ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

23 febbraio, 2020

Il Turco (svizzero) convince Milano


In un Piermarini non proprio stipato (chissà... lo sbifido virus, si son visti spettatori con tanto di mascherina) la prima del Turco in Italia in salsa svizzera (Fasolis) è passata con un franco successo ed ha così rialzato la media della qualità della stagione scaligera, che un Trovatore-così-così aveva un filino abbassato.

Merito della coppia Fasolis-Andò, che ha confezionato uno spettacolo assai godibile e soprattutto ben equilibrato in tutti i reparti: voci, orchestra, coro e messinscena.

A Fasolis mi sento di rimproverare (ma solo nel primo atto) una certa eccessiva sostenutezza di tempi e alcune sbracature bandistiche (copertura di voci inclusa) che sono per fortuna state corrette dopo l’intervallo: la sua è stata comunque una direzione complessivamente apprezzabile, come pure le scelte filologiche del ripristino delle arie di Narciso del primo atto (Un vago sembiante) di Geronio (Atto II, Se ho da dirla) oltre a quella di Fiorilla che segue la cacciata da casa. Condivisibili i numerosi tagli e taglietti ai sempre noiosi (per noi) recitativi secchi.

Andò ha saputo da parte sua trovare il giusto equilibrio fra le componenti buffe e farsesche dell’opera e i risvolti patetici e pure... filosofici del libretto. In particolare è centrata la figura del Poeta, onnipresente in scena ma sempre in balìa degli avvenimenti che si accavallano sotto i suoi occhi. Azzeccata la scelta di far distruggere, nel finale, i fogli del suo lavoro da parte dei protagonisti della vicenda: un modo efficace per mostrare la loro indipendenza dagli stereotipi che il letterato gli ha cucito addosso.
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Bene in generale le voci. Mattia Olivieri è un Prosdocimo autorevole, a dispetto della mancanza, nella sua parte, di vere arie: ma i suoi numerosissimi contributi sono stati esposti con voce solida, senza sbavature, e sempre passante su tutta la tessitura. Stesso discorso per il Selim di Alex Esposito, apprezzatissimo dal pubblico anche per le sue note qualità di attore consumato. Il terzo basso, Giulio Mastrototaro, già buon Sciarrone nella Tosca che ha aperto questa stagione, è stato un po’ la rivelazione della serata, con una maiuscola interpretazione del complesso personaggio di Geronio: che lui ha proposto con proprietà di fraseggio e senza facili e farsesche sbracature da macchietta. Andò lo ha fatto pure cantare in platea (che non è proprio il posto migliore per farsi... sentire) ma lui ha superato brillantemente anche questa difficoltà.

Rosa Feola tornava in Scala dopo l’Elisir dello scorso autunno, ed ha confermato quanto di buono emerso allora: la voce è calda e senza sbavature, gli acuti ben portati; forse le note gravi sono da... rendere più udibili, ma poi anche la sua presenza scenica le ha garantito ampi consensi. La parte di Zaida non è certo proibitiva, ma Laura Verrecchia ce l’ha porta con calore e con quel pizzico di patetismo che ben si addice al personaggio.

I due tenori: Edgardo Rocha (Narciso) si conferma in progresso (lo avevo sentito nel ruolo 5 anni fa a Torino, dove non mi aveva proprio entusiasmato, poi meglio aveva fatto due anni dopo qui in una Gazza ladra): voce sottile, ma che riesce a passare anche in un ambiente come quello del Piermarini. Manuel Amati (Albazar) invece, oltre a voce piccina, fa pure fatica a farla arrivare su in loggione, dove la sua Ah, sarebbe troppo dolce si fatica davvero a udirla come si deve.

Si ode invece benissimo, e fin troppo, il coro di Casoni, che travolge, nei pezzi d’insieme, anche le voci dei protagonisti. Sui suoi livelli l’Orchestra, a parte le citate escandescenze impostele da Fasolis.   
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Roberto Andò - benissimo coadiuvato da Gianni Carluccio per scene-luci e Nanà Cecchi per i costumi - come detto firma una regìa sapiente ed elegante, che il pubblico alla fine ha mostrato di apprezzare assai (che scarto rispetto all’accoglienza riservata al Trovatore di Hermanis!)

La scena è praticamente spoglia, vi trovano posto sporadicamente piccole suppellettili (un divano, un tavolo, sgabelli) tutte rigorosamente dello stesso legno (tinta beige-noisette) del tavolato. Dal quale emergono come dall’aldilà (per poi scomparirvi) attraverso ampie botole i vari personaggi, che altre volte entrano ed escono di scena trascinati da sottili pedane traslanti da sinistra a destra o viceversa. Sul fondo onde di un mare dipinto o una muraglia penetrabile; ai lati e frontalmente scendono e risalgono pannelli raffiguranti interni o esterni di abitazioni; nulla più.

I costumi sono appropriati all’ambientazione dell’opera, tutti assai sgargianti ma raffinati. Le luci ben impiegate, anche a supportare i risvolti psicologici di alcune scene (ad esempio quella del ballo mascherato e del ripudio subito da Fiorilla).

Intelligente e sempre equilibrata la recitazione dei personaggi: niente facili sguaiatezze o cachinni, il tutto sempre mantenuto entro limiti di buongusto, perfettamente appropriati al soggetto agrodolce dell’opera.
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I definitiva, una proposta che si è meritata i lunghi applausi e le ripetute chiamate che il pubblico ha riservato a ciascuno e a tutti. Tre ore ben spese, se non altro per esorcizzare la psicosi della quarantena (!)

Adesso però mi preparo partire per Roma, dove mi aspetta un Onegin dal quale mi... aspetto molto.

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