasori vichinghi e romani.

In
Appendice qualche nota sulla struttura del brano, che il Tjek ci ha offerto con leggerezza proprio mendelssohniana, mettendone in risalto i contrasti, ma
senza mai eccedere in facili eccessi enfatici.
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Arriva
ora un altro poco più che ragazzo, il 23enne Daniel Lozakovich, svedese
di nascita, ma di genitori migranti dall’est, Bielorussia e Kirgizistan,
quindi fulgido esempio di globalizzazione dal volto umano, ecco!
Ci
suona il tormentato Concerto per violino di Robert Schumann,
opera composta quasi allo scadere dell’avventura terrena del genio di Zwickau, definita
da molti un concerto maledetto, anche a causa dell’eccesso di circostanze
reali (il sequestro dei manoscritti da parte del deluso e scettico dedicatario Joachim) e
di invenzioni romanzate (apparizioni di Schumann in sedute spiritiche) che si
sono diffuse relativamente alla sua composizione e poi alla sua riscoperta,
come avevo
succintamente ricordato anni fa in occasione della precedente esecuzione
qui all’Audtorium.
Certo,
che il lavoro sia partorito da una mente disturbata è cosa difficile da negare:
se si esclude il centrale Langsam, basta osservare la ossessiva
riproposizione di frasi musicali lasciate a metà, o di cadenze che… non cadono
mai (specie nel finale). Ma, se eseguita con la giusta ispirazione, è un’opera
che merita di essere rispettata ed apprezzata.
E
devo dire che il giovanissimo Daniel, che con il giovane Emmanuel
ha un solido legame di amicizia, ha proprio raggiunto l’obiettivo, distillando
il meglio da questo Schumann tanto bistrattato. Proprio nella polacca conclusiva
(mi) ha convinto del tutto, a partire dal tempo tenuto, che molti suoi colleghi
snobbano come insopportabilmente lento e trasformano in… Ciajkovski!
E
ovviamente le sue eccezionali doti tecniche hanno poi fatto il resto,
garantendogli un urgano di applausi che lui ha ricambiato, osservato e ammirato
dal Direttore sedutosi fra le viole, con
una sensazionale Ballade
di Ysaÿe.
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La
chiusura era riservata a Franz Schubert e alla sua piccola Sinfonia
in DO. Così amichevolmente chiamata per distinguerla da quel mostro,
sempre in DO, che va sotto il nome di grande.
Schubert,
sommo liederista e camerista, difficilmente
sarebbe passato alla storia solo grazie alle sue sinfonie. La cui debolezza
principale – oltre al fatto di essere, come minimo le prime tre (ma possiamo
arrivare anche a questa…) lavoretti scolastici di uno che era poco più che un
ragazzino - si annida sempre nel primo movimento, quello che, da Haydn in
poi, e massimamente con Beethoven, dà l’impronta a tutto il lavoro.
E
il primo tempo deve essere in forma-sonata; e la forma-sonata
richiede tassativamente la presenza di (come minimo) due temi: il primo di
carattere maschio (eroico, imperioso) e l’altro (femmina, contemplativo, elegiaco) che devono prima
presentarsi, poi provare - se ci riescono - a convivere, ma in ogni caso devono
confrontarsi e magari addirittura affrontarsi e scontrarsi, per poi concludere
miracolosamente la pace con la quale il secondo tema entra nella casa del primo
(proprio come una moglie entra, patriarcalmente, in quella del marito).
Ebbene,
al giovane Schubert sinfonista mancava proprio la capacità non di inventare dei
piacevoli temi (e ci mancherebbe!) ma di trovarli ed accoppiarli con le
caratteristiche richieste da quelle regole del gioco. Nei primi tempi delle sue
sinfonie i due temi sono quasi sempre neutri (né completamente
eroici, né completamente elegiaci: né-carne-né-pesce, si potrebbe malignamente
insinuare) e quindi il compositore fatica assai a creare le condizioni per
farli muovere e vivere all’interno della forma canonica.
Questo
limite si manifesta puntualmente anche nella sesta sinfonia, che si
apre con ben 30 battute di un solenne Adagio (proprio à
la Haydn) che serve ad introdurre l’immancabile Allegro. Il
quale però soffre della mancanza di stacco, di conflittualità (potremmo dire)
fra i due temi, cui non basta certo differenziarsi per la tonalità (DO-SOL) per
creare quell’atmosfera particolare che è l’essenza dei primi tempi di sinfonia:

La
scarsa distanza fra le personalità dei due temi (il secondo pare più un
controsoggetto del primo) ha come conseguenza l’atrofizzazione dello sviluppo,
poi compensata da una corposa ricapitolazione seguita infine da una coda
pretenziosamente enfatica.
Nei
movimenti centrali (Andante e Scherzo-Trio) la vena
melodica di Schubert va a nozze; poi il Finale è ancora una
volta assai ricco (pur se monotono la sua parte) con una coda in cui compare
anche un protervo Beethoven: un chiaro preludio a quello della
futura grande.
Il
riservato Tjek, che deve avere tutta la biblioteca di partiture ben ordinata nella
sua folta… capigliatura, con questo Schubert non ha lesinato nemmeno la
retorica e l’enfasi che aveva controllato assai nei primi due brani.
Ne
è uscita un’esecuzione che ha trascinato il pubblico all’entusiasmo, sfociato
in applausi ritmati che il Direttore ha trasferito ai suoi ragazzi, davvero in
stato di grazia.
E
domenica mattina, come sgambatura di
preparazione in vista della replica del concerto del pomeriggio, il
Tjek e sette magnifici archi dell’orchestra saranno al Teatro Gerolamo
per deliziarci ancora con Mendelssohn
e Schönberg!
___
Appendice.
Le Ebridi.
Il
breve brano è in Allegro moderato, in forma-sonata e vi campeggiano due
temi principali: il
primo in SI minore, piuttosto mosso, quasi agitato, è subito esposto da
fagotto, viole e celli in tre ondate successive dell’alzarsi della marea, con
armonizzazione di Si minore, poi RE maggiore, poi FA# minore (come a scalare la
triade di SI minore) creata da violini, clarinetti e flauti:

Appare
una seconda idea, derivata dal tema, che viene ripreso dai violini, ancora
seguito dalla seconda idea. Ora abbiamo un corposo ponte basato su varianti del
primo tema, che ci porta ad una distensione dell’atmosfera, culminante nell’esposizione
del secondo, più calmo e sereno, quasi uno squarcio di mare in bonaccia… affidato
a celli e fagotto, canonicamente nella tonalità di RE maggiore:

Lo
riprendono tosto i violini, poi una cadenza chiude l’esposizione e il primo
tema ricompare per dare inizio ad un grandioso sviluppo, caratterizzato dal
risuonare di fanfare e poi da un ripetuto e stentoreo richiamo dei fiati (che
siano il ricordo delle eroiche imprese di Fingal in quelle acque?) Il secondo tema e poi il
primo (questo portato in tonalità maggiore) sembrano preparare un’apparente
calma che però presto si trasforma in un’atmosfera agitata, caratterizzata
dall’irruzione (sul primo tema esposto con ritmo marziale) che progressivamente
porta ad un climax che ricorda epici scontri e battaglie marine.
Ma
anche il trambusto si attenua rapidamente. Siamo quindi alla ricapitolazione:
il primo tema torna portandosi dietro reminiscenze guerresche, poi si calma
lasciando spazio al secondo, che riappare, canonicamente in SI maggiore e
romanticamente ampliato.
Ma
ancora c’è tempo (…Animato) per un ultimo e trionfale sfogo del primo
tema, in mezzo a folate di vento e squilli di tromba. Poi tutto si chiude in pianissimo,
con i due temi che si riuniscono, proprio in una stessa battuta, la terz’ultima:
il primo nel clarinetto, sul FA#, il secondo nel flauto, sul SI, la quinta
vuota che oboi e archi ripetono in pizzicato.