Ieri
sera al Piermarini è andata in scena la prima
di Idomeneo, tornato in Scala dopo quasi 10 anni dall’ultima comparsa
(Chung nel 2009) che riprendeva
l’edizione del Sant’Ambrogio 2005 dove si rivelò (almeno a noi di queste parti)
un tipo (Daniel Harding) che ha poi fatto molta strada. Teatro con evidentissimi
vuoti, anche in platea, vuoti ulteriormente allargatisi nell’intervallo (ahiahi...)
Sappiamo che la musica di cui Mozart
rivestì Idomeneo è di un valore inestimabile, ma soprattutto inversamente
proporzionale a quello del testo che il librettista Giambattista Varesco predispose per lui, mutuandolo da Antoine
Danchet, oltre che dalla mitologia greca. Già la figura del protagonista ha
contorni ambigui assai: sovrano illuminato ed amato dal suo popolo, valorosissimo
combattente, addirittura testa di cuoio
a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una
flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran
bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un
personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.
Però questo
colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un
po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di
Creta, il colosso se la fa letteralmente addosso e per cercare misericordia dal
manovratore-di-maree-e-marette (tale Poseidon
o Nettuno che dir si voglia) cosa gli
promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo
onore un pellegrinaggio a piedi scalzi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di
fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa
molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di
moda). Sì, ma di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di
un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un
parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio,
che spirito di sacrificio, che lodevole abnegazione!
E allora, scusate, che il malcapitato si riveli
proprio essere il suo unico figlio Idamante,
lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso
protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e
minaccevole…) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne
capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) Dopodichè,
una volta in salvo, si mostra ipocritamente pentito – a frittata fatta! - della
sua promessa. E per di più cerca poi con maldestri sotterfugi persino di
disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del
famelico mostro) col che procura una moltitudine di vittime innocenti al suo
stesso popolo (per essere un sovrano illuminato non c’è davvero male...)
Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto
inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale
sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e
comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono ad Idamante e ad
Ilia, che si sono offerti - dandogli una bella lezione in fatto di spirito di
sacrificio - come vittime da offrire a Nettuno.
Per insaporire la trama con un minimo di amori e
gelosie assortite, ecco che su Creta convergono miracolosamente da lontani e
opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano
Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver
compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e
l’amante di costei: trattasi di tale Elettra,
figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la
troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo
ha spedito a Creta in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei
fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che
ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.
Completano il cast
un confidente di Idomeneo, tale Arbace
e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre
ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di
Elettra. In più si ode la Voce (o
meglio il porta-voce) di Nettuno che
reca il perdono e consente così il lieto
fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo
prima).
___
Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio
assai, ma ciò non impedì al Teofilo
di costruirci sopra un autentico capolavoro, quasi rivoluzionario per quei
tempi e per lo stesso percorso estetico del 24enne genio di Salzburg.
Musica che fu composta con tale
sovrabbondanza (e anche con alcuni rifacimenti successivi alla prima di Monaco
di Baviera del 1781, in particolare per Vienna, 1786) da non essere mai eseguibile
integralmente! Ed anche in questa produzione della Scala i tagli abbondano, pur
riguardando prevalentemente dei recitativi,
che però in quest’opera sono quasi sempre accompagnati,
e quindi ricchi di grande musica. Contrariamente a quanto riportato nella prefazione
di Olimpio Cescatti al libretto, non viene
reinserita nel recitativo del N°27 - prima dell’Allegro Ma che più tardi - l’aria di
Idamante (No, la morte io non pavento). Viene in compenso
eseguita nel finale - dopo il fantastico recitativo, in versione integrale - l’aria
(N°29a) di Elettra (D’Oreste, d’Aiace).
Un discorso a parte meritano i balletti, che impreziosiscono
musicalmente l’opera ma che, per ragioni drammaturgiche, vengono quasi sempre
omessi: e lo furono anche nell’edizione del 2005 (Muti li eseguì quasi integralmente nel lontano 1990). Qui la
locandina mette in evidenza la presenza del Corpo di Ballo scaligero, che in
effetti si è presentato subito danzando... l’Ouverture! Dopodichè ha fatto
brevi comparse qua e là, per tornare nel finale dell’opera. Cassato l’Intermezzo fra primo e secondo atto
(concatenati senza soluzione di continuità) è stato invece eseguito un estratto
del balletto finale (che peraltro Mozart stesso non indicò con precisione dove
collocare e fu catalogato con numero K367, diverso dal K366 dell’opera!)
I tagli, che colpiscono in misura
preponderante il lunghissimo atto finale, riducono la durata dello spettacolo a
dimensioni normali (2h40’ netti) e in
questa produzione viene operato un solo intervallo, fra il secondo e il
terz’atto. Un’esecuzione (quasi) integrale (3h20’) e corredata anche di
alcuni... extra si può ascoltare in rete: è quella diretta da Gardiner nel 1990.
Diego Fasolis ha
lasciato temporaneamente il suo amato barocco per cimentarsi in questo Mozart
preromantico, subentrando al venerando
von Dohnányi che
Pereira aveva originariamente ingaggiato
e che aveva preparato con il regista Hartmann
le linee generali dello spettacolo. Fasolis spiega sul programma di sala di
aver parzialmente rivisto quell’impostazione originaria: il risultato dell’operazione
mi è parso piuttosto discutibile, ecco. La sua direzione è stata caratterizzata
da grandi contrasti, fra fracassi eccessivi (vedi la secchezza dei colpi di
timpano) ed altrettanto eccessivi languori. Accettabile la concertazione,
almeno attenta a non coprire le (non potentissime) voci.
Il Coro di Bruno
Casoni, beneficiato da alcuni tagli, ha mantenuto il suo ottimo standard
abituale, negli interventi lirici come in quelli più drammatici (vedi chiusa
del second’atto).
Il protagonista
è Bernard Richter, tornato in Scala dopo le due non entusiasmanti visite del 2018 (Fierrabras
e Giardiniera): la sua è stata una prestazione non più che discreta sul fronte
musicale, piuttosto incolore su quello attoriale.
Da quando i
castrati sono scomparsi (meno male...) dalla faccia della terra (quanto meno
nei nostri paesi cosiddetti civilizzati) e quindi anche dalle scene, il ruolo
di Idamante viene affidato a soprani o - più spesso, per non ammassarne
addirittura tre (dopo Ilia ed Elettra) - a mezzosoprani. Così avviene anche
qui, con la travestita Michèle Losier ad impersonare il figlio del Re. Anche a
lei darò un voto di sufficienza e non di più: il suo Idamante mi ha assai poco
emozionato, ad essere sinceri.
La mite e dimessa Ilia è Julia
Kleiter, che ha ben meritato, mostrando solidità negli acuti, anche se un
filino carente nella cosiddetta ottava
bassa.
Alle mie orecchie (ma anche agli occhi) la migliore in scena è stata l’ex-accademica Federica Lombardi: che ha sostenuto
brillantemente il difficile ruolo di Elettra, donna evidentemente segnata dalle
pregresse vicissitudini famigliari (che pretende di imitare la sorellina
Chrisothemis mettendo su famiglia sì, ma solo con un sovrano, mica
pizza&fichi...) e dal carattere divenuto intrattabile. Voce corposa e
benissimo gestita, nelle due arie arrabbiate
come nei passaggi più lirici. Unanimi consensi per lei alla fine.
Nei panni del
modesto (drammaturgicamente parlando) Arbace è Giorgio Misseri. Mozart però lo
gratifica nientemeno che di due arie e lui se la cava con onore.
Buone cose ha fatto Kresimir
Spicer nel suo
isolato ma importante intervento (da Gran Sacerdote). Così come Emanuele Cordaro (Voce di Nettuno)
esibitosi dal Palco Reale, che ormai è diventato una dépendance del
palcoscenico: a lui è stata riservata la più corposa delle tre versioni del suo
intervento musicate da Mozart. Dignitose/i le le due cretesi (Silvia Spruzzola e Olivia Antoshkina) e i due troiani (Massimiliano Di Fino e Marco
Granata).
Pubblico, come
detto, scarseggiante di numero e anche di entusiasmo: pochi e modesti applausi
a scena aperta e qualche approvazione in più alle uscite finali. Ma certo non
si può parlare di trionfo...
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La regìa di Matthias
Hartmann (coadiuvato dal
drammaturgo - quello che di solito inventa di bel nuovo il soggetto per il
regista - Michael Küster) vorrebbe
programmaticamente mostrare l’involuzione del rapporto fra potere e popolo: un
potere insicuro e ossessionato dalle proprie colpe e un popolo che rischia di andare
allo sbando senza una guida sicura; tutti salvati dall’intervento dell’amore, quello
di Ilia per Idamante. Buone le intenzioni, meno efficace la loro realizzazione.
Comunque va riconosciuto al regista (e al suo drammaturgo) di non aver
inventato nulla di gratuito, insomma di averci propinato onestamente il
soggetto originale. Nulla di trascendentale per ciò che attiene alla gestione di
movimenti e atteggiamenti di personaggi e masse.
La scena (di Volker Hintermeier) è fissa, come contenuti (un’enorme testa di
minotauro e lo scheletro, o il fasciame, di una nave) e però continuamente
girevole, in modo da mettere sempre in primo piano uno dei due componenti. Le luci
di Mathias Märker sono sapientemente
impiegate per creare di volta in volta l’atmosfera che caratterizza le varie scene.
Impressionante, in particolare, quella della tempesta.
I costumi di Malte Lübben sono un
misto di fogge e stili diversi, nessuno precisamente inquadrabile (certo nulla
di cretese mitologico!) ma tutti
mediamente plausibili.
Il Corpo di Ballo della Scala ha
interpretato le coreografie di Reginaldo
Oliveira, improntate a modernismo assai lontano (credo io) da ciò che nel ‘700
(e oltre) si mostrava sulle scene.
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