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20 maggio, 2019

Il Bellini desueto all’OF


Firenze ha ospitato in settimana (ieri ultima delle tre recite in cartellone) il suo nuovo allestmento della quarta opera di Vincenzo Bellini, La straniera. La prima è stata trasmessa sia da Radio3 che da RAI5 e ciò ha consentito e consente di fare una sommaria conoscenza con questa produzione, affidata alla bacchetta di Fabio Luisi e alla regìa del neofita (nell’opera lirica) Mateo Zoni.

La versione presentata è la prima, del 1829 - come ricostruita nella più recente edizione critica, di Marco Uvietta - più sobria e stringata di quella del 1830 (cosidddetta versione Rubini poichè riveduta e corretta per il famoso tenore).

È questo un Bellini arrivato, dopo soli 4 anni, già quasi a metà strada della sua vita artistica (che si chiuderà con quella biologica nel 1835) e l’opera segna proprio il punto di svolta nel suo percorso evolutivo, proteso a distanziarsi dall’imperante Rossini e a porre le basi (in una con Donizetti) del melodramma romantico, che Verdi poi svilupperà da par suo. Credo che parlare di grande capolavoro sia francamente eccessivo, ancora vi si notano segni di immaturità, passaggi poco ispirati e cadute di tensione; ma i lati positivi abbondano, a partire dalla qualità delle melodie, che prefigura ciò che arriverà poi con Capuleti, Sonnambula, Norma e Puritani. Insomma, un titolo del quale si fatica a spiegare l’assenza dal repertorio dei principali teatri (qui a Firenze non si rappresentava dal 1830!)

Come spesso accade, il soggetto (dovuto al pur grande Felice Romani che lo mutuò a sua volta dall'abate Prévost) è di quelli che si fanno baffo della plausibilità (per non dire di peggio) e l’unico pregio del testo (qui Romani è peraltro da elogiare) è di fare adeguatamente da supporto per la musica di Bellini. In estrema sintesi: una specie di Donna del lago con finale tragico.

L’allestimento di Mateo Zoni porta l’ambientazione dal 1300 all’X300, un medioevo in un improbabile futuro: la scena di Tonino Zera e Renzo Bellanca è sostanzialmente vuota, con poche strutture verticali e uno stilizzato gazebo a far da capanna di Alaide; il tutto di sapore metallico e freddo, come il regista forse immagina l’inesistente lago di Montolino. I costumi di Stefano Ciammitti sono un pot-pourri di stili e di fogge, appariscenti e a volte ridicoli, come le maschere a grata  che velano il volto delle donne e l’abbigliamento della protagonista che, dovendo richiamare la vita un po’ selvaggia dell’ex-regina, è un riciclo di un costume di Papageno di un qualche vecchio Flauto magico (e meno male che la gabbietta dei volatili è andata persa...) Poco efficaci e di impiego scolastico anche le luci di Daniele Cipri.

Quanto a movimenti di singoli e masse, siamo alla più vetusta tradizione: coro che entra, se ne sta immobile sul fondo, poi esce alla chetichella; protagonisti che tendenzialmente parlano al pubblico e mai fra di loro... Del trattamento che questo medioevo riserva alla donna fa fede l’ottava scena del primo atto: Campo ai veltri cantano Osburgo e coro, visto che sta per iniziare una caccia al cervo; e in effetti due animali tenuti al guinzaglio attraversano il palco: ecco, sono due ragazze che camminano carponi!

Insomma, una cosa fra il velleitario e l’insulso, che ancora una volta fa concludere che una rappresentazione in forma di concerto avrebbe dato risultati migliori.
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Sul fronte dei suoni le cose sono andate un filino (ma proprio un filino) meglio, grazie a Fabio Luisi: lui si dice innamorato di quest’opera e cerca di farne emergere i lati interessanti e innovativi; senza però riuscire a renderci digeribili quelli meno ispirati: insomma, una direzione onesta e dignitosa, ma non trascendentale.

Salome Jicia fu sparata sulla scena del ROF nell’agosto 2016 (quando era appena trentenne) nell’impervia parte di Elena (un’altra e ben più famosa Donna del lago, appunto) e poi tornò ancora a Pesaro come Dorliska e nello Stabat del 2017. Avendola sentita in tutte queste occasioni mi sento di affermare che in tre anni scarsi la georgiana di progressi ne ha fatti parecchi, migliorando la qualità degli acuti e la penetrazione della sua voce nelle note gravi (anche se qui mi pare di aver colto un paio di frasette furbescamente innalzate all’ottava superiore...) Ma in sostanza lei ha retto bene l’impegno e giustamente è stata la più applaudita alla fine.

Più che discreta la prestazone di un’altra giovane, la trentenne Laura Verrecchia, che ha impersonato la povera Isoletta mettendo in mostra una voce rotonda e ben proiettata, oltre che una buona caratterizzazone psicologica di questo personaggio assai sfigato.

Decisamente sotto il livello delle signore le prestazioni dei maschi: l’Arturo di Dario Schmunck è piuttosto incolore (chissà, forse gli riuscirebbe meglio la versione-Rubini!) e appena meglio risulta essere Serban Vasile in Valdeburgo. I due non entusiasmano comunque nei loro incontri-scontri, che dovrebbero essere fra i momenti più pregnanti dell’opera.

Le altre tre voci maschili (tutte provenienti dall’Accademia del Teatro) su un livello di onesta sufficienza: il Priore di Adriano Gramigni non spicca per autorevolezza (parlo della voce, cavernosa e ingolata, e non della svettante presenza scenica); Dave Monaco è un Osburgo piuttosto opaco (in tutti i sensi) e Shuxin Li è un Montolino anonimo, proprio come il Priore: imponenza scenica, ma canto da migliorare assai.

Più che buona la prestazione del coro di Lorenzo Fratini, che nell’opera riveste un ruolo di primo piano, spesso a supporto dialogante con i protagonisti.
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Che dire, in conclusione? Che questa riapparizione dell’opera a Firenze dopo 189 anni forse meritava qualcosina di più? Ieri per la verità l’accoglienza è stata abbastanza calorosa, da parte di un pubblico assai folto e soprattutto (cosa che fa un gran piacere) imbottito di frotte di giovani e giovanissimi!

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