ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

24 febbraio, 2020

Roma ospita un Onegin di alto livello


Ieri pomeriggio il Costanzi - abbastanza, ma non troppo affollato - ha ospitato la terza recita dell’Onegin, una produzione di Carsen del lontano 1997 per il MET, poi già ripresa da altri teatri e qui portata da Peter McClintock. Sul podio il torinese (pro-tempore) James Conlon. Radio3 aveva trasmesso la prima del 18, che mi aveva fatto un gran bella impressione, pienamente confermata dall’ascolto dal vivo.

Come le altre, anche questa recita è edicata al ricordo della grande Mirella Freni, ultima interprete romana di Tatiana nel 2001.

L’allestimento di Carsen compie 23 anni, ma non li dimostra, come accade per ogni opera di valore. L’idea portante del regista è di mettere al centro della vicenda Onegin, che non per nulla appare sempre per primo in scena in apertura dei tre atti: durante il Preludio lo si immagina ricordare ciò che... accadrà, leggendo una lettera; all’inizio del second’atto facendo un sopralluogo nella sala dove si svolgerà la festa che lo porterà ad offendere Lensky e a dare inizio alla tragedia; infine all’inizio del terzo atto, quando verrà abbigliato a dovere per la festa-funerale che preparerà la sua fine ingloriosa.

L’ambientazione rispetta il libretto, nella Russia ottocentesca, come testimoniano i costumi di Michael Levine, il quale cura anche le scene: ambiente praticamente vuoto, di volta in volta popolato da poche suppellettili, piccoli tavoli da lavori domestici, sedie e tavolini da soggiorno. All’inizio il pavimento è ricoperto da (finte) foglie dai tipici colori autunnali (giallo, marrone, rossiccio, verde scuro) per restare via via completamente spoglio. Le luci di Jean Kalman supportano l’idea del regista di illuminare le tre pareti nude con colori diversi e cangianti, a seconda del carattere dei diversi quadri: il giallo della natura e della vita serena per i quadri iniziali dei primi due atti, in casa Larina; il blu-notte nel secondo quadro del primo atto (la lettera di Tatiana) e nel corrispondente del secondo (il duello all’alba, con il sole che sorge poi a inquadrare la silhouette di Onegin piegato sul defunto Lensky); grigio nel terzo quadro del primo atto (la disillusione di Tatiana); bianco nel primo quadro del terz’atto (a far da sfondo ad un nero... funerale) e ghiaccio nel quadro finale (il distacco definitivo).

Una scelta che ai tempi fece discutere è quella di collegare direttamente la fine dell’atto secondo (morte di Lensky) con l’inizio del terzo (festa a palazzo Gremin) che il libretto colloca invece a distanza di anni. (L’idea fu poi scopiazzata - in molto peggio, per la verità - da Kasper Olten, in una produzione passata anche a Torino anni fa.) Ma anche questa si spiega con la concezione di Carsen di porre Onegin al centro dell’opera e quindi vedere la realtà con gli occhi di lui, che dopo l’omicidio dell’amico vede tutto nero e così la festa per lui diventa proprio un funerale, anzi il funerale di Lensky, portato via sulle spalle degli inservienti del Principe, in mezzo agli invitati (maschi e femmine) tutti vestiti di nero, come becchini o pipistrelli. Proprio mentre in orchestra esplode la musica della polacca brillante, qui assurta a grottesca marcia funebre! Insomma, Carsen trasferisce il lancinante contrasto: da quello presentato nel libretto, fra la festa spensierata e il cuore desertificato di Onegin; a quello fra cerimonia funebre e musica brillante che l’accompagna.

A proposito della musica della polonaise, ho sempre considerato l’iniziale esposizione del tema principale come un modo escogitato dal compositore per caratterizzare un ambiente da nobiltà parassitaria: insomma un po’ da... sboroni, ecco. Dopo la fanfara introduttiva e l’approccio degli archi, il motivo principale è di 8 battute e viene esposto due volte, prima che subentri un controsoggetto di 10 battute, cui segue la ripresa del tema principale e la coda conclusiva. Orbene, ci si aspetterebbe che le due esposizioni del tema siano sostanzialmente identiche e quindi sfocino entrambe sulla dominante RE. Invece la prima delle due sfocia inaspettatamente un tono sopra (MI, e in minore, tonalità relativa del SOL) con un effetto francamente poco gradevole, che sembra appunto tipico di chi voglia strafare, mettersi in mostra a tutti i costi, insomma fare una vuota ostentazione di ricchezza... (Ben diversa è invece la condotta del walzer che apre il second’atto, in un ambiente genuinamente e simpaticamente campagnolo e provinciale.)
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James Conlon mostra non solo di conoscere a fondo, ma anche di adorare letteralmente questa partitura, tanta e tale è la cura che mette nel dirigere, quasi prendendo per mano i singoli strumentisti e le voci sul palco. Mai un effetto gratuito, nessuna indebita libertà nella scelta dei tempi, dinamiche mai esasperate, nel pieno rispetto dell’ambientazione sonora che l’Autore volle dare a queste sue scene liriche.

Voci tutte all’altezza, con punte di eccellenza per Markus Werba, un Onegin quasi perfetto, dalla vocalità (per me) appropriata ad un cattivo che però è anche giovane. Benissimo Saimir Pirgu (accolta trionfalmente la sua celebre aria prima del duello). Ottimo anche John Relyea (Gremin) la cui parte è quantitativamente ridotta, ma è fondamentale (forse il parallelo con un Filippo o un Marke è eccessivo, ma insomma...)

Le due sorelle mostrano una grande padronanza e consuetudine con le parti, soprattutto Maria Bayankina è una Tatiana davvero eccellente, capace di immedesimarsi mirabilmente nella ragazza romantica e insieme temeraria (la sua lettera è stata un capolavoro di espressività delle sue passioni) e poi nella rigorosa signora che rispetta fermamente i sacri doveri che la società le impone. Yulia Matochkina le ha fatto da sorellina spensierata e in po’ frivola con buon portamento e bella voce di mezzo.

Discrete le due voci femminili di contorno (Irina Dragoti e Anna Viktorova) cui rimprovero magari un po’ di carenza di... decibel. Efficace e simpatico il Triquet di Andrea Giovannini e oneste le prestazioni degli altri due comprimari, Andrii Ganchuk e Arturo Espinosa.

Benissimo anche il coro di Roberto Gabbiani, che nel second’atto ha pure... ballato. E a proposito di danza, completano il quadro i cinque membri del Corpo di ballo del Teatro, guidati dal coreografo Serge Bennathan.
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Al termine almeno 10 minuti di applausi equamente distribuiti tra tutti i protagonisti di questo spettacolo che merita proprio di esser visto e goduto (RAI5 lo metterà in onda prossimamente). 

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