XIV

da prevosto a leone
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23 aprile, 2021

Firenze ringrazia... Salvini

Sì, è vero che al capitano interessava riaprire soprattutto ristoranti e non teatri, tuttavia senza volerlo ha fatto un gran favore all’offerta culturale del Maggio, che si è fiondato sulla preda con fantastico tempismo, programmando la riapertura dell’OF al pubblico per lo stesso 26 sera!

Qualunque sarà il risultato della scommessa di Draghi (incrociamo le dita...) di sicuro un eventuale e disgraziato esito negativo potrà essere imputato a chiunque fuorchè agli appassionati dell’arte e della musica, che nessuna occasione concedono allo sbifido Covid per diffondersi ulteriormente: perchè a teatro si va come ad una funzione religiosa, non certo come ad una movida o ad una partita di calcio.

Quindi, complimenti e in bocca al lupo al Maggio!

 

01 dicembre, 2020

Il Moro di Firenze

Ieri sera RAI5 ha diffuso in streaming un apprezzabilissimo Otello dall’Opera di Firenze.  

Mehta e la sua Orchestra sempre più in forma, cast senza stelle ma... planetario!

E sabato prossimo Roma apre (RAI3 alle 16) con il Barbiere della coppia Gatti-Martone.

Nonostante tutto, ci sono Teatri (Firenze e Roma sono solo gli ultimi esempi di una lunga serie) che continuano a fare... teatro d’opera!

La Scala invece... teatro di varietà?

11 novembre, 2020

Grazie Firenze, grazie Mehta

La figuraccia (dei tecnici) di ieri sera è stata fortunatamente riparata, con la diffusione in differita della Creazione, che ci ha permesso di godere di un’esecuzione che definirei di eccellente livello.

Mehta stupisce ogni giorno di più per la concentrazione e il piglio con cui guida le masse strumentali e corali; e i solisti (Volle su tutti) si sono egregiamente distinti, facendoci passare due ore indimenticabili (e facendoci dimenticare i guai che ci affliggono di questi tempi).

Quindi: grazie di cuore a tutti e... non mollate!


10 novembre, 2020

Contagiata anche la Creazione di Haydn-Mehta in streaming

Si moltiplicano le iniziative delle istituzioni musicali che propongono produzioni a-porte-chiuse irradiate in streaming sulla rete.

Questa sera è stata la volta del Maggio fiorentino, che ci voleva offrire una delle opere corali più grandiose dell’intera produzione degli ultimi secoli, Die Schöpfung di Joseph Haydn, diretta dal venerabile Zubin Mehta, che in questi tempi di coronavirus sembra aver moltiplicato le forze e le presenze sul podio...

Peccato che il virus abbia contagiato anche la tecnologia, che ha diffuso immagini passabili e suoni precisamente da polmonite interstiziale!

(Dico, se il contagio adesso si diffonde anche tramite web... ah padron, siam tutti morti!)


20 gennaio, 2020

La Risurrezione di Firenze


Eccomi quindi a riferire della seconda recita (ieri pomeriggio in un’OF ben affollata - mentre pare che così non fosse alla prima di venerdi...) dell’alfaniana Risurrezione.

L’ascolto della prima su Radio3 mi aveva positivamente impressionato: non già per la qualità della musica, che è quella che è... ma per quella degli interpreti (voci e strumenti) che mi era sembrata di buon livello. E devo dire che l’ascolto dal vivo ha confermato sostanzialmente questa impressione.

Anne Sophie Duprels è stata la regina della serata: voce abbastanza solida e corposa di soprano lirico-drammatico, ha proposto una Katiusha convincente nelle tre diverse prospettive nelle quali il personaggio si materializza: l’ingenua, spaurita ma infine voluttuosa adolescente; la spoetizzata e involgarita condannata-prigioniera; e infine la donna che trova la via della redenzione, pur non rinnegando i suoi sinceri sentimenti legati al tempo dell’ingenuità. 

Degna di apprezzamento la performance del tenore Matthew Vickers, un Dimitri a momenti spavaldo, oppure sconvolto (la rivelazione del figlio perduto) o ancora sinceramente premuroso con Caterina e leale con Simonson. La voce, che Alfano impegna spesso e volentieri nell’ardua zona di passaggio, è squillante e abbastanza ben proiettata, gli acuti sono staccati senza problemi. I duetti con Caterina sono stati fra le perle della serata.

Il catto-comunista Simonson era Leon Kim, che ha affrontato a viso aperto una parte baritonale per nulla facile, per quanto limitata al solo ultimo atto, mostrando buona intonazione e sicurezza anche nelle impervie salite al FA e al SOL cui lo chiama la partitura.

Applauditissima Romina Tomasoni, che ha incarnato la Matrena Pavlovna e (nel second’atto alla stazione) la fedele e premurosa Anna.

Francesca Di Sauro (Sofia Ivanovna) e Ana Victoria Pitts (sdoppiatasi in Korableva e Vera) hanno completato il cast dei ruoi principali con pieno merito.

Benissimo il Coro di Lorenzo Fratini, di rilievo quantitativamente non debordante, ma fondamentale, con interventi a bocca chiusa e a cappella. In più, alcune voci femminili hanno ricoperto ruoli non marginali, in particolare nel terz’atto della prigione.

Francesco Lanzillotta ormai non è più una promessa, e la sua concertazione ne è testimonianza, per accuratezza e costante ricerca del miglior equilibrio dei suoni di voci e strumenti. Poi, nei diversi passaggi puramente strumentali, il Direttore fa tesoro della lunga esperienza alla guida di Orchestre Sinfoniche.
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L’allestimento è affidato a Rosetta Cucchi, che si avvale delle scene - essenziali, ma di sicuro impatto - di Tiziano Santi e degli appropriati costumi di Claudia Pernigotti. Le luci, ideate da D.M.Wood, sono curate da Ginevra Lombardo e nella loro essenzialità ben supportano l’ambientazione ora serena, più spesso cruda, dell’opera. 

Approntata per un appuntamento irlandese, questa messinscena si fa innanzitutto apprezzare per la fedeltà rigorosa (parlo della sostanza) al testo originale: la storia che ci viene raccontata è precisamente quella che esce dal libretto di Hanau. Dopodichè la regista ci deve mettere qualcosa di suo, come l’apparizione in scena di una bimbetta che rappresenta la Caterina nella sua infanzia spensierata; oppure ambientare il carcere in cui è rinchiusa la donna in un laboratorio di cucito, con una selva di macchine Singer, la cui presenza nella Russia del 1880-90 è dubbia; o ancora mostrarci nel quarto atto i binari di una Transiberiana che era con tutta probabilità ancora di là da venire... e altre cosucce francamente innocue, ecco. Assai efficace la resa dei personaggi e delle loro interazioni. Mirabile ed emozionante, senza scadere nel banale, la scena ultima, con l’apparizione di un luminoso paesaggio agreste nel quale si incontrano la Caterina risorta e la sua piccola controfigura.
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Che dire, in definitiva? Lo spettacolo è di ottimo livello e l’accoglienza del pubblico è stata oltremodo calorosa. Insomma, un'azzardata scommessa (chè tale era e rimane) ampiamente vinta!

12 gennaio, 2020

Rarità in arrivo a Firenze: Risurrezione


Per quanto gli uomini, ammucchiati in uno stretto spazio a centinaia di migliaia, cercassero di isterilire quella terra sulla quale si stringevano; per quanto coprissero quella terra di pietre affinchè nulla più ci crescesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio; per quanto tagliassero le piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli uccelli; – pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in città. Il sole riscaldava, l’erba spuntava, cresceva e verdeggiava dovunque non la strappavano, e non solo sulle zolle dei giardini pubblici, ma anche fra i ciottoli delle vie; e le betulle, i pioppi, i viscioli allargavano i loro rami e le loro foglie odorose, ed i tigli gonfiavano le loro gemme pronte a sbocciare; i corvi, i passeri ed i colombi preparavano allegramente i loro nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Ed erano allegri gli uccelli, gl’insetti, e le piante, ed i bimbi. Ma gli uomini – gli uomini adulti – non cessavano dall’ingannare e dal tormentare sè stessi e gli altri. Gli uomini consideravano per savia ed importante non quella mattinata primaverile, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutti gli esseri, – quella bellezza che predisponeva alla pace, all’accordo, all’amore; ma invece solo sacro ed importante ciò che essi stessi avevano inventato per dominare gli uni sugli altri.

Greta? Francesco?

Queste parole di assoluta attualità sono l’apertura di Risurrezione di Leo Tolstoi, 1899. Da questa novella nel 1902 Henry Bataille trasse il testo di una pièce teatrale che fu vista da Franco Alfano. Il quale ne rimase tanto colpito da decidere di metterla in musica; ma le pretese eccessive del letterato francese indussero il compositore a ripiegare su una soluzione diversa: un libretto (affidato a Cesare Hanau, supportato dal drammaturgo Camillo Antona-Traversi) direttamente ispirato a Tolstoi e non a Bataille, il che spiega le non banali divergenze fra il testo del francese e quello dell’italiano.

L’OF ospiterà fra pochi giorni quattro rappresentazioni di quest’opera che ebbe un discreto successo al suo apparire, per poi... sparire o quasi dai cartelloni dei Teatri. Quando Alfano la presentò a Torino Giacomo Puccini aveva da meno di un anno sfornato la Butterfly, e certo non immaginava che una ventina d’anni dopo proprio al giovane collega partenopeo sarebbe stata affidata la sua tormentata e incompiuta Turandot per portarla... all’altare.

Il lavoro di Tolstoi ha caratteristiche piuttosto particolari, anche se non certo insolite per un’opera letteraria di quel genere: è infatti un racconto pieno di flash-back che mal si adatta al teatro (di prosa o musicale, cambia poco) e che la stessa cinematografia ha le sue belle gatte da pelare per rendere in modo efficace. Tolstoi apre il suo racconto proprio in-medias-res, in questo caso nel bel mezzo cronologico della sua storia (il processo a Caterina) metà della quale apprenderemo via via, appunto, come ricordi e riferimenti al passato, e l’altra metà come descrizione di eventi successivi, fino alla catartica conclusione. La pièce di Bataille e il libretto di Alfano-Hanau seguono invece un percorso rettilineo, che parte dall’evento scatenante del dramma (il prolifico incontro nella notte di Pasqua fra Dimitri e Caterina) e da lì procede fino alla fine.

Va subito sottolineato come le due riduzioni teatrali (Bataille e Alfano-Hanau) si concentrino esclusivamente (e, direi, appropriatamente, essendo opere destinate al teatro) sulla vicenda umana dei due protagonisti (Dimitri e Caterina) che invece in Tolstoi rappresenta - si potrebbe dire - solo il pretesto per l’esposizione di un vero e proprio trattato scientifico-antropologico-politico-giuridico-religioso, con tanto di critica corrosiva della società del suo tempo! Nel racconto del russo - che ha risvolti autobiografici - troviamo lunghissime dissertazioni sulla problematica della proprietà privata, in particolare di quella delle terre; e le proposte concrete, con tanto di contrattualistica, che il Principe Dimitri fa ai contadini dei suoi poderi essendo intenzionato a cedere loro la terra. Non parliamo poi della tematica relativa all’amministrazione della giustizia e delle carceri, con tanto di analisi dettagliate di leggi, norme, consuetudini e soprattutto con l’elencazione di casi che testimoniano infinite storture e brutalità del sistema. Ancora: argomenti squisitamente politici e ideologici, che occupano la mente di Dimitri, la cui parabola passa da un ingenuo idealismo adolescenziale, al conformismo che subentra con la maggiore età e il contatto con l’ambiente della nobiltà e dell’esercito, comprese le attitudini da libertino verso le donne (testimoniate anche da una relazione con una nobile sposata) di cui la povera Caterina diventa vittima; e infine - dopo il drammatico e quasi casuale incontro in tribunale con la ragazza sedotta anni prima e ora imputata di omicidio - il subentrare, attraverso il senso di colpa, di una volontà di riparazione, non solo del male fatto alla ragazza, ma del male dell’intero universo... maturando con ciò idee che oggi definiremmo catto-comuniste, un misto di radicalismo e filantropia, di cui è lampante esempio l’incontro-scontro con il cognato, membro dell’establishment dell’amministrazione giudiziaria e portatore di idee conservatrici, se non proprio reazionarie. Il racconto di Tolstoi si chiude con Dimitri che rilegge il Vangelo dopo l’addio di Caterina, rifiutatasi di accettare la sua proposta di matrimonio riparatore, il che fa esplodere in lui una profonda fede religiosa, che ispirerà la sua vita futura (Risurrezione!)

La mappa che segue reca le indicazioni delle principali località di cui si parla nel romanzo:


Panovo è la residenza delle zie di Dimitri, presso le quali il giovane aveva passato, da laureando, un periodo di vacanza, iniziando una tenera amicizia con la piccola Caterina. A distanza di pochi anni - ufficiale dell’Esercito - ci torna per trascorrere la Pasqua prima di andare a Odessa, e di lì al fronte per la guerra contro i turchi. Nella notte di Pasquetta mette incinta Caterina. (Si noti che Tolstoi ci rivela il nome del villaggio solo al 62° capitolo del racconto, dopo averne parlato già in lungo e in largo!) Alla periferia sud-est di Mosca (Kusminskoie) c’è il possedimento della madre di Dimitri, che lui deciderà poi di cedere ai suoi contadini. A Mosca (lo si deduce dal contesto, non viene detto esplicitamente!) si svolge anche - dopo qualche anno da quella Pasqua con Caterina - il processo alla ragazza (nel frattempo finita in casa di tolleranza) nel quale Dimitri fa da giurato popolare. A Pietroburgo si svolge la sessione del Senato in cui si discute la richiesta di cassazione del processo a Caterina, richiesta promossa da Dimitri ma respinta, il che comporta per la donna l’esecuzione della pena: lavori forzati in Siberia. Nizni (allora capolinea della ferrovia) Perm, Ekaterinburg, Tjumen e Tomsk sono le città citate nel romanzo e incontrate sul percorso di Caterina e dei deportati in Siberia, che Dimitri ha seguito, intenzionato a convincere la donna a sposarlo: dopo Tomsk la marcia prosegue ancora, ma senza che venga esplicitamente citata la località (forse Krasnojarsk...o l’ancor più remota Irkutsk) dove avviene la definitiva separazione fra Dimitri e Caterina.    

Tolstoi non dà precise indicazioni sull’epoca degli avvenimenti, ma il periodo storico si può abbastanza plausibilmente individuare in quella decina d’anni che decorre dallo scoppio della seconda guerra Russia-Turchia (1877): un indizio di ciò è nella presenza della ferrovia che passa nei pressi di Panovo, che Dimitri usa per andare al fronte turco, che certo non poteva esistere al tempo della prima guerra (quella di Crimea, per intenderci, che è del 1853-56).

Ora, dovendo ridurre un tomo di 800 pagine (129 capitoli suddivisi in tre parti) ad un testo teatrale, o a libretto d’opera, è evidente che si dovessero fare delle scelte. Lo schema sottostante riporta sinteticamente la struttura dei due lavori teatrali di Bataille e Hanau(-Alfano):


Come si può notare, le due riduzioni hanno alcune parti importanti in comune, ma altre diverse, a conferma dell’indipendenza del libretto di Hanau dal testo di Bataille. Entrambi contengono inoltre parecchie divergenze rispetto all’originale di Tolstoi, quasi inevitabili in casi come questo: quando si prendono, da un enorme mosaico, soltanto alcune tessere per costruirne uno più ridotto, è fatale che le tessere scelte poi non combacino più perfettamente, il che costringe a qualche... acrobazia per far tornare i conti. Incominciamo da Hanau. Il quale, nel secondo atto, modifica radicalmente la vicenda del mancato incontro fra Caterina e Dimitri alla stazione di Panovo.

Tolstoi: Dimitri è di ritorno dal fronte, ma fa sapere alle zie di non aver tempo di fermarsi nemmeno un giorno; è probabile che voglia evitare di incontrarsi con Caterina, che ancora abita lì (la sua gravidanza è tuttora un segreto, scoperto il quale verrà brutalmente cacciata): lei quindi, avendo evidentemente avuto l’informazione del giorno e ora di passaggio da Panovo del treno su cui viaggia Dimitri, si propone di parlargli in quei tre minuti di sosta del treno alla stazione, in piena notte. Purtroppo non ci riesce, per banali contrattempi.

Ora, costruire su questo prosaico episodio un intero atto d’opera sarebbe davvero dura... ed ecco che allora Hanau si inventa tutto di sana pianta: che Dimitri si ferma dalle zie per qualche giorno e (per matematica conseguenza) che la gravidanza di Caterina è stata già scoperta, portando alla cacciata della giovane dalla casa (altrimenti i due si incontrerebbero proprio lì, dalle zie...) Quindi si vede costretto ad inventare che Caterina abbia saputo da qualcuno della presenza a Panovo di Dimitri e del giorno della sua partenza, e che si rechi quindi alla stazione per incontrare il padre della creatura che porta in pancia (domanda: perchè non va direttamente a cercare Dimitri?) Ma adesso bisogna anche inventare un motivo per il quale l’incontro va a vuoto: ed ecco quindi la creazione del personaggio (muto) di Nora, che accompagna Dimitri e la cui presenza trattiene Caterina dal farsi avanti con l’amato (!)

Transigiamo sull’inspiegabile scambio di ruoli nel ricordo della corsa nei prati (in Tolstoi è lui che cade in mezzo alle ortiche, non lei, come nell’opera!) e sulla collocazione di Hanau della prigione di Caterina a Pietroburgo, invece che a Mosca, come correttamente fa Bataille. Il quale, da parte sua, costruisce il suo secondo atto mescolando due distinti episodi del romanzo: il battibecco a sfondo ideologico fra Dimitri e il cognato, e la rottura del fidanzamento dello stesso Dimitri con Missy. Comune a Bataille e Hanau è l’invenzione - nell’ultimo atto - della Pasqua in Siberia (in Tolstoi il racconto si chiude ancora in pieno inverno e sul mistico colpo-di-fulmine di Dimitri).
     
L’opera di Alfano viene (non proprio unanimemente) definita come verista: ma è un verismo (almeno secondo me) che si riduce a qualche contenuto musicale particolarmente carico di colori ed eccessi drammatici. Nella sostanza, il verismo autentico è in Tolstoi! Insieme all’assoluta coerenza del testo. Basta osservare come ci viene presentata dallo scrittore russo la vicenda della seduzione pasquale: Dimitri si era già, per così dire, traviato nei tre anni precedenti, con l’ingresso in società e il suo approccio verso Caterina in quella fatale Pasqua-Pasquetta, dopo un iniziale quanto fugace slancio romantico, fu di pura libidine e carnalità, desiderio maschilista di possesso: per tutta la giornata di Pasqua lui non fece che pensare a come possederla e per tutta la notte successiva non fece altro che darle letteralmente la caccia, fino a raggiungere il suo libidinoso obiettivo (infatti ricompensato con una banconota da 100 rubli, consegnata quasi di forza alla povera ragazza, trattata quindi come una prostituta!)

Nell’opera tutto ciò risulta assai edulcorato (verismo? haha...) ed anzi troviamo il giovane ancora ingenuo e romantico di qualche anno prima (cita addirittura Carducci: ecco l’albero a cui stendevi invano la piccioletta man...) L’unione fra i due alla chiusura del primo atto, a parte qualche timida esitazione di lei prima di abbandonarsi, è proprio la classica scena d’amore da melodramma tradizionale (...è il dì che unisce i nostri cuori in un solo destin!) La verità (di Tolstoi) la verremo sorprendentemente a sapere solo nel terzo atto, quando sarà proprio Caterina a svelarcela, rinfacciando a Dimitri l’affronto dei 100 rubli!

La stessa chiusa dell’opera è quanto di più melodrammatico (ma anche banalotto) si possa immaginare: il duetto strappalacrime fra due che si giurano amore e contemporaneamente si lasciano... e l’invenzione (mutuata da Bataille) della Pasqua siberiana con quella reiterata invocazione Cristo è risuscitato! che sa tanto di sagra paesana (dove magari spadroneggia la più grande ipocrisia). Tolstoi al contrario ci mostra il distacco fra Dimitri e Caterina con grande realismo (i due si lasciano come buoni amici, senza alcuna enfasi); e poi chiude con un fulminante concetto: dopo la lettura del Vangelo, che Dimitri fa la notte successiva, preparandosi a tornare in Russia, nulla - per lui, almeno - sarà più come prima!
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Sul piano musicale siamo di fronte - sempre a parere mio personale - ad un velleitarismo degno di miglior causa. Per carità, si può apprezzare la buona volontà di questo 28enne che cerca di farsi largo seguendo la corrente italiana che in quel momento pareva prevalere, ma i risultati sono piuttosto modesti. E non a caso lo stesso compositore abbandonerà assai presto il filone verista per cercare altre strade originali (Sakuntala ne sarà un frutto apprezzabile). Tornando a Risurrezione, a parte pochi spunti (da contarsi col contagocce) non trovo in quelle quasi due ore di musica molto di coinvolgente, nulla che faccia vibrare genuinamente qualche corda interiore. È un quasi continuo recitativo accompagnato (o arioso al massimo) su motivi abbastanza anonimi, poco scolpiti e poco penetranti, che devono oltretutto supportare un testo di per sè piuttosto piatto e incolore. Qui una delle poche registrazioni dell’opera, dove di apprezzabile c’è soprattutto la straordinaria voce di Magda Olivero. 

Insomma: un’opera appena appena interessante, certo non bella. Possiamo sperare che il bravo Lanzillotta e la creativa Cucchi ce la rendano almeno interessante! Venerdi 17 alle 20 su Radio3 la prima.

20 maggio, 2019

Il Bellini desueto all’OF


Firenze ha ospitato in settimana (ieri ultima delle tre recite in cartellone) il suo nuovo allestmento della quarta opera di Vincenzo Bellini, La straniera. La prima è stata trasmessa sia da Radio3 che da RAI5 e ciò ha consentito e consente di fare una sommaria conoscenza con questa produzione, affidata alla bacchetta di Fabio Luisi e alla regìa del neofita (nell’opera lirica) Mateo Zoni.

La versione presentata è la prima, del 1829 - come ricostruita nella più recente edizione critica, di Marco Uvietta - più sobria e stringata di quella del 1830 (cosidddetta versione Rubini poichè riveduta e corretta per il famoso tenore).

È questo un Bellini arrivato, dopo soli 4 anni, già quasi a metà strada della sua vita artistica (che si chiuderà con quella biologica nel 1835) e l’opera segna proprio il punto di svolta nel suo percorso evolutivo, proteso a distanziarsi dall’imperante Rossini e a porre le basi (in una con Donizetti) del melodramma romantico, che Verdi poi svilupperà da par suo. Credo che parlare di grande capolavoro sia francamente eccessivo, ancora vi si notano segni di immaturità, passaggi poco ispirati e cadute di tensione; ma i lati positivi abbondano, a partire dalla qualità delle melodie, che prefigura ciò che arriverà poi con Capuleti, Sonnambula, Norma e Puritani. Insomma, un titolo del quale si fatica a spiegare l’assenza dal repertorio dei principali teatri (qui a Firenze non si rappresentava dal 1830!)

Come spesso accade, il soggetto (dovuto al pur grande Felice Romani che lo mutuò a sua volta dall'abate Prévost) è di quelli che si fanno baffo della plausibilità (per non dire di peggio) e l’unico pregio del testo (qui Romani è peraltro da elogiare) è di fare adeguatamente da supporto per la musica di Bellini. In estrema sintesi: una specie di Donna del lago con finale tragico.

L’allestimento di Mateo Zoni porta l’ambientazione dal 1300 all’X300, un medioevo in un improbabile futuro: la scena di Tonino Zera e Renzo Bellanca è sostanzialmente vuota, con poche strutture verticali e uno stilizzato gazebo a far da capanna di Alaide; il tutto di sapore metallico e freddo, come il regista forse immagina l’inesistente lago di Montolino. I costumi di Stefano Ciammitti sono un pot-pourri di stili e di fogge, appariscenti e a volte ridicoli, come le maschere a grata  che velano il volto delle donne e l’abbigliamento della protagonista che, dovendo richiamare la vita un po’ selvaggia dell’ex-regina, è un riciclo di un costume di Papageno di un qualche vecchio Flauto magico (e meno male che la gabbietta dei volatili è andata persa...) Poco efficaci e di impiego scolastico anche le luci di Daniele Cipri.

Quanto a movimenti di singoli e masse, siamo alla più vetusta tradizione: coro che entra, se ne sta immobile sul fondo, poi esce alla chetichella; protagonisti che tendenzialmente parlano al pubblico e mai fra di loro... Del trattamento che questo medioevo riserva alla donna fa fede l’ottava scena del primo atto: Campo ai veltri cantano Osburgo e coro, visto che sta per iniziare una caccia al cervo; e in effetti due animali tenuti al guinzaglio attraversano il palco: ecco, sono due ragazze che camminano carponi!

Insomma, una cosa fra il velleitario e l’insulso, che ancora una volta fa concludere che una rappresentazione in forma di concerto avrebbe dato risultati migliori.
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Sul fronte dei suoni le cose sono andate un filino (ma proprio un filino) meglio, grazie a Fabio Luisi: lui si dice innamorato di quest’opera e cerca di farne emergere i lati interessanti e innovativi; senza però riuscire a renderci digeribili quelli meno ispirati: insomma, una direzione onesta e dignitosa, ma non trascendentale.

Salome Jicia fu sparata sulla scena del ROF nell’agosto 2016 (quando era appena trentenne) nell’impervia parte di Elena (un’altra e ben più famosa Donna del lago, appunto) e poi tornò ancora a Pesaro come Dorliska e nello Stabat del 2017. Avendola sentita in tutte queste occasioni mi sento di affermare che in tre anni scarsi la georgiana di progressi ne ha fatti parecchi, migliorando la qualità degli acuti e la penetrazione della sua voce nelle note gravi (anche se qui mi pare di aver colto un paio di frasette furbescamente innalzate all’ottava superiore...) Ma in sostanza lei ha retto bene l’impegno e giustamente è stata la più applaudita alla fine.

Più che discreta la prestazone di un’altra giovane, la trentenne Laura Verrecchia, che ha impersonato la povera Isoletta mettendo in mostra una voce rotonda e ben proiettata, oltre che una buona caratterizzazone psicologica di questo personaggio assai sfigato.

Decisamente sotto il livello delle signore le prestazioni dei maschi: l’Arturo di Dario Schmunck è piuttosto incolore (chissà, forse gli riuscirebbe meglio la versione-Rubini!) e appena meglio risulta essere Serban Vasile in Valdeburgo. I due non entusiasmano comunque nei loro incontri-scontri, che dovrebbero essere fra i momenti più pregnanti dell’opera.

Le altre tre voci maschili (tutte provenienti dall’Accademia del Teatro) su un livello di onesta sufficienza: il Priore di Adriano Gramigni non spicca per autorevolezza (parlo della voce, cavernosa e ingolata, e non della svettante presenza scenica); Dave Monaco è un Osburgo piuttosto opaco (in tutti i sensi) e Shuxin Li è un Montolino anonimo, proprio come il Priore: imponenza scenica, ma canto da migliorare assai.

Più che buona la prestazione del coro di Lorenzo Fratini, che nell’opera riveste un ruolo di primo piano, spesso a supporto dialogante con i protagonisti.
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Che dire, in conclusione? Che questa riapparizione dell’opera a Firenze dopo 189 anni forse meritava qualcosina di più? Ieri per la verità l’accoglienza è stata abbastanza calorosa, da parte di un pubblico assai folto e soprattutto (cosa che fa un gran piacere) imbottito di frotte di giovani e giovanissimi!

16 luglio, 2018

Muti trasloca il Macbeth da Firenze a Ravenna


Il Ravenna Festival ha proposto ieri un’edizione in forma di concerto del verdiano Macbeth diretto dal consorte della padrona di casa, tale Riccardo Muti. Si è trattato in pratica di una terza esecuzione dopo le due date al Maggio Musicale nei giorni scorsi (anch’esse senza messinscena) per celebrare i 50 anni dall’esordio del Maeschtre a Firenze. E lui non ha perso l’occasione per auto-festeggiarsi anche nella sua città di... accasamento. 

L’immenso PalaDeAndrè non è certo l’ambiente ideale per questi tipi di spettacolo e l’acustica, nonostante le diffuse pannellature, non è paragonabile a quella non solo dell’OF, ma di un qualsiasi teatro. Ciononostante la recita non ha tradito le attese e le tribune dell’arena erano gremite di gente cosmopolita (inclusi francesi e croazzi, reduci da tutt’altro tipo di spettacolo...)

Versione parigina del 1865, completa di ballabili, che è stata eseguita (abbastanza inspiegabilmente, o per accordi con il... bar) con due intervalli (1-2 e 2-3) il che ha portato la fine dello spettacolo (iniziato alle 21:00) ben oltre le 00:30 (...ma tanto siam qui in vacanza). Orchestra disposta con le viole al proscenio e cantanti dislocati proprio sotto il podio di Muti, che poteva letteralmente... imboccarli come fa una mamma con i pargoletti. E imbeccare anche il pubblico, con palesi ammiccamenti ad attivare applausi a scena aperta dopo le arie più famose.

Un Muti in gran spolvero, che quando l’oggetto è Verdi lascia infallibilmente il segno, dall’alto della sua ormai semi-secolare esperienza. Stacco di tempi esemplare, attenzione ai dettagli e alla varietà di dinamiche, attacchi a voci e coro sobri ma efficaci, insomma una direzione di livello assoluto.

Direzione assecondata al meglio dagli strumentisti e dal coro (di Lorenzo Fratini) del Maggio, esemplari nel ricreare le atmosfere ora cupe, ora irridenti (le streghe) ora meste (Patria oppressa... un capolavoro) o esaltanti che costellano la partitura.  

Le voci dei protagonisti tutte all’altezza, a cominciare da Luca Salsi, un Macbeth autorevole, voce di gran spessore e accenti sempre adeguati alla circostanza drammatica. Alla Lady di Vittoria Yeo si può forse rimproverare una certa freddezza di esposizione, ma la voce è ben impostata e la tecnica (richiesta da Verdi in alcuni passaggi assai difficili) più che apprezzabile. Ottimo come sempre Francesco Meli (Macduff) in una parte peraltro non proibitiva (una perla però, la sua Ah, la paterna mano) ed autorevole il Banco di Riccardo Zanellato, per il quale Muti ha quasi... imposto l’applauso di commiato dopo la sua brutta fine nella quarta scena dell’Atto II. Bella voce da tenore leggero ha sciorinato Riccardo Rados (Malcolm) conducendo il finale Arrivano-i-nostri. La damigella di Lady e il medico, Antonella Carpenito e Vito Luciano Roberti hanno dignitosamente completato il cast. Domestico, sicario, araldo e prima apparizione erano impersonati da artisti del coro (Vito Roberti, Giovanni Mazzei, Egidio Naccarato e Nicolò Ayroldi) mentre le altre due apparizioni erano cantate da due voci bianche (Pietro Beccheroni e Arianna Fracasso).

Successo grandissimo, siglato da ovazioni per tutti: davvero una serata da incorniciare.

16 ottobre, 2016

Filologia 2.0: la Rosmonda ri-ri-scoperta


A costo di sembrare pedante.

Dopo che alla prima di domenica scorsa a Firenze (non so cosa sia successo alla seconda) era stato presentato un finale dell’opera (cantato dal coro) spacciato come autentico (Ella spira!... Duolo, amor, testo pubblicato anche sul programma di sala) ieri sera l’opera (radiotrasmessa) si è conclusa sui versi di Leonora (come da libretto originale di Romani) Trema Enrico! Io regno ancor!

A 'sto punto, chissà se a Bergamo recuperano (finalmente!) la splendida cabaletta Tu spergiuro. E già che ci sono, pure Ti vedrò, donzella audace e il fuori-scena di Arturo... 

...il est temps encore.

10 ottobre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 2


Ieri pomeriggio l’OF (riempita più o meno al 60%: quindi bastava la Pergola, caso mai sistemando il coro in qualche palco, he he!) ha tenuto a battesimo un Donizetti piuttosto desueto, mettendo in scena (beh, non proprio in scena: in forma di concerto) la Rosmonda d’Inghilterra. L’esecuzione è presentata pomposamente come una prima mondiale, quella della nuova edizione di Alberto Sonzogni per la Fondazione Donizetti. Edizione che si baserebbe sul manoscritto riscoperto a Napoli 40 anni fa e che diverge in alcuni punti dal libretto originale di Romani stampato a Firenze nel 1834, in occasione della prima mondiale (quella autentica) alla Pergola (appunto!)

Da ciò che si legge sul programma di sala non è per nulla facile desumere (ammesso che interessino...) quali siano stati i criteri seguiti da Sonzogni per mettere a punto la sua edizione della partitura. La quale pare un ibrido fra il citato libretto e il citato manoscritto autografo.

Del primo è stato conservato l’esordio di Leonora (Fè mi serba, mi seconda) al posto della (di gran lunga migliore!) sostitutiva Ti vedrò, donzella audace. Ma non – chissà perchè - l’intervento (fuori scena, delizioso invero) di Arturo, mentre Rosmonda canta la sua aria di esordio.

Del manoscritto viene ignorata la parte preponderante del finale, cioè la splendida cabaletta con coro di Leonora Tu spergiuro. In compenso l’opera termina con Ella spira!... Duolo, amor, poche battute che compaiono nel manoscritto prima di detta cabaletta, laddove il libretto originale reca invece la drammatica esternazione di Leonora: Trema Enrico! Io regno ancor!

Ok, ok, uno dice: ma chi se ne frega di questi bizantinismi... Fatto sta che su di essi c’è gente che campa e lucra, accipicchia! Personalmente non ho dubbi che la versione (per così dire) messa a punto anni e anni fa da OperaRara (a partire dallo stesso manoscritto napoletano) sia assai più accattivante (nonostante i continui abbassamenti di uno o due semitoni nella registrazione in studio!) di quella ascoltata ieri.

E allora vengo a ciò che si è udito a Firenze.  

Protagonista la sempre più italiana (e fiorentina) Jessica Pratt, fresca reduce dagli... stravizi babilonesi. Al suo fianco altri rossiniani: Michael Spyres, insieme ad Eva Mei, Nicola Ulivieri e – en-travesti – Raffaella Lupinacci. Sullo sfondo, dietro l’Orchestra, il Coro di Lorenzo Fratini e sul podio, a dirigere tutti quanti, Sebastiano Rolli.

La Pratt si conferma nel bene e nel male: quando può (e/o decide arbitrariamente di) sbizzarrirsi su acuti e sovracuti (ieri è andata su, credo, fin oltre il FA di Astrifiammante) strappa applausi da stadio; ma nell’ottava bassa (che lei cerca in tutti i modi di evitare) mostra la corda. Solo così si spiega che, dopo l’aria del second’atto (Senza pace e senza speme) il pubblico le abbia tributato tre minuti di orologio di ovazioni, chiuse però da qualche sonoro buh, che ha gettato parecchio scompiglio in sala.

La sua regal rivale, Eva Mei, non mi ha del tutto convinto: avrebbe anche un timbro di voce (la parte è indicata in libretto per mezzosoprano) ed il physique du rôle adatti ad impersonare l’autoritaria, cinica e pure... attempata (11 anni più del marito) sovrana, ma gli acuti sono decisamente sfocati e vetrosi e l’emissione piuttosto periclitante. Molto meglio l’Arturo della Lupinacci, soprattutto nelle parti solistiche e nei duetti, ma purtroppo meno udibile negli insiemi.

Spyres è un Enrico sempre spavaldo e sicuro, anche se la parte forse non è fra le più adatte ai suoi mezzi: comunque non c’è una sua nota che non risuoni splendidamente anche nei grandi spazi dell’OF. Ulivieri senza infamia e senza lode: fa il suo compitino onestamente, ma non molto di più.

Ottimo il coro di Fratini e piacevolissima sorpresa (parlo per me, che lo vedevo all’opera per la prima volta) il 40enne (o poco più) Sebastiano Rolli: uno che penso farà ancora molta strada.

Credo che l’entusiasmo del pubblico si debba però a tale... Donizetti: è davvero incredibile come un’opera come questa, un autentico concentrato di splendida musica, sia rimasta per tanto tempo in cantina. C’è da augurarsi che non ci venga rimandata, sarebbe un vero peccato!
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Quattro dei cinque interpreti (Spyres è l’escluso) traslocheranno, insieme al Concertatore, a Bergamo - al Festival Donizetti - per le rappresentazioni in forma scenica di fine novembre.

(Quindi... continua.)

07 ottobre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 1


Il Festival Internazionale Donizetti-Opera offre quest’anno due primizie: Olivo&Pasquale e Rosmonda d’Inghilterra.

Quest’ultima opera fu rappresentata in prima assoluta a Firenze (Teatro della Pergola) giovedi 27 febbraio 1834 e poi, dopo una fugace ripresa a Livorno 11 anni più tardi... scomparve dai radar per 130 anni! Rimessa recentemente a nuovo dalla Fondazione Donizetti (curatore Alberto Sonzogni) costituirà il primo passo del progetto Donizetti a Firenze, che intende appunto indagare e sviluppare gli aspetti del rapporto fra il compositore bergamasco e la città toscana. Ecco quindi che, in vista delle rappresentazioni di fine novembre a Bergamo (in forma scenica) l’opera viene data in una specie di anteprima (in forma di concerto) a Firenze, non nella natìa Pergola peraltro, ma nella monumentale OF (la terza ed ultima recita del 15 verrà trasmessa da Radio3). Sotto la guida del Direttore Sebastiano Rolli, quattro dei cinque interpreti canteranno sia a Firenze che a Bergamo, con due diverse orchestre e cori, fiorentini e bergamaschi.
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Il libretto di Felice Romani (che anni prima ne aveva prodotto uno di pari soggetto per Carlo Coccia a Venezia) narra di vicende piuttosto complicate (sennò che melodramma sarebbe?) accadute a Woodstock (no, gli hippy non c’entrano, qui siamo in Inghilterra, l’America era ancora di là da venire!) nel lontano secolo XII, in un maniero dell’allora Re Enrico II. Costui, uno sciupafemmine degno antesignano del più famoso ottavo della serie, se la fa, sotto il falso nome (e te pareva...) di Edegardo (che sarebbe poi Edgardo in romanesco) con la bella Rosmonda (che per parte sua si innamora perdutamente di lui, ignorandone la vera identità) cornificando alla grande la nobile Leonora di Guienna e meditando il divorzio da quest’ultima.

Come sempre (o spesso, nei melodrammi perlomeno) accade, c’è qualcosa che va storto ai Re fedifraghi: capita che il giovane (Arturo) cui il Re incautamente affida in custodia segreta Rosmonda, mentre lui è occupato in una delle solite e noiose guerre con l’Irlanda, abbia non uno, ma ben due buoni motivi per sputtanarlo di fonte alla moglie: il primo è che lui, povero orfanello, deve proprio a Leonora la sua sopravvivenza, ed è quindi in debito di riconoscenza verso la Regina, cui rivela la tresca; il secondo è che lui è a sua volta innamorato stracotto di Rosmonda!

Non bastasse, si scopre che il padre di Rosmonda è tale Clifford, il vecchio tutore del Re, che appena scopre la tresca non esita a rampognare il suo sovrano (ed ex-pupillo) ingiungendogli di lasciare l’amante (che ancora ignora essere la figlia, dalla quale si era dovuto separare perchè furbescamente spedito dal Re in una missione diplomatica) per tornare alla mogliettina fedele, e ottenendo il permesso di incontrare la donna oggetto di adulterio per indurla al pentimento. Quando poi scopre trattarsi della figlia abbiamo una prolungata scena madre: Clifford svela a Rosmonda, che se ne dispera, l’identità dell’amante, che puntualmente arriva e conferma le sue intenzioni di sposarla e di scacciare Leonora. La quale a sua volta sopraggiunge e così abbiamo un parapiglia perfettamente adatto a reggere il grandioso concertato del finale primo!

Enrico insiste nel suo disegno (sbarazzarsi della moglie e sposare Rosmonda) ma Leonora si mostra tutt’altro che arrendevole e pare ben decisa a non farsi divorziare dal marito, al quale – durante un epico scazzo – rammenta che lui, insignificante Duca di Normandia, deve proprio a lei e al suo prestigio internazionale la sua ascesa al trono. Per di più gli manifesta immutato amore (!?)

Leonora ha un piano, che Clifford approva ed espone alla figlia: verrà spedita in Aquitania, sposata ad Arturo (che esulta per l’insperato regalo!) Rosmonda preferirebbe il convento (dopo Edegardo-Enrico lei non può amare altri uomini) ma alla fine cede ed accetta. Però poi è talmente ingenua da tradirsi involontariamente proprio con Enrico, che le ha appena annunciato di volerla far Regina. 

La situazione precipita: mentre attende il momento della partenza, Rosmonda è raggiunta da Leonora, che la accusa di aver deliberatamente fatto fallire il suo piano (al fine di sostituirla sul trono) e, armata di pugnale, è decisa a liberarsi di lei. Ma poi, impietosita dalle attestazioni d’innocenza della rivale, pare quasi orientata a risparmiarla. Senonchè in quel preciso momento arrivano Enrico e i suoi per sventare il suo piano, così Leonora trafigge Rosmonda e può proclamare in faccia al marito: Trema, Enrico! Io regno ancor! (Qui chiude il libretto originale, ma... ci saranno delle sorprese.)
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Beh, insomma, non sarà un libretto all’altezza delle opere della trilogia Stuart, ma non è nemmeno da buttare. Va detto che quattro dei cinque personaggi hanno un’identità storica ben precisa: Henry II, Eleanor of Aquitaine, Rosamund Clifford e suo padre Walter (e anche Woodstock è un luogo ben preciso nell’Oxfordshire). Solo Arturo è un’invenzione del librettista, al quale serviva per romanzare la vicenda: storicamente non è per nulla accertato, tutt’altro, che Rosamund sia stata eliminata da Eleanor: lo tramandano soltanto alcune tradizioni popolari. E in realtà pare che il Re e l’amante abbiano convissuto addirittura per 10 anni, avendo forse pure un paio di figli, prima della morte di lei, appena 26enne.
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Quanto alla musica, il suo livello spiega a fatica la collocazione dell’opera fra le minori di Donizetti, e meno ancora giustifica il letargo secolare che l’ha colpita: la struttura drammaturgica è assai solida, pochi sono i cali di tensione e i diversi numeri (solistici o di gruppo) sono di ottima fattura. Come ad esempio l’aria d’esordio di Rosmonda Perchè non ho del vento l’infaticabil volo? seguita dalla cabaletta Torna, ah! Torna, o caro oggetto, che verranno da Donizetti riciclate (complice la Fanny Tacchinardi-Persiani, prima Rosmonda a Firenze) nientemeno che al posto di Regnava nel silenzio (!) dapprima nelle rappresentazioni veneziane della Lucia del 1837, poi nella versione francese della Lucie (Que n'avons-nous des ailes? e Toi par qui mon coeur rayonne).

Ci sono anche due numeri, per così dire, contestati, nel senso che non si trovano nel libretto uscito in occasione della prima dalla stamperia Fantosini di Firenze. Si tratta di una nuova cabaletta di Leonora (Ti vedrò, donzella audace, nella seconda scena - con Arturo - in sostituzione di Sì, ti leggo in cor) e del finale dell’opera (Tu! spergiuro, disumano) cantato da Leonora e coro. Queste varianti si trovano nella partitura manoscritta di pugno dell’Autore, scovata a San-Pietro-a-Majella nei primi anni ’70 dello scorso secolo da parte di Patric Schmid, co-fondatore di OperaRara, scomparso nel 2005, il quale le ha poi presentate in esecuzioni pubbliche e in registrazione (1975 e poi 1994). Va ricordato che l’opera avrebbe dovuto essere rappresentata (ma non è certo che lo fu) a Napoli nel 1837, con il titolo Eleonora di Gujenna, il che probabilmente spiega la presenza del manoscritto nel locale Conservatorio. In attesa di ascoltarla dal vivo, ci possiamo gustare la registrazione del 1994 di OperaRara con la Fleming.

(1. continua)

03 ottobre, 2016

La Semiramide al Maggio, ovvero la “tagliata alla fiorentina”


Ieri pomeriggio terza e penultima recita di Semiramide all’OF, per l’occasione piacevolmente presa d’assalto da un pubblico tanto folto quanto entusiasta (il che è già di per sè un bello spettacolo...)

Semiramide è opera di lunghezza... wagneriana (intonsa tocca come nulla le 3 ore e 3/4 nette) e per questo spaventa chi la deve allestire ancor più di chi la va ad ascoltare (personalmente vorrei che di ore ne durasse cinque o sei, tale è la grandezza della musica!) Così capita quasi sempre che venga fatta oggetto di tagli più o meno corposi e più o meno giustificati. Firenze non ha fatto eccezione con potature che saranno pure, come si usa dire, di tradizione, ma alcune purtroppo intaccano componenti non proprio marginali dell’opera e qualche piccolo o medio danno alla drammaturgia e all’equilibrio complessivo lo arrecano. Sarebbe come rimuovere dalla facciata del Duomo di Firenze le nicchie con relative statue e le raggiere dei rosoni e dal campanile le colonnine che impreziosiscono bifore e trifore: certo, il Duomo resterebbe lì in tutta la sua imponenza, ma insomma...

Tanto per essere esageratamente pignoli, ecco il menu completo (rilevazione – spartito Ricordi alla mano - dalla prima radiotrasmessa il 27) della tagliata fiorentina (stra-smile!) Nel primo atto abbiamo le seguenti cassazioni:
- N°1 (Coro di apertura): tutta la sezione Dal Gange aurato alla fine; poi (esordio Idreno): seconda delle tre ripetizioni del verso Un costante e vivo amor; poi (esordio Assur): seconda delle tre ripetizioni del verso La Regina sceglierà; poi (terzetto Assur-Idreno-Oroe, A quei detti): la prima parte di Oroe; poi (Coro Ah! Ti vediamo ancor): ripetizione di In lei, elementi dei; poi (insieme Ah già il sacro fuoco è spento): prima esposizione di Trema il Tempio, infausto evento;
- Tutto il recitativo dopo il N°1 (da Oh tu, de’ Magi fino all’ingresso di Arsace);
- N°2: brevissimo recitativo dopo la cabaletta di Arsace (Ministri, al gran Pontefice);
- N°4 (Aria di Idreno): dalla ripresa di Ah! Dov’è, dov’è il cimento fino alla cadenza conclusiva (che ognora Idreno adorerà);
- Breve recitativo di Azema dopo il N°4 (Se non avesse e meritasse Arsace);
- N°5: nell’Introduzione strumentale si salta il controsoggetto, da metà della battuta 7 a metà della battuta 23 (delle 31 totali);
- Recitativo dopo il N°5: tagliato dalla frase di Semiramide E voi dunque approvate, fino a Va’, Mitrane; poi da Oroe, co’ Magi fino all’entrata di Arsace; poi da Io ne conosco già la fè fino a inizio cantabile (Serbami ognor);
- Tutto il recitativo dopo il N°6 (Oroe dal tempio nella reggia?);
- N°7: soppresso il Coro di Magi (E dal ciel placati, o numi); poi (Coro finale Atto I): tagliata la ripetizione di Atro evento...

Nell’Atto II spariscono:
- Breve recitativo introduttivo di Mitrane (Alla reggia d’intorno cauto);
- Recitativo Semiramide-Assur: da A me restava allor un figlio, fino a inizio duetto;
- N°8 (Duetto Semiramide-Assur): ripetizione di Ah! Senti! Questa gioja! fino alla stretta conclusiva del duetto;
- N°9: dalla quinta battuta del Preludio, eliminato il Coro di Magi, fino all’ingresso di Arsace (Ebben, compiasi omai); poi la frase di Oroe Gli empi conosci omai... è il tuo dover e la risposta di Arsace (Ah tu gelar mi fai); poi (Arsace e Coro) l’interiezione fra le due ripetizioni di Al gran cimento;
- N°10 (Idreno-Coro): seconda delle tre ripetizioni del verso S’abbandoni il vostro cor;
- N°11 (Semiramide-Arsace): ponte e ripetizione di Tu serena intanto il ciglio;
- N°12 (Coro Oroe dal tempio uscì): soppressa la frase Sull’Assiria al nuovo dì fino a Non v’è soglio più per te;
- Recitativo dopo il N°12 (Mitrane);
- N°13: Coro di Magi (Un traditor con empio ardir) soppresso fino ad entrata di Arsace (Qual densa notte);
- N°13: soppresso il resto della scena da Il vostro Re mirate fino al Coro finale.  

Mi limito a commentare lapidariamente solo l’ultimo dei tagli: semplicemente da denuncia penale!

Domanda: ma ne vale davvero la pena? Per quale pro? Accorciare i tempi di circa 15 minuti su 225? (ma allora perchè non fare le cose in grande e, già che ci siamo, tagliarne 30 o 45 di minuti, tornando alla barbarie della pre-renaissance...?) Oppure risparmiare un po’ di fiato ai cantanti e fiato e fatica agli orchestrali? Mah...

Vengo ai protagonisti, cominciando ovviamente da madre e figlio. Che devo dire hanno cantato assai bene, corrette in tutti i passaggi, particolarmente nelle impervie fioriture (originali e/o predisposte all’uopo). Purtroppo sia Pratt che Santafé mi paiono, come dire, fuori-ruolo, avendo voci congenitamente assai più leggere di quanto non servirebbe per i due personaggi. Pratt trasporta spesso e volentieri dei passaggi (o singole note) all’ottava superiore; nel Bel Raggio si permette addirittura un paio di MI sovracuti, staccati perfettamente e che le procurano un diluvio di applausi, poi nel Giuri ognuno sale in agilità ad un MIb ghermito approssimativamente. Tutte note che Rossini si era ben guardato dallo scrivere, conoscendo alla perfezione i limiti della mogliettina, che mai e poi mai ci sarebbe potuta arrivare. La sua è quindi una Semiramide assai lirica ma assai meno drammatica, ecco. Idem per il contralto, che in effetti è un mezzo (adatto più per Azema che per Arsace?)  

L’Idreno di Gatell ha mostrato buone (e riconosciute) qualità, apparendo abbastanza omogeneo su tutta la gamma, con qualche affanno sugli acuti (il RE, scritto in partitura, questo, uscito un po’ sporco) nella sua prima aria. Inspiegabile pertanto (o sospetto) il taglio apportato al medesimo numero. Cionondimeno si è avuto un lungo applauso dopo l’aria con cui saluta tutti, dove tocca un bel SI (non scritto).

Palazzi è un più che discreto Assur, voce sempre ben impostata, con qualche affanno però sui diversi FA sopra il rigo, dove perde chiaramente potenza e si fa sommergere da coro e orchestra (vedi la chiusa della sua grande aria nel finale).

Gli altri (Tsybulko, Lee, Giovannini e Langella) su standard appena accettabili, così come il coro di Fratini (relegato in buca, faccia al palco e dietro al Direttore, per discutibili prescrizioni ronconiane) anch’esso gratificato di sconti da saldi di fine stagione...

Benino l’Orchestra, non indenne da svirgolamenti di corni e da qualche attacco approssimativo, e malino (malissimo per parte del pubblico) il Direttore Walker. Costui si è preso una serie di buh al rientro e poi è stato sommerso di improperi – unico dell’intera compagnia - all’uscita finale. Io sono di bocca buona e gli rimprovero una certa erraticità nello stacco dei tempi, spesso fin troppo compassati e talvolta eccessivamente stretti (il coro finale davvero incredibile: ci mancava solo che invece di Vieni Arsace cantassero Vecchio scarpone...) Anche le dinamiche non sempre erano a posto... però bisogna riconoscere che pilotare fino al porto un transatlantico (pur alleggerito) come questo non è comunque cosa da poco.
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Ronconi. Parlar male dei morti, lo so, non sta bene... ma quando ce vo’, ce vo’! poi era ancora vivo nel 2011 quando inventò questa genialata per il SanCarlo. Lui, come tutti i grandi, fa grandi anche le... cazzate, come questa messinscena davvero inaccettabile (per me, ovviamente).

Dico, va bene che Semiramide è un soggetto pieno zeppo di problematiche assai cupe: lei con i continui sensi di colpa, Assur frustrato per non riuscire a raggiungere il potere, Arsace disperato che vede sfumare sul più bello l’amore della sua vita, Oroe che sfoga le sue clericali inibizioni abbeverandosi di sangue... Però, accidenti, l’ambiente immaginato da Rossi-Rossini è quello della Babilonia fiorente, prospera, ricchissima e viziosa, proprio come la stessa Regina l’aveva modellata dopo aver fatto secco il marito che la stava ripudiando! E i numerosi cori che (se non vengono brutalmente tagliati) costellano l’intero svolgersi della vicenda sono proprio lì a mostrarcene la magnificenza e la gloria. Ed è precisamente il contrasto fra l’euforia dell’ambiente esterno e lo strazio che abita le anime dei protagonisti a rendere mirabile l’intero impianto estetico dell’opera, grazie ai suoni di cui Rossini l’ha rivestito.

Ronconi? Mentre il coro vero canta (per quel che gli lasciano cantare) la sua felicità restando invisibile, noi che vediamo sulla scena? Mura diroccate e catacombe dalle quali fuoriescono ospiti di un lebbrosario: mammamia!

Non aggiungo altro per non incappare nel reato di vilipendio di cadavere, ecco.
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Che dire, al tirar delle somme? Un’occasione sprecata.