Ovviamente da leggersi
lèttone! Ieri il Trovatore museale
ha avuto il suo battesimo in un Piermarini abbastanza affollato e pure...
cattivello. Che fa rima con... Trovatello
(!?!) Ma andiamo con ordine, cominciando con la compagnia di canto.
Il protagonista Francesco Meli è stato il vincitore (non
trionfatore, chè nessuno ha trionfato) della serata. Lui ormai garantisce un
livello sempre assai alto di prestazione, grazie alla sua professionalità e
alla sua preparazione. Date le sue caratteristiche... somatiche (parlo della voce,
ovviamente) oserei quasi dire un’apparente bestemmia, cioè che lui sia forse il
più verdiano dei Manrichi, nel senso
che non si adegua (non ne avrebbe le risorse naturali) ai tenori di tradizione,
quelli di approccio eroico e dal do-di-petto facile, che non è detto fossero
proprio l’ideale del compositore. Però, per coerenza, consiglierei a Meli di ignorare
quanto quei tenori di tradizione hanno inventato, ad esempio eseguendo la Pira senza gli acuti apocrifi (tanto più
se sono SI e non DO). Prova ne sia che il suo Ah sì, ben mio è
stato accolto con grandissimo calore, mentre il successivo All’armi
ha suscitato non poche perplessità.
Liudmyla Monastyrska ha dignitosamente
impersonato Leonora, mostrando in particolare grandi doti di portamento e di
nobiltà nel canto a fior di labbra (apprezzatissimo il suo D’amor sull’ali rosee) mentre gli acuti
a piena voce mostrano purtroppo qualche stimbratura e i centri non sono
propriamente al meglio. Tuttavia il pubblico, cui mi associo in pieno, l’ha
gratificata di un buon successo.
Il terzo vertice del triangolo (Massimo Cavalletti come Luna) è il
vertice di un triangolo con la base in alto (!) Cioè l’unico (fra gli addetti
ai suoni) a ricevere robusti buh
all’uscita finale. E in effetti lui troppo spesso più che cantare vocifera, e
ciò non si può giustificare col fatto che il personaggio da interpretare sia il
cattivo di turno, chè anzi il cattivo - nell’opera lirica - è tanto più
apprezzato quanto meglio canta (vedi Iago, Alberich, Mefistofele e compagnia).
Fuori dal triangolo (amanti vs rompipalle)
c’è il personaggio più robusto, anche musicalmente, dell’opera: la sbifida
Azucena. Violeta Urmana la canta da
una vita e anche solo per questo fa sempre un figurone. Certo, oggi anche per
lei gli anni (quasi 60) cominciano a pesare, ma insomma... avercene.
Chi mi ha fatto ottima impressione è Gianluca Buratto, un Ferrando autorevole
e sicuro (non fosse altro che per la responsabilità che si ritrova a dover
rompere il ghiaccio). Ampia sufficienza per gli accademici Caterina Piva (Ines), Taras Pryziashniuk (Ruiz) e Giorgi
Lomiseli (Zingaro) e per l’ex-accademico Hun Kim (messaggero).
Mario
Casoni
ha come sempre garantito una prestazione di buon livello del coro, che peraltro
in un paio di frangenti mi è parso in... asincronia con Luisotti, chissà per colpa di chi.
Ed ecco appunto il Direttore. Ho colto alcuni chiari mugugni dal loggione, dopo il
primo atto, che non erano immeritati, ma allora perchè poi perdonarlo alla
fine? Visto che (mi pare) nei tre atti successivi non ha fatto ne’ peggio nè
meglio. La sua è una direzione che definirei approssimativa, con qualche eccesso
di fracasso gratuito, più di una gigionata sui tempi e con più di uno
scollamento con il palcoscenico, anche se non arriverei a parlare di disastro. L’Orchestra ha evidentemente seguito (ed
eseguito...) l’approssimazione del Kapellmeister.
Di solito sono cose che succedono se si ha provato poco, chissà se nelle
prossime recite le cose andranno meglio.
___
Disfatta clamorosa invece per il team di
Alvis Hermanis, letteralmente
subissato di improperi all’uscita finale. Devo dire che non mi sono associato
agli improperanti, per un paio di
ragioni.
La prima è che al legista lettone va dato
atto di non aver inventato le solite stupidaggini, tipo ambientare la vicenda
fra cosche mafiose o bande di ragazzacci del Bronx, nè di proporre strindberghiane crisi della società
borghese: la sua trovata di far raccontare la storia ad addetti di un museo in
cui ambientarla sarà certo della serie famola
strana, ma appunto fa pochi danni.
Fa colpo l’impiego, in scene e costumi,
di 100 varietà di rosso, che forse
vogliono tradurre cromaticamente il concetto che il Trovatore è un’opera di morti. Quanto ai dipinti della
pinacoteca, mi è parso di cogliere che ad Aliaferia e al chiostro siano a
soggetto religioso, mentre a Castellor sono a soggetto laico: non so se per il
regista sia questo un modo per distinguere le due forme di società che si
contrappongono nell’opera. Alla fine i quadri di Castellor vengono accatastati
per esser dati alle fiamme (altra vampa)
ad Aliaferia, ma poi anche quelli di Aliaferia spariscono (sempre per via di...
tutti morti?)
La seconda ragione di non-dissenso è la
recitazione dei personaggi e la gestione dei movimenti delle masse: sui quali
aspetti della regìa non solo non mi sentirei proprio di infierire, ma al
contrario spenderei qualche meritato apprezzamento.
Il definitiva, una proposta accettabile della
quale casomai mi vien da sospettare l’efficacia del cosiddetto price/performance, che temo (visto che paga pantalone) sia purtroppo
esorbitante.
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