Firenze ha ospitato in settimana (ieri ultima
delle tre recite in cartellone) il suo nuovo allestmento della quarta opera di Vincenzo Bellini, La straniera.
La prima è stata trasmessa sia da
Radio3 che da RAI5 e ciò ha
consentito e consente di fare una sommaria conoscenza con questa produzione,
affidata alla bacchetta di Fabio Luisi
e alla regìa del neofita (nell’opera lirica) Mateo Zoni.
La versione presentata è la prima, del
1829 - come ricostruita nella più recente edizione critica, di Marco Uvietta - più sobria e stringata
di quella del 1830 (cosidddetta versione Rubini
poichè riveduta e corretta per il famoso tenore).
È questo un Bellini arrivato, dopo soli
4 anni, già quasi a metà strada della sua vita artistica (che si chiuderà con
quella biologica nel 1835) e l’opera segna proprio il punto di svolta nel suo
percorso evolutivo, proteso a distanziarsi dall’imperante Rossini e a porre le
basi (in una con Donizetti) del melodramma romantico, che Verdi poi svilupperà
da par suo. Credo che parlare di grande capolavoro sia francamente eccessivo,
ancora vi si notano segni di immaturità, passaggi poco ispirati e cadute di
tensione; ma i lati positivi abbondano, a partire dalla qualità delle melodie,
che prefigura ciò che arriverà poi con Capuleti, Sonnambula, Norma e Puritani.
Insomma, un titolo del quale si fatica a spiegare l’assenza dal repertorio dei
principali teatri (qui a Firenze non si rappresentava dal 1830!)
Come spesso accade, il soggetto (dovuto
al pur grande Felice Romani che lo
mutuò a sua volta dall'abate Prévost) è di quelli che si fanno baffo della
plausibilità (per non dire di peggio) e l’unico pregio del testo (qui Romani è
peraltro da elogiare) è di fare adeguatamente da supporto per la musica di
Bellini. In estrema sintesi: una specie di Donna
del lago con finale tragico.
L’allestimento di Mateo Zoni porta l’ambientazione dal 1300 all’X300,
un medioevo in un improbabile futuro: la scena di Tonino Zera e Renzo Bellanca è
sostanzialmente vuota, con poche strutture verticali e uno stilizzato gazebo a
far da capanna di Alaide; il tutto di sapore metallico e freddo, come il
regista forse immagina l’inesistente lago di Montolino. I costumi di Stefano Ciammitti sono un pot-pourri di
stili e di fogge, appariscenti e a volte ridicoli, come le maschere a grata che velano il volto delle donne e l’abbigliamento
della protagonista che, dovendo richiamare la vita un po’ selvaggia dell’ex-regina,
è un riciclo di un costume di Papageno di un qualche vecchio Flauto magico (e meno male che la
gabbietta dei volatili è andata persa...) Poco efficaci e di impiego scolastico
anche le luci di Daniele Cipri.
Quanto a
movimenti di singoli e masse, siamo alla più vetusta tradizione: coro che
entra, se ne sta immobile sul fondo, poi esce alla chetichella; protagonisti
che tendenzialmente parlano al pubblico e mai fra di loro... Del trattamento
che questo medioevo riserva alla donna fa fede l’ottava scena del primo atto: Campo ai veltri cantano Osburgo e coro,
visto che sta per iniziare una caccia al cervo; e in effetti due animali tenuti
al guinzaglio attraversano il palco: ecco, sono due ragazze che camminano
carponi!
Insomma, una
cosa fra il velleitario e l’insulso, che ancora una volta fa concludere che una
rappresentazione in forma di concerto avrebbe dato risultati migliori.
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Sul fronte
dei suoni le cose sono andate un filino (ma proprio un filino) meglio, grazie a
Fabio Luisi: lui si dice innamorato
di quest’opera e cerca di farne emergere i lati interessanti e innovativi; senza
però riuscire a renderci digeribili quelli meno ispirati: insomma, una
direzione onesta e dignitosa, ma non trascendentale.
Salome Jicia fu sparata sulla scena del ROF nell’agosto 2016 (quando era appena
trentenne) nell’impervia parte di Elena (un’altra e ben più famosa Donna del lago, appunto) e poi tornò
ancora a Pesaro come Dorliska e nello
Stabat del 2017. Avendola sentita in
tutte queste occasioni mi sento di affermare che in tre anni scarsi la
georgiana di progressi ne ha fatti parecchi, migliorando la qualità degli acuti
e la penetrazione della sua voce nelle note gravi (anche se qui mi pare di aver
colto un paio di frasette furbescamente innalzate all’ottava superiore...) Ma
in sostanza lei ha retto bene l’impegno e giustamente è stata la più applaudita
alla fine.
Più che discreta la prestazone di un’altra giovane, la trentenne Laura Verrecchia, che ha impersonato la
povera Isoletta mettendo in mostra una voce rotonda e ben proiettata, oltre che
una buona caratterizzazone psicologica di questo personaggio assai sfigato.
Decisamente sotto il livello delle signore le prestazioni dei maschi: l’Arturo
di Dario Schmunck è piuttosto incolore (chissà,
forse gli riuscirebbe meglio la versione-Rubini!) e appena meglio risulta
essere Serban Vasile in Valdeburgo. I
due non entusiasmano comunque nei loro incontri-scontri, che dovrebbero essere
fra i momenti più pregnanti dell’opera.
Le altre tre voci maschili (tutte provenienti dall’Accademia del Teatro)
su un livello di onesta sufficienza: il Priore di Adriano Gramigni non spicca per autorevolezza (parlo della voce,
cavernosa e ingolata, e non della svettante presenza scenica); Dave Monaco è un Osburgo piuttosto opaco
(in tutti i sensi) e Shuxin Li è un Montolino anonimo,
proprio come il Priore: imponenza scenica, ma canto da migliorare assai.
Più che buona la prestazione del coro di Lorenzo Fratini, che nell’opera riveste un ruolo di primo piano,
spesso a supporto dialogante con i protagonisti.
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Che dire, in conclusione? Che questa riapparizione dell’opera a
Firenze dopo 189 anni forse meritava qualcosina di più? Ieri per la verità l’accoglienza
è stata abbastanza calorosa, da parte di un pubblico assai folto e soprattutto
(cosa che fa un gran piacere) imbottito di frotte di giovani e giovanissimi!
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