ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

17 maggio, 2019

Il ritorno di Idomeneo... alla Scala


Ieri sera al Piermarini è andata in scena la prima di Idomeneo, tornato in Scala dopo quasi 10 anni dall’ultima comparsa (Chung nel 2009) che riprendeva l’edizione del Sant’Ambrogio 2005 dove si rivelò (almeno a noi di queste parti) un tipo (Daniel Harding) che ha poi fatto molta strada. Teatro con evidentissimi vuoti, anche in platea, vuoti ulteriormente allargatisi nell’intervallo (ahiahi...)

Sappiamo che la musica di cui Mozart rivestì Idomeneo è di un valore inestimabile, ma soprattutto inversamente proporzionale a quello del testo che il librettista Giambattista Varesco predispose per lui, mutuandolo da Antoine Danchet, oltre che dalla mitologia greca. Già la figura del protagonista ha contorni ambigui assai: sovrano illuminato ed amato dal suo popolo, valorosissimo combattente, addirittura testa di cuoio a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.

Però questo colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di Creta, il colosso se la fa letteralmente addosso e per cercare misericordia dal manovratore-di-maree-e-marette (tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi scalzi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di moda). Sì, ma di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che spirito di sacrificio, che lodevole abnegazione!  

E allora, scusate, che il malcapitato si riveli proprio essere il suo unico figlio Idamante, lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e minaccevole) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) Dopodichè, una volta in salvo, si mostra ipocritamente pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E per di più cerca poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro) col che procura una moltitudine di vittime innocenti al suo stesso popolo (per essere un sovrano illuminato non c’è davvero male...) Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono ad Idamante e ad Ilia, che si sono offerti - dandogli una bella lezione in fatto di spirito di sacrificio - come vittime da offrire a Nettuno.

Per insaporire la trama con un minimo di amori e gelosie assortite, ecco che su Creta convergono miracolosamente da lontani e opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi di tale Elettra, figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha spedito a Creta in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.

Completano il cast un confidente di Idomeneo, tale Arbace e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di Elettra. In più si ode la Voce (o meglio il porta-voce) di Nettuno che reca il perdono e consente così il lieto fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo prima). 
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Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio assai, ma ciò non impedì al Teofilo di costruirci sopra un autentico capolavoro, quasi rivoluzionario per quei tempi e per lo stesso percorso estetico del 24enne genio di Salzburg.

Musica che fu composta con tale sovrabbondanza (e anche con alcuni rifacimenti successivi alla prima di Monaco di Baviera del 1781, in particolare per Vienna, 1786) da non essere mai eseguibile integralmente! Ed anche in questa produzione della Scala i tagli abbondano, pur riguardando prevalentemente dei recitativi, che però in quest’opera sono quasi sempre accompagnati, e quindi ricchi di grande musica. Contrariamente a quanto riportato nella prefazione di Olimpio Cescatti al libretto, non viene reinserita nel recitativo del N°27 - prima dell’Allegro Ma che più tardi - l’aria di Idamante (No, la morte io non pavento). Viene in compenso eseguita nel finale - dopo il fantastico recitativo, in versione integrale - l’aria (N°29a) di Elettra (D’Oreste, d’Aiace).

Un discorso a parte meritano i balletti, che impreziosiscono musicalmente l’opera ma che, per ragioni drammaturgiche, vengono quasi sempre omessi: e lo furono anche nell’edizione del 2005 (Muti li eseguì quasi integralmente nel lontano 1990). Qui la locandina mette in evidenza la presenza del Corpo di Ballo scaligero, che in effetti si è presentato subito danzando... l’Ouverture! Dopodichè ha fatto brevi comparse qua e là, per tornare nel finale dell’opera. Cassato l’Intermezzo fra primo e secondo atto (concatenati senza soluzione di continuità) è stato invece eseguito un estratto del balletto finale (che peraltro Mozart stesso non indicò con precisione dove collocare e fu catalogato con numero K367, diverso dal K366 dell’opera!)

I tagli, che colpiscono in misura preponderante il lunghissimo atto finale, riducono la durata dello spettacolo a dimensioni normali (2h40’ netti) e in questa produzione viene operato un solo intervallo, fra il secondo e il terz’atto. Un’esecuzione (quasi) integrale (3h20’) e corredata anche di alcuni... extra si può ascoltare in rete: è quella diretta da Gardiner nel 1990

Diego Fasolis ha lasciato temporaneamente il suo amato barocco per cimentarsi in questo Mozart preromantico, subentrando al venerando von Dohnányi che Pereira aveva originariamente ingaggiato e che aveva preparato con il regista Hartmann le linee generali dello spettacolo. Fasolis spiega sul programma di sala di aver parzialmente rivisto quell’impostazione originaria: il risultato dell’operazione mi è parso piuttosto discutibile, ecco. La sua direzione è stata caratterizzata da grandi contrasti, fra fracassi eccessivi (vedi la secchezza dei colpi di timpano) ed altrettanto eccessivi languori. Accettabile la concertazione, almeno attenta a non coprire le (non potentissime) voci.

Il Coro di Bruno Casoni, beneficiato da alcuni tagli, ha mantenuto il suo ottimo standard abituale, negli interventi lirici come in quelli più drammatici (vedi chiusa del second’atto).

Il protagonista è Bernard Richter, tornato in Scala dopo le due non entusiasmanti visite del 2018 (Fierrabras e Giardiniera): la sua è stata una prestazione non più che discreta sul fronte musicale, piuttosto incolore su quello attoriale.

Da quando i castrati sono scomparsi (meno male...) dalla faccia della terra (quanto meno nei nostri paesi cosiddetti civilizzati) e quindi anche dalle scene, il ruolo di Idamante viene affidato a soprani o - più spesso, per non ammassarne addirittura tre (dopo Ilia ed Elettra) - a mezzosoprani. Così avviene anche qui, con la travestita Michèle Losier ad impersonare il figlio del Re. Anche a lei darò un voto di sufficienza e non di più: il suo Idamante mi ha assai poco emozionato, ad essere sinceri.  

La mite e dimessa Ilia è Julia Kleiter, che ha ben meritato, mostrando solidità negli acuti, anche se un filino carente nella cosiddetta ottava bassa.    

Alle mie orecchie (ma anche agli occhi) la migliore in scena è stata l’ex-accademica Federica Lombardi: che ha sostenuto brillantemente il difficile ruolo di Elettra, donna evidentemente segnata dalle pregresse vicissitudini famigliari (che pretende di imitare la sorellina Chrisothemis mettendo su famiglia sì, ma solo con un sovrano, mica pizza&fichi...) e dal carattere divenuto intrattabile. Voce corposa e benissimo gestita, nelle due arie arrabbiate come nei passaggi più lirici. Unanimi consensi per lei alla fine.

Nei panni del modesto (drammaturgicamente parlando) Arbace è Giorgio Misseri. Mozart però lo gratifica nientemeno che di due arie e lui se la cava con onore.

Buone cose ha fatto Kresimir Spicer nel suo isolato ma importante intervento (da Gran Sacerdote). Così come Emanuele Cordaro (Voce di Nettuno) esibitosi dal Palco Reale, che ormai è diventato una dépendance del palcoscenico: a lui è stata riservata la più corposa delle tre versioni del suo intervento musicate da Mozart. Dignitose/i le le due cretesi (Silvia Spruzzola e Olivia Antoshkina) e i due troiani (Massimiliano Di Fino e Marco Granata).

Pubblico, come detto, scarseggiante di numero e anche di entusiasmo: pochi e modesti applausi a scena aperta e qualche approvazione in più alle uscite finali. Ma certo non si può parlare di trionfo...
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La regìa di Matthias Hartmann (coadiuvato dal drammaturgo - quello che di solito inventa di bel nuovo il soggetto per il regista - Michael Küster) vorrebbe programmaticamente mostrare l’involuzione del rapporto fra potere e popolo: un potere insicuro e ossessionato dalle proprie colpe e un popolo che rischia di andare allo sbando senza una guida sicura; tutti salvati dall’intervento dell’amore, quello di Ilia per Idamante. Buone le intenzioni, meno efficace la loro realizzazione. Comunque va riconosciuto al regista (e al suo drammaturgo) di non aver inventato nulla di gratuito, insomma di averci propinato onestamente il soggetto originale. Nulla di trascendentale per ciò che attiene alla gestione di movimenti e atteggiamenti di personaggi e masse.

La scena (di Volker Hintermeier) è fissa, come contenuti (un’enorme testa di minotauro e lo scheletro, o il fasciame, di una nave) e però continuamente girevole, in modo da mettere sempre in primo piano uno dei due componenti. Le luci di Mathias Märker sono sapientemente impiegate per creare di volta in volta l’atmosfera che caratterizza le varie scene. Impressionante, in particolare, quella della tempesta.

I costumi di Malte Lübben sono un misto di fogge e stili diversi, nessuno precisamente inquadrabile (certo nulla di cretese mitologico!) ma tutti mediamente plausibili.

Il Corpo di Ballo della Scala ha interpretato le coreografie di Reginaldo Oliveira, improntate a modernismo assai lontano (credo io) da ciò che nel ‘700 (e oltre) si mostrava sulle scene.

In conclusione, uno spettacolo dignitoso ma non trascendentale: come detto, alla fine il pubblico (rimasto) ha mostrato moderata soddisfazione; personalmente devo dire che speravo in qualcosa di più e meglio... 

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