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16 marzo, 2025

Una lunga Tosca alla Scala.

Ci sono più intervalli che opera… Così una signora di prima galleria dopo i 50’ di sosta fra il primo e il second’atto (guai non meglio precisati nel cambio-scena).

A poco più di 5 anni di distanza è tornata alla Scala la produzione (Santambrogio 2019) affidata per l’allestimento a Davide Livermore, che però è come Paganini, non ripete, e quindi cede il testimone ad Alessandra Premoli.

[Qui le mie note critiche di allora; e qui invece, qualche mia elucubrazione… filologica sull’opera; e infine un parere sulla drammaturgia di Tosca, assolutamente politically-correct, dell’omnisciente IA.]

Oggi cambia il Direttore (Gamba subentra a Chailly) mentre nel cast restano, almeno per qualche recita, due dei personaggi chiave: Meli e Salsi, più il simpatico Spoletta di Bosi.    

Le mie perplessità sulla messinscena espresse allora ovviamente rimangono tali (non essendo io un personaggio politico, non ho la necessità di ribaltarle a seconda del ruolo in parlamento…)

Quindi mi limiterò a qualche considerazione sul fronte musicale. Anticipando che il pubblico (gallerie, quanto meno) si è ampiamente diviso fra applausi e contestazioni. Che hanno colpito Francesco Meli, fin dalla Recondita armonia e poi – assai più accese – dopo il Lucevan le stelle. Contestazioni che non mi sento di condannare del tutto, poiché all’apprezzabile livello dell’espressione non sempre ha corrisposto lo smalto della voce, tutt’altro che impeccabile.

Ma persino Salsi ha avuto alla fine qualche dissenso, personalmente non condiviso. Chiara Isotton è stata una Tosca più che positiva: voce corposa, calda e sempre ben impostata, non ha fatto troppo rimpiangere la Netrebko del 2019.

Bene il Sagrestano di Marco Filippo Romano e il veterano Carlo Bosi come Spoletta. Un po’ al di sotto Costantino Fiorucci (Sciarrone) e un cavernoso Huanhong LI (Angelotti). Gli accademici Xhieldo Hyseni (Carceriere) e la piccola Anastasia Fazio (Pastore) all’altezza dei compiti.

Detto del coro di Malazzi, sempre in gran forma, chiudo su Gamba, a sua volta oggetto di qualche dissenso, in mezzo a convinti applausi. Personalmente gli rimprovero solo qualche eccesso di bandismo, che in un paio di occasioni ha finito per coprire le voci.

Alla fine, nessuna uscita singola a sipario chiuso (…) Insomma, una ripresa di questa produzione non proprio entusiasmante, ecco.

26 giugno, 2024

Il funerale di Puccini secondo Livermore

Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima del nuovo allestimento di Turandot, firmato dalla coppia Davide Livermore / Michele Gamba.

Sul piano dei contenuti del soggetto (libretto e musica) si tratta di un prudente, conservativo ritorno alla normalità, che garantisce l’alto gradimento del vasto pubblico: Alfano-Toscanini, tanto per intenderci, salvo che il libretto, pubblicato sul programma di sala e in Internet, è quello – udite, udite – con il testo del finale di Berio!!! [Ah, scherzi del cut&paste, fatto dall'edizione del 2015 anziché da quella del 2011…]

In ogni caso, ingressi esauriti per tutte le sette recite!

Vengo subito all’allestimento di Livermore. Partendo proprio dal… trapasso. Quello di Liù, che coincide con quello da... Puccini ad Alfano. Il regista ha interpretato a suo modo la ricorrenza dei 100 anni dalla morte del Maestro coinvolgendo l’intero teatro (masse interpreti della produzione e il pubblico in sala) in una cerimonia commemorativa che ha sospeso la rappresentazione per un minuto di raccoglimento, con mezze luci in sala, e minuscoli lumini elettrici di cui sono stati dotati anche gli spettatori.

Sopra il palco era calata un’enorme immagine a mezzo busto (del tipo di quelle che si incastonano sulle lapidi funerarie) di Puccini, recante la scritta delle poche parole pronunciate da Toscanini il 25 aprile 1926 in occasione della prima, dopo aver deposto la bacchetta e chiuso così quella storica recita.

E francamente avrebbe potuto essere la conclusione (da condividersi) anche della serata di ieri… ma evidentemente i contratti con l’editore (Ricordi) prevedono anche uno dei due finali posticci (Alfano o Berio) e quindi la recita è ripresa con Alfano-II. Ma anche con una geniale sorpresa che Livermore ci ha offerto, e di cui scriverò tra poco.

Il regista si è attenuto strettamente al soggetto della fiaba, senza minimamente inquinarlo con personali iniziative, ma interpretandolo con un magniloquente approccio che definirei da versione 2.0 di un de Ana o di uno Zeffirelli.

Le scene (sue e di Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco) ci mostrano le due facce di Pachino: quella del degrado degli slum dove vive il popolo, un verminaio di esseri perennemente in agitazione, nella quasi oscurità e vestiti di cenci dalle cento sfumature di… nero; e quello, opulento e sfarzoso, della città proibita, con luci (Antonio Castro) sfavillanti, costumi (di Mariana Fracasso) preziosi ed eleganti e cortigiani rigidamente inquadrati in schiere militaresche, tipo il famoso esercito di terracotta, per intenderci.

E poi una serie di oggetti dalla simbologia più o meno chiara, come l’enorme sfera che scende sulla scena; o i riferimenti agli enigmi (tre gabbiani meccanici che svolazzano fissati sulla punta di aste portate in giro da ragazzi, o i tre principini in erba che accompagnano le altrettante fasi della tenzone di sapienza); e poi la sagoma di un bianco cavallo (animato da tre figuranti) che irrompe sula scena prima e dopo gli enigmi, forse a rappresentare l’attitudine di Calaf all’avventura…     

Il tutto accompagnato da immagini video (D-WOK) proiettate sullo sfondo o all’interno della sfera di cui sopra.

Infine Livermore fa comparire in scena il povero Principino di Persia che la folla fin da subito si diverte a bistrattare in ogni modo, umiliandolo e bullizzandolo fino a lasciarlo proprio nudo come un verme, forse a punirne le ingenue velleità… Ma soprattutto ci mostra – e qui mi ricollego al finale – la rinsecchita figura dell’ava Lo-u-Ling, che incombe dietro alla pronipotina a ricordarci la causa del formarsi della gelida personalità di Turandot.

Ebbene, nella scena finale del duetto Calaf-Turandot la trisavola si frappone continuamente tra i due, come per difendere la pronipote dagli assalti di Calaf. Ma poi, ecco la grande trovata di Livermore, che avrebbe potuto persino dare a Puccini l’idea giusta per chiudere lui stesso l’opera in modo conveniente. Invece dell’ultimo assalto – con prosaico bacio - al corpo di Turandot, ecco che Calaf si dirige sull’antica progenitrice e la fa oggetto di un toccante gesto di comprensione, quasi a voler riparare il tremendo torto da lei subito in gioventù.

E così ecco che lo sgelamento di Turandot si giustifica con la parallela presa di coscienza di Calaf! [Tanto di cappello al regista!]  

Aggiungerò un altro paio di idee registiche che mi sembrano degne di nota, perché rivelano qualcosa della natura di due personaggi: il pugnale con cui Liù si ferisce non viene strappato ad un soldato, ma dalle mani di… Calaf! E l’Imperatore Altoum ci viene presentato nei panni – anche materiali - di un innocuo e rassegnato ospite di una RSA!

Ecco, uno spettacolo di gran livello, dove magari è la forma a prevalere, ma dove anche la sostanza non solo non viene adulterata (come troppo spesso accade) ma addirittura nobilitata.
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Michele Gamba (subentrato al designato Harding) conferma le sue buone attitudini per l’opera, già emerse in precedenza qui alla Scala (Foscari, Elisir, Rigoletto). La sua dimestichezza con la musica contemporanea evidentemente lo aiuta a mettere in risalto le molte modernità della musica di Turandot, assai innovativa anche rispetto allo stesso Puccini delle opere precedenti.

L’orchestra è stata praticamente perfetta, ricreando a meraviglia tutte le atmosfere fiabesche, crude, liriche e drammatiche che caratterizzano la partitura.

E il Coro di Malazzi è stato se possibile ancor più sontuoso del suo solito: in quest’opera trova effettivamente il terreno sul quale dispiegare tutta la sua forza e il suo proverbiale affiatamento.

Di Anna Netrebko mi sento paradossalmente di dire che canti fin troppo bene per abbassarsi ai panni di questa cattivona (!) La sua è stata una prestazione di assoluta eccellenza. Come lo sarebbe forse ancor più se lei vestisse i panni del tritagonista (come quio qui).

La quale Liù è invece la casertana Rosa Feola, che non è (ancora?) la… divina Anna, ma insomma mi pare se la sia cavata – e proprio nelle due arie di cui sopra - più che dignitosamente.

Yusif Eyvazov non ha cambiato (…ehm) i connotati al timbro di voce, il che perpetua la sua qualità meno nobile, ecco. Peccato, perché per il resto nulla gli manca come potenza ed espressività.

Più che discreto il Timur di Vitalij Kowaljow, bel vocione potente ed efficace presenza scenica. Raúl Giménez è stato a sua volta – anche grazie al regista - un patetico Imperatore.

I tre piccoli porcellin alti funzionari statali: Ping (Sung-Hwan Damien Park) Pang (Chuan Wang) e Pong (Jinxu Xiahou) han fatto più che dignitosamente la loro parte, tutt’altro che secondaria, in specie il primo nei suoi patetici ricordi dell’Honan.

Oneste le prove del Mandarino (Adriano Gramigni) e delle due ancelle (Silvia Spruzzola e Vittoria Vimercati.)

Haiyang Guo è il tenore che ha in assoluto la parte più massacrante in tutta la storia del melodramma; dovendo cantare – oltretutto da dietro le quinte (altrimenti ieri sera avrebbe dovuto apparire in pubblico tutto nudo!) - nientemeno che questo:

Beh, ecco: ha superato di slancio l’impervio ostacolo!
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In definitiva: una proposta accolta trionfalmente dal pubblico, con lunghe ovazioni e consensi per tutti, con punte – ça va sans dire – per la divina Anna. Da non perdere!
   

22 giugno, 2024

Arriva alla Scala la Principessa congelata di Livermore.


Introduco l’argomento in modo semiserio con il segnalare un concettuoso contorto intervento su Puccini di tale Giovanni Giammarino, Direttore d'orchestra poi datosi all’ippica alla gastronomia.
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Il redivivo Davide Livermore guida una nuova produzione scaligera: Turandot, che ritorna in Scala dopo 9 anni dalla precedente, che presentava come novità – voluta da Chailly - il finale di Luciano Beriouno dei cinque (almeno) esistenti.

Oggi, con Michele Gamba sul podio, si ripropone l’antico – quanto controverso - finale di Franco Alfano(-Toscanini). Quindi, questa sarà una Turandot tradizionale, nel senso di statisticamente più eseguita. Gli altri finali sono di rara proposta: a parte la Scala, si va da qualche intraprendente Festival a iniziative più o meno estemporanee.

Che si continui a presentare prevalentemente il finale posticcio e abborracciato di Alfano-Toscanini (conseguenza, del resto, della totale inconsistenza del libretto) è cosa spiegabile soltanto con il degrado della nostra civiltà: il pubblico pagante – oggi cinese in quota rilevante, guarda caso - pretende il lieto fine (ma sarebbe altrettanto contento di un finale macabro, con Calaf decapitato dalla glaciale principessa) e va perciò accontentato, a costo di rigirare per la millesima volta il coltello nella polvere del povero Giacomo. E dire che ci sarebbe invece una versione che metterebbe tutti (o quasi…) d’accordo!   

Le versioni (ad oggi esistenti) del finale.

Oltre a quella presentata qui oggi (la Alfano-II, rivista e soprattutto barbaramente tagliata da Toscanini) esiste la Alfano-I, l’originale proposta del compositore partenopeo, di circa 6’ più lunga.

Poi ci sono due versioni straniere: quella della zelante americana Janet Maguire (mai registrata, per quanto se ne sa) e quella più recente del cinese Hao Weiya, che fa solo piccole modifiche al libretto di Adami-Simoni.

Infine - in fiduciosa attesa di una nuova commissione aggiudicata al nostro grande Mozart contemporaneo (Giovanni Allevi) o, più seriamente, a qualcuno che provi almeno a mettersi nei panni (postumi) di uno Zandonai o di un Ravel, da molte parti indicati come i musicisti più adeguati a compiere l’impresa – esiste appunto la versione commissionata da Ricordi (copyright owner…) a Luciano Berio (2000) inaugurata da Chailly nel 2001 e dallo stesso incisa con laVerdi nel 2004 (da 7’33”) e infine portata qui al Piermarini nel 2015. Versione che comporta interventi non da poco sul testo originale.

Alla base di tutte queste versioni esiste un materiale autenticamente pucciniano, consistente in 30 schizzi/appunti lasciati dal compositore sul comodino del letto di morte, a Bruxelles (Institut du Radium). E sul foglio n°17 Puccini vergò due criptiche parole: …poi Tristano…

Cosa è accaduto prima del finale.

Riassumo brevemente i fatti succedutisi fino alla morte di Liù.

Dunque: Turandot, per 2 atti e mezzo su 3 (i 5/6 dell’opera!) ci appare come una donna (anzi, una ragazzina) fondamentalmente e congenitamente cattiva. Nel primo atto non canta una sola sillaba, ma il suo pollice verso nei confronti del principino di Persia ci basta ed avanza per inquadrarne la sbifida personalità.

Nel second’atto perde la tenzone di sapienza con Calaf e, invece di accettarne il verdetto e le relative conseguenze, magari adducendo la solita, ipocrita scusa: lo faccio per dio, non per piacer mio, va a piagnucolare dal padre, reclamando l’annullamento della prova! Sbeffeggia a tal punto il vincitore Calaf da ottenerne, perso per perso, una prova d’appello (la scoperta della di lui identità).

Nel terzo atto la carognaggine della principessa rasenta addirittura l’efferatezza, allorquando Turandot emana un editto che impone a tutti i suoi sudditi – pena la morte, quisquilie! - di scoprire per lei il nome del principe. E come alternativa i tre porcellini offrono a Calaf escort in quantità industriale, per cercare (inutilmente) di convincerlo a rinunciare al meritato trofeo.

Ebbene, dopo che ha dovuto constatare il proprio completo fallimento, la nostra simpaticona assiste al sacrificio di Liù (scena che muoverebbe a pietà persino un tagliagole dell’ISIS!) e invece di aprire gli occhi sulla realtà e sulla forza dell’Amore (col che il quadro finale avrebbe sì, allora, una sua piena e nobile giustificazione) rimane ancora e sempre impassibile e sprezzante (statuaria, senza un gesto né un movimento) al punto tale che lo stesso innamorato pazzo Calaf le si avventa contro apostrofandola con Principessa di morte! Principessa di gelo!

Però, attenzione: non è che l’attitudine del maschio Calaf verso di lei sia tanto più commendevole. Lui, di fatto, gioca ad una particolare specie di riffa, dove in palio non c’è un oggetto, ma appunto una donna-oggetto (succede ancora oggi in qualche quartiere del vizio che il palio di una riffa sia una prostituta…) Avendo vinto, esige il possesso dell’oggetto in palio, come testimoniano le sue reiterate pretese: ti voglio mia! sei mia! (perché ti ho vinto ad una scommessa, non perché ti ho con-vinto con l’Amore!) [Julian Budden scrive di approccio ormonale…] 

Ora ricapitoliamo, manca solo un sesto di opera da completare – tutto il resto è già perfettamente strumentato, e da mo’ - ma ancora non si vede il benché minimo spiraglio che possa plausibilmente giustificare il voltafaccia della principessa e il suo miracoloso finale scongelamento: tutt’altro, lei è sempre più ibernata e incarognita!

Che fare, una volta scartata la possibilità offerta dal sacrificio di Liù? Inventarsi un filtro magico à la Tristan (era forse questo cui voleva alludere l’appunto di Puccini?) oppure far comparire lo spettro dell’ava Lo-u-Ling che convinca Turandot che non tutti i maschi sono poi così vomitevoli come quel pipistrello che l’aveva violata?   

Ecco, in questa situazione, i librettisti del sempre più insofferente Puccini non sanno che pesci pigliare né proporgli - di scongelante - nulla di più e di meglio che una bella ingroppata (!) Con la frigida cattivona che – praticamente fatta segno di un mezzo-stupro da parte di Calaf - sbrodola un ridicolo Che è mai di me? e pare convincersi a cedere, arrivando ad ammettere (Del primo pianto, spesso tagliata!che lei, in fondo, si era già un pochino innamorata fin dal primo incontro. [Tristan, è lei?]

Ma poi torna a rinchiudersi a riccio e ordina a Calaf di andarsene, visto che ha ottenuto – fare sesso con lei? - ciò che desiderava. E così abbiamo questa ulteriore strampalata manfrina, con lui che le rivela il nome, lei che pare volerlo carognescamente buggerare coram-populo, come avesse vinto una gara regolare, e infine la sorpresa (ma per favore…) della dichiarazione d’amore che consente la chiusa in gloria e magna pompa.       

E Puccini, secondo voi, era uno disposto ad accettare questo farsesco guazzabuglio, oltretutto dopo il poco onorevole precedente della Fanciulla? E infatti fino all’ultimo – pur avendo buttato giù tutti quegli schizzi – il compositore non fece che cincischiare, e con infinita pena, attorno ad un finale che non gli veniva proprio, fra continui rimpalli di responsabilità con i suoi librettisti e laceranti dubbi sulla consistenza drammatica ed estetica del lieto fine e soprattutto della sua necessaria premessa: l’inopinata, improvvisa e inverosimile, totalmente gratuita virata di 180° nell’atteggiamento di Turandot.    

Alfano, Berio e… Wagner.

L’enigmatico riferimento a Wagner nel foglio n°17 degli schizzi può aver indotto Alfano (imitato da Weiya molti anni dopo) ad interpretare la scena finale come fosse quella non del Tristan, ma del Siegfried: dove Brünnhilde inizialmente si nega al ragazzo, per poi cedere ai suoi focosi assalti e unirsi anche carnalmente a lui.

Peccato però che in Wagner le premesse stiano precisamente agli antipodi rispetto alla Turandot! Brünnhilde ha apprezzato l’amore di Siegmund e Sieglinde fino al punto da perderci la… divinità; ha poi amato Siegfried fin dal suo concepimento; ha implorato Wotan di farla risvegliare dal Wälso; e ha subito manifestato la sua gioia nel riaprire gli occhi proprio su Siegfried. La sua iniziale ritrosia ad accoppiarsi con lui è tutta e solo freudiana: la paura - o meglio la tristezza, squisitamente femminile - legata alla prospettiva della perdita della verginità; non certo un pregiudizio idiota legato ad un fatto di cronaca nera di cui fu vittima un’ava nemmeno conosciuta. E alla fine è lei, liberamente e coscientemente, a concedersi al Wälso.

Turandot invece è da sempre un pezzo di ghiaccio venefico; e tale rimane anche dopo aver assistito alla morte della povera Liù; il suo cedimento a Calaf è tutt’altro che spontaneo e convinto, anzi appare come conseguenza di un atto di molestia sessuale, per non chiamarlo di violenza carnale bella e buona!

Scena finale che Berio cerca invece di Tristan-izzare, in ciò supportato da una testimonianza indiretta (perché riferita da Leonardo Pinzauti) di Salvatore Orlando, cui il Maestro avrebbe suonato – occhio alla data – nel 1923 un finale dell’opera dal sapore tristaniano. Però risulta che Puccini – a settembre 1924, due mesi prima di morire – avesse suonato alcune idee del finale anche a Toscanini, che poi però avallò quello, tutt’altro che tristaniano, di Alfano! (Insomma, ce n’è per tutti i gusti…)

Nell’Appendice I del saggio di Marco Uvietta È l’ora della prova: un finale Puccini/Berio per Turandot (accessibile in rete – in lingua inglese - previa registrazione) originariamente pubblicato nel 2002 in Studi Musicali, si riportano in dettaglio tutti gli interventi di Berio, che si caratterizzano per: tagli al testo e alle didascalie (corposi); aggiunte o modifiche al testo (minime); impiego di molti (23 su 30) degli schizzi lasciati da Puccini; utilizzo di frammenti musicali prelevati da altre parti dell’opera; inserimento di frammenti musicali alieni (Wagner, Mahler, Schönberg, oltre a Berio medesimo).

Nel suo saggio, Uvietta presenta ed analizza poi i razionali che sono stati posti da Berio alla base della sua proposta. Lo scopo principale degli sforzi del completatore è di riuscire là dove l’Autore non aveva avuto modo (e/o tempo?) di arrivare: aggirare in sostanza lo scoglio insormontabile legato alla prosaica (per non dire… criminosa) modalità di scongelamento della Principessa.

Il cuore di tale tentativo è rappresentato proprio dall’Interludio orchestrale (dove compaiono anche le citazioni aliene) che Berio ha predisposto come colonna sonora alla scena (Il bacio tuo…) dell’abbraccio di Calaf al corpo di (così la nuova didascalia!) Turandot. Orbene, mentre in Alfano-II quella scena passa alla velocità della luce (quando in Alfano-I e in Weiya occupa almeno 30”), in Berio abbiamo ben 2’30” (scusate la battuta sconcia: il tempo per una sveltina?) di musica che dovrebbe evocare la trasformazione della Principessa da sbifida carogna in angelica creatura (!?)

E per rendere la cosa plausibile, evitandole il successivo clamoroso voltafaccia, dopo che Calaf ha rivelato il suo nome, i versi di Turandot (So il tuo nome! Arbitra sono ormai del tuo destino! e fino a …la mia fronte ricinta di corona!) sono stati abilmente ma bellamente cassati.

Ma alla fine i nodi vengono al pettine… Eh sì, anche Berio (e prima di lui Puccini, se davvero pensava in questi termini al Tristan) ha preso una bella cantonata: come spiegare tristanianamente l’esternazione di Calaf (che permane nella versione beriana) È l’alba! E amor nasce col sole! [??? Ribadisco: l’amore che nasce all’alba e si compie in pieno sole meridiano è quello di Siegfried, non di Tristan.]

Insomma, come la si voglia prendere, siamo sempre lì, accanto all’infastidito Puccini sul lettino dell’ospedale belga dove morirà: la personalità della protagonista, come emersa e consolidatasi fino a quel momento dell’opera (parole e musica) rende irrimediabilmente vano ogni tentativo di giustificarne la repentina conversione.

E così anche Berio – del quale va incondizionatamente apprezzato lo spirito, oltre che il livello assoluto del contenuto musicale del suo completamento - purtroppo pretende l’impossibile, finendo con il contrabbandarci per Verklärung una volgare Vergewaltigung! 

Al proposito mi pare fulminante questa considerazione che Michele Girardi ha proposto nella sua introduzione all’Opera, comparsa sul programma di sala de LaFenice, pochi anni orsono: …un compositore che non voleva morire artisticamente, per non morire fisicamente, avendo scelto una principessa frigida per comunicarlo a tutto il mondo.

E infatti fu proprio la frigidità della principessa a creare l’ultimo problema – irresolubile, e perciò fatale - della sua vita. Ma per ragioni di bassa cassetta ci si continua invece a propinare il finale da avanspettacolo, della serie: dì la verità che hai goduto, zoccola!

Morale della favola?

Dopo la morte di Liù, nella storica edizione Ricordi abbiamo esattamente 60 pagine (402-461) che sono invenzione di Alfano, oltretutto depurate (da Toscanini) di molti improbabili wagnerismi che l’autore di Sakuntala ci aveva infilato, credendo così di interpretare la volontà di Puccini.

In realtà, la verità è una e dovrebbe ormai essere chiara a tutti, e prenderne atto risolverebbe alla radice il problema del finale: la Turandot è opera che finisce con Liù perché Puccini – o più probabilmente il suo subconscio – aveva preso atto che così dovesse ineluttabilmente accadere.

Ecco perché, esalato il MIb minore di archi e ottavino, personalmente preferirei che il Direttore posasse la bacchetta, come fece alla prima assoluta proprio Toscanini, pentitosi (per poi contro-pentirsi il giorno dopo) di aver avallato un misfatto.

A.T.: Qui finisce l’opera, rimasta incompiuta per la morte del Maestro.

01 giugno, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.24

Di tanto in tanto, l’Orchestra Sinfonica di Milano si (e ci) regala qualche escursione nel genere del teatro musicale. Questa volta tocca a Puccini (di cui si celebra il centenario della scomparsa…) e a Suor Angelicaalla sua seconda apparizione dopo quella di 18 anni orsono con Bisanti.

Questa produzione è realizzata in collaborazione con l’Accademia del Teatro alla Scala, da cui provengono 5 delle 7 interpreti dell’opera (Monica Zanettin e Silvia Beltrami sono le altre due). Per l’occasione torna per la terza volta sul podio dell’Auditorium il 34enne tarantino Vincenzo Milletarì, già ospite qui nel ’22 e ’23.

Serata per (quasi) tutte rappresentanti del genere femminile: oltre alle sette interpreti (dei 14 ruoli) anche la Direttrice del Coro di Voci Bianche (tutte ragazze) Maria Teresa Tramontin. A rappresentare il genere maschile, oltre al Direttore, è il Maestro del Coro Massimo Fiocchi Malaspina, con tenori e bassi che nel finale si aggiungono alle signore e alle voci bianche.    

I tre ruoli principali dell’opera, dal punto di vista musicale, sono senz’altro Angelica, Principessa e Genovieffa.

La protagonista del title-role si presenta esponendo la sua filosofia della bella morte, dove ogni umano desiderio è già realizzato prima ancora di manifestarsi, grazie all’intercessione della Beata Vergine. Poi la vediamo all’opera come esperta di medicina e farmacologia, quando prepara la pozione contro le punture di vespa; tornerà ad esercitare questa sua sapienza nel finale, allorquando preparerà la mortale bevanda per sé medesima. Poi la vediamo in preda all’ansia, all’annuncio di una visita che la riguarda; e subito dopo affrontare il drammatico incontro-scontro con la Zia Principessa, dove emerge la sua aperta ribellione contro i pregiudizi della società. Deve poi sopportare il devastante dolore alla notizia della morte del figlioletto. Da qui la decisione di darsi la morte per raggiungerlo in Paradiso, subito seguita dal pentimento per la consapevolezza della mortale peccaminosità del gesto. Infine, lo scioglimento della sua vicenda terrena nella celeste beatitudine.

Insomma, un ruolo complesso e dalle mille sfaccettature, che Puccini ha scolpito mirabilmente in musica. Ebbene, l’ormai veterana Monica Zanettin ha mostrato di sapersi calare assai bene in questa parte che alterna toni dimessi e riflessivi a scatti di passione, amor materno che arriva al sacrificio, ma anche disprezzo per la società che l’ha punita invece di comprenderla e aiutarla. Avesse un po’ più di penetrazione negli acuti sarebbe quasi perfetta. A lei è andato il maggior consenso del pubblico.

La Zia Principessa è la classica espressione femminile della società patriarcale in auge in quel lontano 1600 (ma le cui propaggini si spingono fino a noi…) Obbedienza cieca a principii ottusi; inflessibile esercizio dell’autorità: e disprezzo, in luogo di comprensione, per chi esce dalla retta via. La navigata Silvia Beltrami si è ben calata nella parte, facendo emergere con la sua solida voce contraltile tutta la freddezza e l’ottusa severità del personaggio. Anche con lei il pubblico è stato assai generoso. 

Genovieffa rappresenta l’ingenuità e la sincerità della gente comune. Sa apprezzare la bellezza di un tramonto; mostra premura nel ricordare una sorella defunta; non trova sconveniente avere desideri, se sono innocenti (agnellino = Agnus Dei…) e non animati dall’egoismo; mostra comprensione per l’ansia di Angelica. L’alfiere delle accademiche scaligere, Greta Doveri, l’ha efficacemente interpretata, accollandosi anche i ruoli marginali di seconda cercatrice e seconda conversa.

Le altre interpreti sono Elena Caccamo (Badessa + Suora zelatrice); Fan Zhou (Osmina, Dolcina, Novizia); Laura Lolita Perešivana (prima cercatrice, prima conversa) e Dilan Saka (Maestra e Suora infermiera). Le loro parti sono di portata quantitativamente limitata: accumunerei tutte in un giudizio lusonghiero. E il pubblico mi pare abbia fatto altrettanto.

Bene Milletarì, gesto sempre essenziale e precisione negli attacchi, che con questo Puccini evidentemente ha trovato una buona consonanza, valorizzandone al meglio questa difficile partitura. E l’Orchestra lo ha assecondato alla grande: da antologia tutto il finale, in cui è spiccato il mirabile passaggio (guidato dai violoncelli) che accompagna Lodiam! La Grazia è discesa dal cielo! di Angelica.

Hanno completato degnamente l’opera i cori di Tramontin e Fiocchi Malaspina. Alla fine, lunghi e convinti applausi per tutti, da parte di un pubblico assai folto e partecipe. Una serata davvero da incorniciare. 

05 aprile, 2024

Una rondine fa primavera alla Scala

Felice davvero il ritorno al Piermarini - dopo 30 anni - de La rondine, accolta con gran calore da un pubblico abbastanza folto e partecipe: un meritato riconoscimento per quest’opera troppo a lungo snobbata e guardata con sufficienza, ma da qualche anno tornata alla ribalta di molti teatri, italiani e non.

Riccardo Chailly non ha voluto smentire la fama di venditore-di-primizie (riguardo i contenuti di questa produzione) potendo avvalersi in prima assoluta della nuova edizione critica (ancora fresca di stampa) di Ditlev Rindom (per Ricordi, tornato così a prevalere per questo titolo sullo storico rivale Sonzogno…) Si tratta di questioni (solo apparentemente?) di discussione fra addetti-ai-lavori, ma che in realtà testimoniano della serietà dell’approccio del responsabile musicale di questa proposta scaligera.

Giusto per citare un dettaglio che differenzia ciò che si è visto e sentito ieri da quanto si ascolta nelle diverse registrazioni disponibili, citerò la seconda strofa dell’aria di Doretta (Prunier, Atto I) che non si trova nell’edizione relativa alla prima di Montecarlo (1917): dunque, il poeta ha raccontato del rifiuto della piccola Doretta alle avances del RE (che le promette ricchezze ed onori!) e qui la storia termina, nelle tradizionali esecuzioni. Nella versione presentata ieri (antecedente alla prima monegasca) Prunier canta una seconda strofa, dove è un umile vicino di casa di Doretta a chiederla in sposa, promettendole un futuro di moglie e madre, ma ottenendo la stessa risposta negativa: così come la ricchezza, neanche la prospettiva del tranquillo focolare domestico basta a dare la felicità! Insieme alla successiva riesposizione di Magda (Doretta si innamora perdutamente dello studente che l’ha baciata) è proprio il distillato quasi nichilista del soggetto dell’opera: Magda non trova la felicità né nel lusso/ricchezza/status, né poi nella prosaica prospettiva della famiglia tradizionale, seguita all’ubriacatura presa al Bal Bullier!

Altre differenze di qualche rilievo riguardano il second’atto: una variante all’apertura e l’aggiunta di interventi di vari avventori dopo l’arrivo di Rambaldo. Nel terz’atto spicca l’assenza dell’invito di Prunier a Magda perchè torni a Parigi da Rambaldo, il che ribalta totalmente la situazione: laddove quell’invito lasciava Magda addolorata (quanto male mi fai a dir così), la sua assenza, dopo la presa d’atto di Prunier della felicità della donna, la porta a dire quanto bene mi fai a dir così! Infine cambia l’ultima esternazione di Ruggero: Guarda un tramonto ardente, dal sapore squisitamente romantico, al posto di Ma come puoi lasciarmi, carico di crudo risentimento.
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La dedizione del Direttore si è poi materializzata nella concertazione dell’opera, che ci ha restituito tutta la brillantezza, la leggerezza e il disincanto che pervadono questa controversa partitura: la vacuità dello scenario del primo atto, lo strabiliante sincretismo fra walzer e ritmi moderni che imperversa nel second’atto e la finale, cinica presa d’atto del totale fallimento delle velleità romantiche dei protagonisti.

Orchestra e coro - di Malazzi - sempre splendidamente all’altezza del compito, e una compagnia di canto di buon livello hanno garantito il pieno successo all’impresa. Sul quale avanzo personalmente solo qualche ombra per la regìa, come chiarirò più sotto.

Mariangela Sicilia è stata una pregevole Magda: bella voce penetrante ed espressiva e acuti svettanti. Sulla presenza scenica sono certo che abbia rispettato il volere della regista (…)

Rosalia Cid è stata una Lisette simpaticamente efficace: al suo ruolo la concezione registica ha fatto solo favori, ecco.

Matteo Lippi ha sfoggiato una voce penetrante con qualche ombra nella parte bassa della tessitura: il suo Ruggero ne è comunque uscito in modo più che apprezzabile.

Giovanni Sala manca di qualche tacca al volume e alla proiezione della voce. Per farsi perdonare ha fatto di petto (invece del prescritto falsetto) il DO del terz’atto (…fuori del mondo). Anche a lui la regìa ha permesso di mettere in mostra qualità attoriali (da avanspettacolo?) interessanti.

Pietro Spagnoli ha onorevolmente interpretato il disincantato Rambaldo, che forse ha una parte meno impegnativa di tante altre dei comprimari, tutti lodevolmente all’altezza.
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L’allestimento di Irina Brook - che si avvale di scene e costumi di Patrick Kinmonth e luci di Marco Filibeck (un team ben collaudato nel Matrimonio segreto del 2022) cui si aggiunge la coreografia (second’atto) di Paul Pui Vo Lee – mi è parso eccessivamente sbilanciato sul Kitsch. Ma del resto la 62enne regista aveva confessato (sul programma di sala) di essere cresciuta fin da giovane a pane-e-musical, e questo forse l’ha portata a creare (come minimo nei primi due atti) un’ambientazione proprio da operetta (chissà come l’avrebbe presa Puccini…)

Fra la dimora di Magda e il Bal Bullier dovrebbe pur esserci qualche differenza (aristocrazia, pur frivola, vs sbracature goderecce): invece anche chez-Magda si scade in avanspettacolo, per quanto innocente e soprattutto è proprio la presentazione scenica della protagonista a lasciare perplessi. La vediamo subito in atteggiamenti che scimmiottano… Lisette (!?) Da Bullier poi si comporta come se stesse prendendosi gioco del povero Ruggero, da consumata femme-fatale invece che da timida ragazza per bene. Difficile così spiegarsi come di punto in bianco in lei nasca l’amore romantico…

La trovata della Brook (che ha almeno una quarantina di precedenti) consiste nel mostrare in scena la stessa regista (che lei fa impersonare dalla docente dell’Accademia Anna Olkhovayaa preparare lo spettacolo ancor prima che entri Chailly… e poi si trasforma – second’atto -  in controfigura della protagonista, poi – terz’atto – persino in immobile sirenetta che poi si anima e impersona per un attimo la madre di Ruggero… Sì, è vero che l’opera presenta tratti di teatro-nel teatro, ma mi pare che qui si sia un po’ esagerato con la meta-teatralità, ecco.
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In conclusione, al netto di queste (mie personalissime) riserve sulla messinscena, mi pare trattarsi di un’altra proposta di ottimo livello, che il pubblico alla fine ha mostrato di gradire assai. Punte di consenso per la Sicilia, Lippi e, ovviamente, Chailly. Nessun danno per la Brook… meglio così!

01 aprile, 2024

La rondine torna al tetto della Scala

Milano dà inizio alle celebrazioni per il centenario della morte di Giacomo Puccini (29 novembre) riproponendo, dopo 30 annila sua opera forse meno amata (o più trascurata e snobbata dalla critica e dai teatri, quindi semi-sconosciuta al vasto pubblico): La rondine. Dal 4 aprile (sciopero a quanto pare scongiurato...)

Paradossalmente, opera incompresa per primo dal suo stesso Autore! E ancor prima di musicarla! Quando arricciò il naso di fronte all’allettante proposta viennese (1913) di comporre un’operetta (à-la-Lehár) per suggerire in cambio una commedia (genere considerato più serio?) Poi (1914) accettando (ma poi modificandolo di suo, in combutta con Giuseppe Adami) un soggetto che è un minestrone a base di Traviata, Fledermaus e Bohème, con ampie annaffiate in 3/4 di Rosenkavalier! Come si può facilmente dedurre da questa liofilizzata descrizione del plot (versione originale del 1917):

I. Parigi. Ricevimento a casa di Magda de Civry, una bella (e ricca) mantenuta dal facoltoso banchiere Rambaldo Fernandez. Magda ha al suo servizio Lisette, ragazza vulcanica e disinibita, che se la fa con il cantautore Prunier, ospite abituale di quella lussuosa dimora. Magda canta un suo ricordo di gioventù, quando ebbe una fugace relazione sentimentale nata (e subito conclusa) nel locale Chez Bullier, noto (e un po’ equivoco) ritrovo di giovani in cerca di avventure. Giunge, raccomandato dal padre, amico di Rambaldo, Ruggero Lastouc, giovane provinciale ansioso di fare esperienze nella Ville Lumière. Tutti gli consigliano di rompere il ghiaccio recandosi proprio da Bullier. Lì vanno anche, ignari gli uni dell’altra, Lisette-Prunier e Magda (abbigliata da modesta ragazza e quasi irriconoscibile) che sogna di ripetere quella lontana esperienza.  

II. Serata da Bullier. Ruggero se ne sta timidamente in disparte. Arriva Magda che lo vede ma è subito assediata da un nugolo di giovani, per liberarsi dei quali inventa di avere lì un appuntamento con qualcuno che la sta aspettando. Viene indirizzata da Ruggero, che la ospita al suo tavolo. Walzer a più non posso, con intrusioni di ritmi moderni, suggellano la romantica ubriacatura della strana-coppia: l’amore ormai è deflagrato. Nel frattempo sono arrivati Lisette e Prunier: lei crede di riconoscere la padrona e si preoccupa; lui la convince che si sbaglia, ma fa un cenno d’intesa a Magda; così i quattro si riuniscono e brindano all’amore. Arriva lì sorprendentemente anche Rambaldo: Ruggero viene allontanato mentre il protettore cerca di convincere la protetta a tornare all’ovile, perdonandole l’innocente scappatella. Lei invece gli annuncia la sua decisione di licenziarsi, ormai decisa a vivere fino in fondo il suo folle amore con Ruggero. Rambaldo signorilmente le augura di non pentirsene.

III. Villetta in Costa Azzurra, tre mesi dopo. Magda e Ruggero vivono il loro travolgente amore, ma qualche nube appare all’orizzonte: il denaro scarseggia e Ruggero comincia a pensare borghesemente ad una vita normale (famiglia e figli): ignorando il passato di Magda, ha già chiesto alla madre il consenso a sposarla. Lei comincia a preoccuparsi e proprio in quel momento arrivano Lisette e Prunier che cercano di convincerla a chiudere la romantica ma effimera avventura con Ruggero per tornare a Parigi, dove c’è chi l’aspetta, disposto a perdonarla. Magda cerca di resistere e li congeda. Ruggero torna esultante dall’ufficio postale con la missiva materna che reca l’approvazione al matrimonio… a patto che la sposa sia una ragazza per bene! Lei gli rivela la verità: per lui può essere solo un’amante, mai una moglie! Ruggero si dispera, giura di voler ignorare il suo passato, ma Magda è ormai decisa e lo invita a tornare alla sua casa paterna, lasciandolo lì, distrutto e singhiozzante come un bambino cui hanno tolto il giocattolo preferito, mentre lei esce mestamente, sorretta da Lisette.
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Completata la composizione nel 1916 e rappresentata (con discreto successo) l’opera a Montecarlo (1917, in piena WWI) Puccini deve preparare la prima rappresentazione (1920, preceduta da un test a Palermo) presso gli esigenti sponsor viennesi, che poco avevano gradito le libertà che lui e Adami si erano presi sul soggetto concordato. Nasce così la seconda versione dell’opera, con mutamenti non da poco: Prunier che da tenore viene declassato (o promosso?) a baritono; nel primo atto Ruggero guadagna una seconda aria (Parigi è la città dei desideri) tramite riciclaggio di una romanza (Morire) composta in precedenza. Il finale viene sostanzialmente modificato (vedi tabella più sotto). Ma già all’indomani delle rappresentazioni di Vienna Puccini è all’opera per nuovi interventi e predispone una terza versione (1921).

Tanto per cominciare, revoca le precedenti scelte riguardo a Prunier (che risale a tenore) e a Ruggero (che riperde l’aria del primo atto). Dopodichè ricambia ancora radicalmente il finale, trasformandolo in un tragico scenario verista (vedi qui sotto).  

Si noti infine come le tre versioni, così distanti drammaturgicamente e tali da dare nientemeno che diversi sapori all’intera opera, siano supportate praticamente dalle stesse note (!)  

Le tre versioni dell’Atto III (passaggi principali)

Versione 1 (1917)
Versione 2 (1920)
Versione 3 (1921)

 

Piccola villa in Costa Azzurra. 
Ruggero e Magda vivono felici, ma a corto di denaro.

 

 
Tre venditrici di articoli di moda restano a bocca asciutta: non ci sono soldi.

 

Ruggero chiede a Magda di sposarlo e di seguirlo nella sua casa natale. 
Lei si preoccupa, indecisa se rivelargli il suo passato.

 

 
Ruggero dona a Magda un anello di fidanzamento.
 

 

Ruggero si reca alla posta: attende la lettera della madre con il consenso al suo matrimonio.

 

Arrivano Prunier e Lisette per incontrare Magda.

 

Prunier manifesta dubbi sulla felicità di Magda, così lontana da Parigi. Lei lo smentisce.
 
Prunier cerca di convincere Magda a tornare a Parigi.

 

Prunier spiega a Magda che Rambaldo la aspetta a Parigi per riprendere la loro relazione. Lei rifiuta, ma i suoi dubbi restano.
Prunier e Lisette cercano di convincere Magda ad abbandonare Ruggero e il suo sogno d’amore.
Arriva Rambaldo con una borsa di gioielli e denaro per riportare Magda a Parigi.

 

Ruggero torna dalla posta con la lettera della madre di approvazione al suo matrimonio.
Ruggero torna dalla posta con un telegramma anonimo che lo avverte del passato di Magda.

 

Magda legge la lettera, dove viene immaginata come una giovane pura e casta, futura moglie fedele e madre premurosa.
 

 

Magda rivela a Ruggero il suo passato: lei può solo essergli amante e non moglie!
Ruggero trasmette a Magda la sua gioia ed esce per preparare il matrimonio.  
Ruggero scopre la borsa di Rambaldo, maledice Magda e fugge, disperato.

 

Ruggero è pronto a ignorare tutto pur di averla con sé, ma Magda è irremovibile: lei non vuole rovinarlo; lui, disperato, tornerà alla sua casa e lei, disillusa, al suo passato.
Prunier convince Magda a tornare a Parigi da Rambaldo. Lei lascia per Ruggero l’anello e un biglietto d’addio. Poi si avvia con Prunier.
Magda si dispera a sua volta e Lisette cerca invano di consolarla.

[? Magda si getta in mare ?]


Come si vede, è il finale dell’opera ad aver dato a Puccini le maggiori preoccupazioni e infiniti grattacapi e ripensamenti. E sono proprio le figure dei due protagonisti a subire radicali mutazioni.

Prendiamo Magda. Per lei l’amore romantico (di per sé effimero, salvo che per eccezioni tipo Tristan&Isolde, dove peraltro non si realizza in terra…) si è ridotto ad un fugace incontro giovanile e poi ad una quasi auto-forzata imposizione (Ruggero agendo poco più che da fuco) null’altro… Nella prima stesura dell’opera la sua sincerità riguardo il sacrificio di se stessa per non rovinare Ruggero appare come una foglia di fico con la quale nascondere la vergogna derivatale dalla constatazione dell’insostenibilità dell’idilliaco rapporto con il compagno. Le ristrettezze economiche e il di lui richiamo della foresta al matrimonio borghese avevano ormai convinto Magda (magari il suo subconscio) di tale fallimento. La vera spiegazione del suo addio a Ruggero è di natura squisitamente razionale (quindi proprio anti-romantica!): agire pragmaticamente per il meno-peggio, per entrambi.

La seconda versione mortifica ancor più, se possibile, la sua figura, in quanto la decisione di lasciare Ruggero è praticamente presa su imposizione di Prunier, che quasi la costringe a scrivere il biglietto d’addio e la trascina via, verso Parigi.

Nella terza versione la sua figura si riduce ulteriormente a quella di oggetto potenzialmente ri-acquistabile con il denaro (Rambaldo) o proprio per questo disprezzabile come naturalmente impuro (Ruggero).

Quanto a Ruggero: dapprima fa la figura del povero Athanaël, redentore di donne perdute (!) Poi viene letteralmente estromesso dalla chiusura dell’opera: immaginiamolo tornare a casa tutto euforico per l’imminente matrimonio e trovare ad attenderlo il biglietto d’addio di Magda (!!) Nell’ultima versione poi fa proprio la figura del povero pirla, uno che scambia una prostituta d’alto bordo per Maria Goretti (!!!)
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Insomma, un soggetto piuttosto bizzarro (e per di più zeppo di circostanze assai poco plausibili o di coincidenze più che sospette o gratuite…) che lo stesso Puccini faticò a metabolizzare, come testimoniano i diversi interventi fatti su libretto e partitura. Il che spiega lo scarso successo del lavoro, che solo di recente comincia a vedere un certo interesse a parte dei teatri d’opera. Ma non solo, perché  c’è anche chi addirittura considera La rondine come un capolavoro, da mettere sullo stesso piano di Tosca, Butterfly, Bohème, … e fra questi c’è anche qualcuno che sta in un remoto porto del Pacifico, Guayaquile si riunisce per ascoltare la presentazione dell’opera e guardare il video della produzione del MET del 2009: prima versione, con Alagna (con l’aria dalla seconda versione), Gheorghiu, Oropesa, Brenciu, Ramey e Armiliato sul podio.

A questo punto a noi non resta che chiederci cosa ci propinerà Chailly, che ha il vezzo di riesumare reperti mai uditi prima. Questa volta gli viene in aiuto Ricordi, che ha appena predisposto una sua nuova edizione critica dell’opera, dopo il fortunato ritrovamento dell’autografo originale negli archivi Puccini di Torre del Lago). Trattandosi di un documento anteriore addirittura al materiale impiegato per la prima di Montecarlo, contiene dettagli finora rimasti ignoti, come il Direttore spiega in questa intervista alla brava e simpatica Elisabetta Fava. Staremo a vedere e sentire…

Intanto, chi vuol ascoltare la terza versione (1921) il cui finale è oggetto di orchestrazione aliena (Lorenzo Ferrero) di passaggi che Puccini lasciò solo in spartito voce-pianoforte, può scegliere su youtube fra Torino (1994), Washington o Zagabria. (Quanto alla seconda versione, molti critici - Budden in testa - concordano trattarsi solo di un momentaneo cedimento di Puccini ai committenti austriaci, in vista della prima viennese del 1920.)

Appuntamento quindi a dopo la visione live.