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23 febbraio, 2020

Il Turco (svizzero) convince Milano


In un Piermarini non proprio stipato (chissà... lo sbifido virus, si son visti spettatori con tanto di mascherina) la prima del Turco in Italia in salsa svizzera (Fasolis) è passata con un franco successo ed ha così rialzato la media della qualità della stagione scaligera, che un Trovatore-così-così aveva un filino abbassato.

Merito della coppia Fasolis-Andò, che ha confezionato uno spettacolo assai godibile e soprattutto ben equilibrato in tutti i reparti: voci, orchestra, coro e messinscena.

A Fasolis mi sento di rimproverare (ma solo nel primo atto) una certa eccessiva sostenutezza di tempi e alcune sbracature bandistiche (copertura di voci inclusa) che sono per fortuna state corrette dopo l’intervallo: la sua è stata comunque una direzione complessivamente apprezzabile, come pure le scelte filologiche del ripristino delle arie di Narciso del primo atto (Un vago sembiante) di Geronio (Atto II, Se ho da dirla) oltre a quella di Fiorilla che segue la cacciata da casa. Condivisibili i numerosi tagli e taglietti ai sempre noiosi (per noi) recitativi secchi.

Andò ha saputo da parte sua trovare il giusto equilibrio fra le componenti buffe e farsesche dell’opera e i risvolti patetici e pure... filosofici del libretto. In particolare è centrata la figura del Poeta, onnipresente in scena ma sempre in balìa degli avvenimenti che si accavallano sotto i suoi occhi. Azzeccata la scelta di far distruggere, nel finale, i fogli del suo lavoro da parte dei protagonisti della vicenda: un modo efficace per mostrare la loro indipendenza dagli stereotipi che il letterato gli ha cucito addosso.
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Bene in generale le voci. Mattia Olivieri è un Prosdocimo autorevole, a dispetto della mancanza, nella sua parte, di vere arie: ma i suoi numerosissimi contributi sono stati esposti con voce solida, senza sbavature, e sempre passante su tutta la tessitura. Stesso discorso per il Selim di Alex Esposito, apprezzatissimo dal pubblico anche per le sue note qualità di attore consumato. Il terzo basso, Giulio Mastrototaro, già buon Sciarrone nella Tosca che ha aperto questa stagione, è stato un po’ la rivelazione della serata, con una maiuscola interpretazione del complesso personaggio di Geronio: che lui ha proposto con proprietà di fraseggio e senza facili e farsesche sbracature da macchietta. Andò lo ha fatto pure cantare in platea (che non è proprio il posto migliore per farsi... sentire) ma lui ha superato brillantemente anche questa difficoltà.

Rosa Feola tornava in Scala dopo l’Elisir dello scorso autunno, ed ha confermato quanto di buono emerso allora: la voce è calda e senza sbavature, gli acuti ben portati; forse le note gravi sono da... rendere più udibili, ma poi anche la sua presenza scenica le ha garantito ampi consensi. La parte di Zaida non è certo proibitiva, ma Laura Verrecchia ce l’ha porta con calore e con quel pizzico di patetismo che ben si addice al personaggio.

I due tenori: Edgardo Rocha (Narciso) si conferma in progresso (lo avevo sentito nel ruolo 5 anni fa a Torino, dove non mi aveva proprio entusiasmato, poi meglio aveva fatto due anni dopo qui in una Gazza ladra): voce sottile, ma che riesce a passare anche in un ambiente come quello del Piermarini. Manuel Amati (Albazar) invece, oltre a voce piccina, fa pure fatica a farla arrivare su in loggione, dove la sua Ah, sarebbe troppo dolce si fatica davvero a udirla come si deve.

Si ode invece benissimo, e fin troppo, il coro di Casoni, che travolge, nei pezzi d’insieme, anche le voci dei protagonisti. Sui suoi livelli l’Orchestra, a parte le citate escandescenze impostele da Fasolis.   
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Roberto Andò - benissimo coadiuvato da Gianni Carluccio per scene-luci e Nanà Cecchi per i costumi - come detto firma una regìa sapiente ed elegante, che il pubblico alla fine ha mostrato di apprezzare assai (che scarto rispetto all’accoglienza riservata al Trovatore di Hermanis!)

La scena è praticamente spoglia, vi trovano posto sporadicamente piccole suppellettili (un divano, un tavolo, sgabelli) tutte rigorosamente dello stesso legno (tinta beige-noisette) del tavolato. Dal quale emergono come dall’aldilà (per poi scomparirvi) attraverso ampie botole i vari personaggi, che altre volte entrano ed escono di scena trascinati da sottili pedane traslanti da sinistra a destra o viceversa. Sul fondo onde di un mare dipinto o una muraglia penetrabile; ai lati e frontalmente scendono e risalgono pannelli raffiguranti interni o esterni di abitazioni; nulla più.

I costumi sono appropriati all’ambientazione dell’opera, tutti assai sgargianti ma raffinati. Le luci ben impiegate, anche a supportare i risvolti psicologici di alcune scene (ad esempio quella del ballo mascherato e del ripudio subito da Fiorilla).

Intelligente e sempre equilibrata la recitazione dei personaggi: niente facili sguaiatezze o cachinni, il tutto sempre mantenuto entro limiti di buongusto, perfettamente appropriati al soggetto agrodolce dell’opera.
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I definitiva, una proposta che si è meritata i lunghi applausi e le ripetute chiamate che il pubblico ha riservato a ciascuno e a tutti. Tre ore ben spese, se non altro per esorcizzare la psicosi della quarantena (!)

Adesso però mi preparo partire per Roma, dove mi aspetta un Onegin dal quale mi... aspetto molto.

17 maggio, 2019

Il ritorno di Idomeneo... alla Scala


Ieri sera al Piermarini è andata in scena la prima di Idomeneo, tornato in Scala dopo quasi 10 anni dall’ultima comparsa (Chung nel 2009) che riprendeva l’edizione del Sant’Ambrogio 2005 dove si rivelò (almeno a noi di queste parti) un tipo (Daniel Harding) che ha poi fatto molta strada. Teatro con evidentissimi vuoti, anche in platea, vuoti ulteriormente allargatisi nell’intervallo (ahiahi...)

Sappiamo che la musica di cui Mozart rivestì Idomeneo è di un valore inestimabile, ma soprattutto inversamente proporzionale a quello del testo che il librettista Giambattista Varesco predispose per lui, mutuandolo da Antoine Danchet, oltre che dalla mitologia greca. Già la figura del protagonista ha contorni ambigui assai: sovrano illuminato ed amato dal suo popolo, valorosissimo combattente, addirittura testa di cuoio a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.

Però questo colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di Creta, il colosso se la fa letteralmente addosso e per cercare misericordia dal manovratore-di-maree-e-marette (tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi scalzi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di moda). Sì, ma di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che spirito di sacrificio, che lodevole abnegazione!  

E allora, scusate, che il malcapitato si riveli proprio essere il suo unico figlio Idamante, lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e minaccevole) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) Dopodichè, una volta in salvo, si mostra ipocritamente pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E per di più cerca poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro) col che procura una moltitudine di vittime innocenti al suo stesso popolo (per essere un sovrano illuminato non c’è davvero male...) Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono ad Idamante e ad Ilia, che si sono offerti - dandogli una bella lezione in fatto di spirito di sacrificio - come vittime da offrire a Nettuno.

Per insaporire la trama con un minimo di amori e gelosie assortite, ecco che su Creta convergono miracolosamente da lontani e opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi di tale Elettra, figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha spedito a Creta in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.

Completano il cast un confidente di Idomeneo, tale Arbace e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di Elettra. In più si ode la Voce (o meglio il porta-voce) di Nettuno che reca il perdono e consente così il lieto fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo prima). 
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Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio assai, ma ciò non impedì al Teofilo di costruirci sopra un autentico capolavoro, quasi rivoluzionario per quei tempi e per lo stesso percorso estetico del 24enne genio di Salzburg.

Musica che fu composta con tale sovrabbondanza (e anche con alcuni rifacimenti successivi alla prima di Monaco di Baviera del 1781, in particolare per Vienna, 1786) da non essere mai eseguibile integralmente! Ed anche in questa produzione della Scala i tagli abbondano, pur riguardando prevalentemente dei recitativi, che però in quest’opera sono quasi sempre accompagnati, e quindi ricchi di grande musica. Contrariamente a quanto riportato nella prefazione di Olimpio Cescatti al libretto, non viene reinserita nel recitativo del N°27 - prima dell’Allegro Ma che più tardi - l’aria di Idamante (No, la morte io non pavento). Viene in compenso eseguita nel finale - dopo il fantastico recitativo, in versione integrale - l’aria (N°29a) di Elettra (D’Oreste, d’Aiace).

Un discorso a parte meritano i balletti, che impreziosiscono musicalmente l’opera ma che, per ragioni drammaturgiche, vengono quasi sempre omessi: e lo furono anche nell’edizione del 2005 (Muti li eseguì quasi integralmente nel lontano 1990). Qui la locandina mette in evidenza la presenza del Corpo di Ballo scaligero, che in effetti si è presentato subito danzando... l’Ouverture! Dopodichè ha fatto brevi comparse qua e là, per tornare nel finale dell’opera. Cassato l’Intermezzo fra primo e secondo atto (concatenati senza soluzione di continuità) è stato invece eseguito un estratto del balletto finale (che peraltro Mozart stesso non indicò con precisione dove collocare e fu catalogato con numero K367, diverso dal K366 dell’opera!)

I tagli, che colpiscono in misura preponderante il lunghissimo atto finale, riducono la durata dello spettacolo a dimensioni normali (2h40’ netti) e in questa produzione viene operato un solo intervallo, fra il secondo e il terz’atto. Un’esecuzione (quasi) integrale (3h20’) e corredata anche di alcuni... extra si può ascoltare in rete: è quella diretta da Gardiner nel 1990

Diego Fasolis ha lasciato temporaneamente il suo amato barocco per cimentarsi in questo Mozart preromantico, subentrando al venerando von Dohnányi che Pereira aveva originariamente ingaggiato e che aveva preparato con il regista Hartmann le linee generali dello spettacolo. Fasolis spiega sul programma di sala di aver parzialmente rivisto quell’impostazione originaria: il risultato dell’operazione mi è parso piuttosto discutibile, ecco. La sua direzione è stata caratterizzata da grandi contrasti, fra fracassi eccessivi (vedi la secchezza dei colpi di timpano) ed altrettanto eccessivi languori. Accettabile la concertazione, almeno attenta a non coprire le (non potentissime) voci.

Il Coro di Bruno Casoni, beneficiato da alcuni tagli, ha mantenuto il suo ottimo standard abituale, negli interventi lirici come in quelli più drammatici (vedi chiusa del second’atto).

Il protagonista è Bernard Richter, tornato in Scala dopo le due non entusiasmanti visite del 2018 (Fierrabras e Giardiniera): la sua è stata una prestazione non più che discreta sul fronte musicale, piuttosto incolore su quello attoriale.

Da quando i castrati sono scomparsi (meno male...) dalla faccia della terra (quanto meno nei nostri paesi cosiddetti civilizzati) e quindi anche dalle scene, il ruolo di Idamante viene affidato a soprani o - più spesso, per non ammassarne addirittura tre (dopo Ilia ed Elettra) - a mezzosoprani. Così avviene anche qui, con la travestita Michèle Losier ad impersonare il figlio del Re. Anche a lei darò un voto di sufficienza e non di più: il suo Idamante mi ha assai poco emozionato, ad essere sinceri.  

La mite e dimessa Ilia è Julia Kleiter, che ha ben meritato, mostrando solidità negli acuti, anche se un filino carente nella cosiddetta ottava bassa.    

Alle mie orecchie (ma anche agli occhi) la migliore in scena è stata l’ex-accademica Federica Lombardi: che ha sostenuto brillantemente il difficile ruolo di Elettra, donna evidentemente segnata dalle pregresse vicissitudini famigliari (che pretende di imitare la sorellina Chrisothemis mettendo su famiglia sì, ma solo con un sovrano, mica pizza&fichi...) e dal carattere divenuto intrattabile. Voce corposa e benissimo gestita, nelle due arie arrabbiate come nei passaggi più lirici. Unanimi consensi per lei alla fine.

Nei panni del modesto (drammaturgicamente parlando) Arbace è Giorgio Misseri. Mozart però lo gratifica nientemeno che di due arie e lui se la cava con onore.

Buone cose ha fatto Kresimir Spicer nel suo isolato ma importante intervento (da Gran Sacerdote). Così come Emanuele Cordaro (Voce di Nettuno) esibitosi dal Palco Reale, che ormai è diventato una dépendance del palcoscenico: a lui è stata riservata la più corposa delle tre versioni del suo intervento musicate da Mozart. Dignitose/i le le due cretesi (Silvia Spruzzola e Olivia Antoshkina) e i due troiani (Massimiliano Di Fino e Marco Granata).

Pubblico, come detto, scarseggiante di numero e anche di entusiasmo: pochi e modesti applausi a scena aperta e qualche approvazione in più alle uscite finali. Ma certo non si può parlare di trionfo...
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La regìa di Matthias Hartmann (coadiuvato dal drammaturgo - quello che di solito inventa di bel nuovo il soggetto per il regista - Michael Küster) vorrebbe programmaticamente mostrare l’involuzione del rapporto fra potere e popolo: un potere insicuro e ossessionato dalle proprie colpe e un popolo che rischia di andare allo sbando senza una guida sicura; tutti salvati dall’intervento dell’amore, quello di Ilia per Idamante. Buone le intenzioni, meno efficace la loro realizzazione. Comunque va riconosciuto al regista (e al suo drammaturgo) di non aver inventato nulla di gratuito, insomma di averci propinato onestamente il soggetto originale. Nulla di trascendentale per ciò che attiene alla gestione di movimenti e atteggiamenti di personaggi e masse.

La scena (di Volker Hintermeier) è fissa, come contenuti (un’enorme testa di minotauro e lo scheletro, o il fasciame, di una nave) e però continuamente girevole, in modo da mettere sempre in primo piano uno dei due componenti. Le luci di Mathias Märker sono sapientemente impiegate per creare di volta in volta l’atmosfera che caratterizza le varie scene. Impressionante, in particolare, quella della tempesta.

I costumi di Malte Lübben sono un misto di fogge e stili diversi, nessuno precisamente inquadrabile (certo nulla di cretese mitologico!) ma tutti mediamente plausibili.

Il Corpo di Ballo della Scala ha interpretato le coreografie di Reginaldo Oliveira, improntate a modernismo assai lontano (credo io) da ciò che nel ‘700 (e oltre) si mostrava sulle scene.

In conclusione, uno spettacolo dignitoso ma non trascendentale: come detto, alla fine il pubblico (rimasto) ha mostrato moderata soddisfazione; personalmente devo dire che speravo in qualcosa di più e meglio... 

17 ottobre, 2018

Mozart acerbo in salsa barocca


Dopo averci proposto un’opera di un compositore ormai andato troppo in là con la maturazione (Cherubini, AlìBabà) ecco che la Scala, per riequilibrare la situazione, ce ne ha offerta una di un compositore ancora assai lontano dalla maturità (Mozart, La finta giardiniera): così la media è ristabilita, ma il risultato è che ci siamo dovuti sorbire due lavori non propriamente entusiasmanti... cose da festival, come infatti succede per questo spettacolo importato da Glyndebourne e approdato ieri sera alla terza delle sette recite in programma, non privo di qualche manipolazione, tipo spostamenti di arie e tagli ai recitativi.

Aspetti decisamente problematici sono la piattezza (appunto) dei recitativi e la prolissità di buona parte dei numeri, criticità che fanno quasi annegare le parti pur mirabilmente ispirate della partitura (dove si prefigura il Mozart che tutti... conosciamo). Mi permetto di aggiungere come l’approccio barocchista di Diego Fasolis (magari filologicamente corretto) forse non sia il più adatto a mettere in risalto le qualità dell’opera. Poi ci si è messa pure la sfiga che ha costretto la protagonista Hanna-Elisabeth Müller a mimare il suo ruolo alla prima di lunedi scorso, mentre la voce (della Martin du Theil) veniva dalle quinte; e poi a disertare la seconda, per cantare finalmente ieri sera.

E direi che non abbia cantato male, così come la travestita Lucia Cirillo e il convincente Mattia Olivieri. Gli altri su discreti standard, con qualche bercio di troppo da parte di Kresimir Spicer.

Frederic Wake-Walker (di cui avevamo apprezzato... con riserve le sue Nozze di un paio d’anni fa) propone una messinscena brillante e spiritosa (ne è testimone il finale davvero azzeccato) ma sa anche ben rendere le atmosfere da tregenda del second’atto.
    
Pubblco abbastanza folto, ma piuttosto parco di entusiasmi, salvo l’accoglienza divertita alla calata del sipario. Qualche minuto, non di più, di applausi per tutti.

16 aprile, 2018

La furia di Orlando in Laguna


Ieri pomeriggio il piccolo ma glorioso Malibran ha ospitato la seconda recita di Orlando furioso di Antonio Vivaldi. Si tratta di un allestimento che fu presentato con gran successo la scorsa estate al Festival di Martina Franca, e di cui è ascoltabile in rete l’audio (pessimo, ahinoi, poichè piratescamente ripreso con mezzi di fortuna) grazie ai peripatetici melomani de L’impiccione viaggiatore.

Ultima delle tre opere dedicate da Vivaldi al soggetto ariostesco, si inserisce in pieno nella tradizione del barocco, sia dal punto di vista della grandiosità dello spettacolo, che da quello della struttura della parte musicale. Questa produzione di basa sull’edizione critica dello specialista Federico Maria Sardelli, che la coppia regista-concertatore (Fabio Ceresa - Diego Fasolis) ha poi liberamente rimaneggiato, attraverso qualche taglio (doloroso per la soppressione di alcune arie; meno critico, ma sempre dannoso per la coerenza del tutto, per quella di robusta parte dei recitativi) accompagnato a diversi arbitrari spostamenti di numeri all’interno della struttura del dramma. Lo spettacolo si riduce (per così dire...) a meno di tre ore lorde (20‘ di intervallo) rispetto alle più di 3 ore nette di un’esecuzione completa (come questa francese). In appendice un elenco dei principali numeri e della relativa ristrutturazione compiuta per questo allestimento: tra spostamenti di arie ed espunzioni (di arie e recitativi) sono il secondo ed il terzo atto ad essere pesantemente manipolati rispetto all’originale.   

La trama dovuta a Grazio Braccioli - da Ariosto, ma estremamente contorta - serviva (ai tempi) più che altro a giustificare le mirabolanti trovate sceniche (ippogrifi, mostri, naufragi, viaggi spaziali...) e le innumerevoli arie che consentivano agli interpreti di mettere in mostra le loro qualità di gorgheggiatori, oltre che di attori. Vi troviamo un quadrilatero e un triangolo sentimentali, rispettivamente rappresentati dai diversamente assortiti legami affettivi che a cascata collegano, da un lato, Bradamante<>Ruggiero<>Alcina<>Astolfo; e dall’altro Medoro<>Angelica<>Orlando.   

L’allestimento è piacevole e intelligente: non si perde alcunchè del classico clima dell’opera barocca, grazie alle scene di Massimo Checchetto, assai efficaci pur nella relativa essenzialità: la luna di Orlando, il mondo incantato e sexy di Alcina, l’ippogrifo di Ruggiero e il naufragio di Medoro... Insomma, un simpatico revival delle atmosfere che nel primo ‘700 caratterizzavano i teatri musicali. Il tutto impreziosito dai coloratissimi e raffinati costumi di Giuseppe Palella e ravvivato dalle luci di Fabio Barettin. Essenziali anche le coreografie di Riccardo Olivier.
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Sul piano musicale, doverose lodi a Diego Fasolis, che ha fatto valere la sua indiscussa esperienza in questo repertorio, accompagnando personalmente ad uno dei due cembali e trascinando strumentisti e coristi della Fenice a confermare a loro volta la dimestichezza con il barocco, raggiunta anche grazie alle esecuzioni monteverdiane di questi ultimi anni.

Le voci si sono dimostrate tutte all’altezza del compito. A partire dall’Alcina di Lucia Cirillo e dall’Angelica di Francesca Aspromonte. Subito dietro collocherei la Bradamante di Loredana Castellano e la protagonista Sonia Prina, che ho personalmemte apprezzato spesso in Auditorium a Milano con laBarocca di Jais, ma che ieri non mi è parsa al meglio (incassando anche un eccessivamente severo buh nel second’atto).  

Apprezzabili il Medoro di Raffaele Pe, il Ruggiero di Carlo Vistoli e autorevole l’Astolfo di Riccardo Novaro.

Pubblico non oceanico e freddino negli applausi a scena aperta dopo le arie (ha fatto eccezione Sol per te, grazie soprattutto all’accompagnamento del magico traversiere, collocato in un palchetto). Anche alla fine applausi calorosi ma... centellinati.

Comunque uno spettacolo sicuramente da consigliare.
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Struttura dell’opera in questa edizione-produzione

I
Ang Un raggio di speme
Alc Alza in quegli occhi
Ast Costanza tu m’insegni
Bra Asconderò il mio sdegno
Orl Sorge l’irato nembo (da atto II) sostituisce Nel profondo, cieco mondo, spostato in atto II
Ang Tu sei degli occhi miei
Orl Troppo è fiero il nume arciero (espunto)
Med Rompo i ceppi (Nel libretto originale: Se tacendo, se soffrendo)
Rug Sol per te mio dolce amore (flauto traverso)
Alc Amorose ai rai del sole

II
Alc Vorresti amor da me?
Ast Benchè nasconda la serpe in seno
Bra Taci, non ti lagnar
Rug Piangerò sinchè l’onda del pianto (assente nel libretto originale)
(Orl Sorge l’irato nembo, spostato in atto I)
Med Qual candido fiore
Ang Chiara al pari di lucida stella (spostata poco avanti)
Orl Nel profondo, cieco mondo (da atto I)
Rug Come l’onda (da atto III) sostituisce Che bel morirti in sen, espunto
Bra Io son ne’ lacci tuoi (da atto III) sostituisce Se cresce un torrente, espunto
Cor Al fragor de’ corni audaci
Cor Gran madre Venere
Cor Diva dell’Espero
Ang-Med Belle pianticelle (espunto)
Ang-Med Sei mia fiamma - Sei mia gioia
Alc Così potessi anch’io (spostato qui da prima del duetto Ang-Med)
Orl Ah sleale, ah spergiura

III
Ast Dove il valor combatte
Alc L’arco vuò frangerti
Alc Che dolce più (espunto)
Ang Poveri affetti miei (espunto)
 (Bra Io son ne’ lacci tuoi, spostato in atto II)
Alc Non è felice un’alma (espunto)
(Rug Come l’onda, spostato in atto II)
Med Vorrebbe amando il cor (espunto)
Orl No no ti dico no
Alc Infelice, ove fuggo
Alc Anderò, chiamerò
Cor Con mirti e fiori (Nel libretto originale: Vien dal cielo in noi l’Amore)

26 settembre, 2017

Il Tamerlan-baffone di Livermore


Ier sera la Scala ha ospitato la quarta delle sette recite di Tamerlano. Per le considerazioni legate alle scelte dei contenuti musicali rimando alla mia breve nota scritta dopo la prima radiofonica del 12 scorso: ribadisco qui le perplessità rispetto ad alcune di tali scelte. Come anche la critica all’orario d’inizio dello spettacolo, che andava tassativamente anticipato, come  minimo, alle 19:30, se non alle 19.

Parlo invece subito dell’allestimento di Davide Livermore. Spettacolo di alto livello, molto ben curato nelle scene e nella recitazione dei protagonisti; si può certo dire che sia – nel suo complesso – uno spettacolo precisamente modellato sul teatro musicale barocco (e londinese in particolare): che privilegiava grandi spiegamenti di mezzi tecnologici a supportare drammi-per-musica aventi come oggetto tipiche vicende umane (il potere, l’amore, l’odio, la vendetta, ...) attribuite a personaggi fantastici o pseudo-storici, vicende come questa versificata da Nicola Haym e musicata da par suo dal grande Georg Friedrich.

Come osserva giustamente il regista nelle note allegate al programmma di sala (titolate L’Antistoria) nessuno all’inizio del ‘700 si sognava nè pretendeva, assistendo all’opera, di approfondire la conoscenza di un pezzo di storia vecchio di (più di 3, nel caso) secoli: quel pubblico (e a maggior ragione noi che arriviamo dopo quasi altri 3 secoli) voleva godersi senza problemi il teatro del dramma umano su cui si basa il libretto. Dove i personaggi storici come Tamerlano&C vengono impiegati dagli autori dell’opera quasi come degli archétipi, prescindendo completamente dalle loro reali vicende vissute, per presentarne di totalmente inventate: sono in sostanza poco più che un pretesto onde costruirci sopra un mirabile spettacolo e della grande musica. E la cosa funziona proprio in quanto la storia autentica di tali personaggi e delle relative relazioni si perde in un passato quasi mitologico, dove realtà e finzione si possono facilmente confondere, o mescolare, o scambiare. Ecco quindi fiorire i Giulio Cesare, gli Orlando, i Rinaldo, come più tardi - in Mozart - troveremo Idomeneo, Silla, Mitridate, Tito e poi - in Rossini - Ciro, Tancredi, Elisabetta, e ancora - in Verdi – Nabucco, Attila, Macbeth, Boccanegra... e giù giù fino alla Lucretia di Britten, tanto per chiudere il ciclo e tornare a Londra.   

Livermore, per questo suo esordio scaligero, sceglie di ri-ambientare l’opera ai tempi della Rivoluzione dell’ottobre 1917 (di cui siamo proprio in piena ricorrenza centenaria) e forse, se si può muovere un appunto alla sua scelta, è di essersi troppo, e pericolosamente, avvicinato all’attualità, calando il soggetto originale su personaggi e vicende a noi ancora troppo vicini e vividi nella memoria per non avvertire l’assurdità di tale accostamento. Poichè, grazie a Livermore, ci troviamo di fronte a Nicola II (che non si suicidò affatto, ma sappiamo bene come venne orrendamente passato per le armi con l’intera famiglia); a sua figlia (ma quale poi delle quattro?); a Stalin, a Lenin e a Rasputin, personaggi dei quali conosciamo a menadito vita-morte-e-miracoli, a partire dai loro volti per finire alle vicende umane e alle loro reciproche relazioni.   

Ecco che, allora, mostrare Stalin che bistratta Lenin e cerca di sottrargli la figlia dello Zar, sua promessa sposa, rischia di farci sorridere, invece che emozionare, così come scoprire che Rasputin è stato resuscitato per essere posto al servizio non già del suo Zar, ma del povero Lenin, del quale si adopera per facilitare le nozze con una rappresentante dell’alta nobiltà (la figlia dello Zar, nientemeno!) 

Insomma, qui con l’antistoria mi pare si sia un filino esagerato. Proviamo ad immaginare come avrebbero reagito i londinesi di metà ‘700 se un regista avesse ambientato l’opera un secolo prima, protagonisti Carlo I e Oliver Cromwell (?!?)   

Strettamente legati all’ambientazione che il regista ha scelto per la sua messinscena sono poi – dichiaratamente – alcuni accorgimenti (registici e scenici) del grande Eisenstein, aedo della Rivoluzione bolscevica. Che funzionano assai bene, allo scopo di dare un po’ di sapore ad un soggetto dove di azione non v’è quasi nulla e dove le classiche arie-col-da-capo sono sempre micidiali da gestire scenicamente.

E devo dire che anche le trovate di Livermore non sempre riescono ad evitare momenti di stagnazione o ripetitività. Che ad esempio si manifestano nel primo atto, con il vagone ferroviario in cui i protagonisti si muovono sempre scendendo da una porta e risalendo dall’altra o viceversa, oppure compaiono e scompaiono al centro della carrozza, la cui fiancata si apre e richiude per scorrimento. Altre volte il regista, per animare la scena, ricorre ad ammiccamenti a-luci-rosse, come all’inizio del second’atto, ma anche per lui è difficile inventarsi qualcosa, sempre nell’atto centrale, per accorciare (nella percezione dello spettatore) l’interminabile recitativo che precede il trio Asteria-Tamerlano-Bajazet, e che d’altra parte è essenziale per preparare lo sviluppo della vicenda.

Ma tutto sommato si tratta di uno spettacolo eccellente, cui il pubblico non oceanico del Piermarini ha riservato un’accoglienza assai calorosa.  

Che è stata riservata anche ai protagonisti della parte musicale, Fasolis in-primis, che come suo solito si è sdoppiato nelle vesti di direttore ed accompagnatore al cembalo (uno dei tre dislocati in buca).

Rispetto all’audizione via etere, confermo le perplessità su Domingo, che al di là della voce fatalmente usurata fatica a proporsi come interprete squisitamente barocco: troppe incrostazioni verdiane ne caratterizzano il canto; come attore nulla da eccepire, e non è escluso che lui abbia scelto questo ruolo (di tenore... non spinto) perchè si avvicina, per molti aspetti, a quelli di baritoni che lui ha impersonato di recente, come Simone e Rigoletto, che comportano scene finali di alta drammaticità che lui sa gestire come pochi.

I due controtenori (Mehta e Fagioli) hanno sciorinato tecnica sopraffina e, a differenza del Topone, alta specializzazione (per così dire) in questo genere di opera. Peccato che le loro vocine fatichino assai a percorrere le decine di metri che separano palco da loggione... La vecchia, cara e mai abbastanza rimpianta Piccola Scala sarebbe stato l’ambiente ideale per valorizzare le loro qualità.

Discrete le prestazioni delle due nobildonne, alle quali scambierei gli elogi fatti dopo l’ascolto radio: brave entrambe, ma un filino sopra (per me) la Crebassa rispetto alla Schiavo. Non più che dignitoso (anche qui gli abbasso il voto) l’apporto di Senn, che ho trovato un po’ troppo vociferante (forse anche lui preoccupato dai grandi spazi da... perforare) e non sempre perfettamente intonato.

Ma il pubblico non ha mancato di applaudire tutti, Domingo in testa.

13 settembre, 2017

Alla Scala un Tamerlano à-la-carte


Ieri sera Radio3 ha trasmesso la prima delle sette recite di Tamerlano nella nuova produzione scaligera, targata Fasolis-Livermore, appositamente approntata per il battesimo dell’opera al Piermarini, avvenuto a soli 293 (!) anni dall’esordio londinese.

È una nuova tappa del percorso barocco (o... baroccaro?) del Teatro, che ha in Diego Fasolis il suo mentore per quanto attiene la parte musicale: approccio HIP (no, non è l’incipit dell’esclamazione di giubilo...) che significa – oltre a rispolverare strumenti d’epoca - anche fare un po’ i c... propri quanto a contenuti da proporre al pubblico, in ciò seguendo le mode dei tempi andati, dove ad ogni ripresa dell’opera si operavano (da parte dell’Autore, però) rimaneggiamenti, tagli, aggiunte e varianti giustificate dai più svariati motivi, in specie le qualità (o i limiti) ma anche le fisime dei cantanti coinvolti nella recita.

E a proposito di cantanti, qui c’è il vecchio Topone che non sa più cosa inventarsi per sbarcare il lunario: così, dopo il downsizing da tenore a baritono (rigoletti, simoni &C) adesso torna a fare il tenore, però... mezzo tono sotto (i 415Hz del diapason barocco...) In più, dato che il fiato è... corto, ecco che si fa aiutare dal Direttore con qualche sapiente trucco: nel primo atto, aria Ciel e terra armi di sdegno, la ripresa della prima strofa dovrebbe avvenire immediatamente al termine della seconda... invece Fasolis fa un da-capo anche delle 8 battute strumentali, così il nostro ha il tempo di respirare. Nel second’atto, aria A’ suoi piedi padre esangue, vengono omesse brevi ripetizioni di versi, ma il colmo (scandaloso, invero) si raggiunge nel terz’atto, laddove l’aria Empio, per farti guerra si riduce ad un moncherino, un’arietta, causa taglio totale della seconda strofa (E l’ira delli Dei) e della conseguente ripresa della prima!

Ma anche il controtenore protagonista - Bejun Mehta – ha le sue fisime, così nel second’atto rifiuta di cantare Bella gara e la rimpiazza infilando nel Tamerlano un’aria da Amadigi (Sento la gioia) con tanto di trombette.

Per il basso Christian Senn si rispolvera nell’atto terzo (e non è per niente un male, in sè) il recitativo e aria (Nel mondo e nell’abisso) di Leone composti da Händel appositamente per Antonio Montagnana per le riprese del 1731; però si cassa proditoriamente, oltre al recitativo antistante, anche l’aria di Andronico Se non mi rendi il mio tesoro.

Il libretto del Teatro reca un’inversione di numeri (70b e 70c) ma in realtà il 70c viene omesso e si passa direttamente al duetto Coronata di gigli, che però viene mutilato della seconda strofa (E fra mille facelle) e della ripresa della prima.

Può essere che alcuni interventi siano motivati dall’esigenza di... stringere i tempi, il che però non ha scongiurato che lo spettacolo terminasse fuori tempo massimo rispetto all’ultima corsa della linea1 del metro’ (stazione Duomo, ore 00:31): meglio sarebbe anticipare l’inizio alle 19. Fra l’altro (e non è un caso isolato) l’inaccuratezza delle informazioni comunicate al pubblico sul sito del Teatro è davvero deplorevole: fino all’inizio della prima la durata totale era indicata in 4 ore lorde; poi si è in corsa modificata l’indicazione (tuttora presente) in 4 ore e 15 minuti, ma la realtà vi ha aggiunto altri 15 minuti!
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Beh, che dire dei suoni arrivati via etere? Domingo davvero non si... spiega, forse ha fatto bene ciò che per radio non si può giudicare (l’attore) ecco. Bejun Mehta e Franco Fagioli (controtenore e contralto, invenzioni discutibili delle pratiche HIP) non mi sono dispiaciuti, ma voglio proprio sentire se e come le loro vocine passano negli immensi spazi del Piermarini. Bene Christiann Senn e Maria Grazia Schiavo, benino Marianne Crebassa.

Fasolis è indubbiamente un esperto in materia e l’orchestra barocca della Scala sta facendosi con lui le ossa: il fatto che la spalla De Angelis ne faccia parte è un segno di serietà di approccio.
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Sull’allestimento si sa che Livermore ha ambientato il tutto nella Russia del 1917, un  modo come un altro per celebrare il centenario della rivoluzione bolscevica: staremo a vedere quanto valore aggiunto l’idea porti allo spettacolo.

A chi andrà ad una delle prossime recite consiglio (se non lo ha già fatto) di prepararsi a dovere ascoltando (da youtube) la pregevole edizione firmata da Riccardo Minasi (della quale si può anche scaricare il booklet).

31 gennaio, 2016

Il sommo Händel trionfa alla Scala

 

Ieri sera la Scala ha ospitato la seconda recita de Il trionfo del tempo e del disinganno, l’oratorio di Händel rappresentato in forma scenica da Jürgen Flimm. Teatro abbastanza gremito e pochissimi (ad occhio) abbandoni nell’intervallo, segno che lo spettacolo ha tenuto alta l’attenzione fino all’ultimo.

Ovviamente il merito maggiore va alla musica dell’imparruccato sassone e a chi l’ha mirabilmente diretta, suonata e cantata. Ma devo dire che anche l’allestimento ha dato il suo bel contributo al successo dello spettacolo.

Diego Fasolis è uno dei maggiori interpreti (ma anche promotori) del barocco e lo conferma, guidando (e cooperandoci lui stesso ad uno dei tre clavicembali) una compagine di professori scaligeri che hanno accolto con favore l’idea di cimentarsi con questo repertorio, impiegando strumenti d’epoca (quasi...) e con accordatura a 415. Pur nell’immenso spazio del Piermarini, l’ensemble che è di soli 28 esecutori, di cui 20 dell’orchestra di casa (tutti archi meno una tastiera) rinforzati da 8 barocchisti della Radio Svizzera Italiana (fra cui Gianluca Capuano, ben noto ai seguaci de laVERDI BAROCCA, protagonista all’organo) ha saputo farci sentire ed apprezzare ogni minima sfumatura del suono che esce da quel gioiello che è la partitura di Händel. Un suono (corde di budello e poco vibrato) mai stridulo o vetroso, al contrario sempre leggero ed etereo, come si conviene a rendere al meglio simili capolavori.

Lodevoli tutte le quattro voci, a partire dal Disinganno di Sara Mingardo, davvero impeccabile nel sostenere la parte – come dire – più filosofica dell’Oratorio: portamento severo e autorevolezza assoluta. 
 
Martina Janková è una protagonista ideale, per sensibilità, accenti e capacità di rendere la lenta ma progressiva maturazione del personaggio: dall’edonismo fine a se stesso alla contemplazione di un piacere che non è di questa terra...  

Piacere che è impersonato da una solida Lucia Cirillo, sempre brava nelle ammiccanti adulazioni alla Bellezza come nelle fiere contestazioni ai due pipistrelli che la vogliono... convertire. Si può opinare la scelta di affidare la parte ad un mezzo invece che a un soprano, ma i risultati hanno giustificato in pieno tale scelta, che si è accompagnata anche ad un accredito di un’aria (Un pensiero nemico di pace) che spetterebbe alla sua sodale.

Oltre che dal Disinganno-Mingardo, le severe forze della ragione-religione sono rappresentate da Leonardo Cortellazzi che veste efficacemente i panni del Tempo.

In poche parole, un’esecuzione di prim’ordine che fa onore al Teatro e che il pubblico ha mostrato di apprezzare riservando calorosi applausi a tutti i protagonisti. L’avventura della creazione di un ensemble barocco alla Scala mi pare iniziata sotto i migliori auspici.
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Ispirandosi probabilmente al platonico Simposio, dove un gruppo di amiconi, dopo abbondanti mangiate e libagioni, si imbarca in alate discussioni filosofiche (sull’amore) ecco che Jürgen Flimm e lo scenografo Erich Wonder hanno pensato bene di ambientare l’incontro dei quattro personaggi-concetto dell’austero Oratorio del Cardinal Pamphilj in un moderno ristorante (che richiama programmaticamente, ma solo nell’idea, la famosa Cupole parigina anni ’30) con annessa passerella per esibizioni di un particolare tipo di... Bellezza, impegnata in attività di Disinganno del Tempo per il Piacere dei convenuti (!) Certo, il porporato avrebbe forse qualcosina da obiettare, ma se lo facesse si prenderebbe come minimo dell’ipocrita! Quindi: va bene così, ecco.

Mettere in scena un Oratorio che ha come unico sviluppo narrativo la conversione di un... approccio esistenziale dal terreno al contemplativo non dev’essere semplice nè facile, ma Flimm e compagnia hanno trovato un plausibile equilibrio limitando per quanto possibile eccessi che avrebbero avuto l’unico risultato di distrarre l’ascoltatore dalla meravigliosa musica che sgorgava da buca e palco.

Un simpatico riferimento a quanto narrano le cronache della prima (1707) è stata la comparsa sulla scena di... Händel in persona a strimpellare sull’organo (i cui suoni però eseguiva Capuano in buca) la Sonata che precede l’aria Un leggiadro giovinetto, accompagnato però da un violinista, abbigliato alla ‘700, staccatosi all’uopo dall’ensemble.

Alcune trovate (lo smembramento di una bambola come biglietto da visita del Tempo, l’esplosione di un avventore ubriaco, le ragazze che sfilano sulla passerella, alcuni andirivieni di bizzarri avventori, che sicuramente nasconderanno qualche simbologia nota solo al regista...) possono sembrare gratuite, ma per fortuna non guastano più di tanto. La metamorfosi finale della Bellezza, che sveste i panni mondani per indossare il classico abito da monaca e si toglie la vistosa parrucca bionda per restare con i capelli rasati da penitente è forse eccessivamente didascalica e troppo... curiale, ecco: ad evocare assai bene la presa di coscienza della caducità di ciò che è puro edonismo terreno bastava il progressivo impoverimento (e oscuramento) della scena, che ha caratterizzato la parte finale dell’Oratorio.

Ma insomma, uno spettacolo godibilissimo, dove le tre ore filano via quasi senza che uno se ne accorga.