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16 ottobre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°4

Il Direttore Generale ed Artistico de laVerdi, nonchè fondatore dell’ensemble laBarocca, Ruben Jais, sale sul podio questa settimana guidando una compagine che comprende elementi di entrambe le formazioni orchestrali (solo archi, più un clavicembalo) per offrirci un concerto che affianca Vivaldi a Piazzolla, avente per oggetto le stagioni. Si tratta di un concerto originariamente previsto per lo scorso giugno e andato in fumo, insieme al resto della stagione 19-20, causa virus.

Il programma riproduce - con qualche geniale variante - quello presentato qui nell’ormai lontano 2013 con Bignamini sul podio.

Sul palco entrano quindi 36 strumentisti, così dislocati: nella parte sinistra (rispetto a pubblico e Direttore) 19 elementi (4+4+4+4+3) de laVerdi, solista Luca Santaniello e spalla Lycia Viganò (che normalmente è prima parte dei violini secondi) che suonano Piazzolla; nella parte destra 14 elementi (4+4+3+2+1) de laBarocca, solista Gianfranco Ricci (collega della Viganò nell’Orchestra principale) e spalla Diego Castelli, che suonano Vivaldi; al centro il clavicembalo (che suona con i barocchisti, ma mette lo zampino - chiusa della Primavera - anche con i moderni). La differenza fra moderni e barocchisti si evidenzia già al momento dell’accordatura dei rispettivi ensemble: LA a 442 per i primi, LA a 415 (un semitono sotto) per i secondi...

La sequenza esecutiva vede per tre-quarti (Primavera-Estate-Autunno) l’alternarsi regolare delle due compagini: prima i barocchisti e poi i moderni. Al termine di ciascun brano il pubblico può liberamente applaudire. Qui però Jais cambia l’ordine e fa eseguire l’Invierno Porteño ancora ai moderni, e poi inventa una mirabile transizione diretta all’Inverno vivaldiano, facendo trascolorare la chiusa sognante (e... vivaldiana) di Piazzolla nell’attacco rabbrividente (Agghiacciato tremar trà nevi algenti) del Prete rosso, che poi chiude il concerto con il consolante Quest'è 'l verno, mà tal, che gioja apporte.

Una proposta invero eccellente, e impreziosita dalla splendida prestazione di tutti, che il pubblico ha accolto con grandissimo calore. Dopo ripetute chiamate, Jais esce di scena e vi restano i due complessi che ci regalano, presentato da Santaniello, un bis con i fiocchi: il celebre Libertango di Piazzolla suonato insieme da tutti quanti (con Tobia Scarpolini che ha abbandonato il suo cello per fare da... percussionista e dare il ritmo)! Il che non è precisamente cosa di tutti i giorni, nè da tutti, dato che i due ensemble hanno accordature diverse. Così, per suonare il pezzo - che è in LA minore - in perfetta consonanza, i barocchisti han dovuto evidentemente trasportare la (loro) tonalità in SIb minore (5 bemolli in chiave!)

Successo strepitoso e applausi ritmati, a dare un po’ di luce e di ottimismo a questa serata piovigginosa, dopo una giornata funestata ahinoi da nuovi record covidiani.


16 aprile, 2018

La furia di Orlando in Laguna


Ieri pomeriggio il piccolo ma glorioso Malibran ha ospitato la seconda recita di Orlando furioso di Antonio Vivaldi. Si tratta di un allestimento che fu presentato con gran successo la scorsa estate al Festival di Martina Franca, e di cui è ascoltabile in rete l’audio (pessimo, ahinoi, poichè piratescamente ripreso con mezzi di fortuna) grazie ai peripatetici melomani de L’impiccione viaggiatore.

Ultima delle tre opere dedicate da Vivaldi al soggetto ariostesco, si inserisce in pieno nella tradizione del barocco, sia dal punto di vista della grandiosità dello spettacolo, che da quello della struttura della parte musicale. Questa produzione di basa sull’edizione critica dello specialista Federico Maria Sardelli, che la coppia regista-concertatore (Fabio Ceresa - Diego Fasolis) ha poi liberamente rimaneggiato, attraverso qualche taglio (doloroso per la soppressione di alcune arie; meno critico, ma sempre dannoso per la coerenza del tutto, per quella di robusta parte dei recitativi) accompagnato a diversi arbitrari spostamenti di numeri all’interno della struttura del dramma. Lo spettacolo si riduce (per così dire...) a meno di tre ore lorde (20‘ di intervallo) rispetto alle più di 3 ore nette di un’esecuzione completa (come questa francese). In appendice un elenco dei principali numeri e della relativa ristrutturazione compiuta per questo allestimento: tra spostamenti di arie ed espunzioni (di arie e recitativi) sono il secondo ed il terzo atto ad essere pesantemente manipolati rispetto all’originale.   

La trama dovuta a Grazio Braccioli - da Ariosto, ma estremamente contorta - serviva (ai tempi) più che altro a giustificare le mirabolanti trovate sceniche (ippogrifi, mostri, naufragi, viaggi spaziali...) e le innumerevoli arie che consentivano agli interpreti di mettere in mostra le loro qualità di gorgheggiatori, oltre che di attori. Vi troviamo un quadrilatero e un triangolo sentimentali, rispettivamente rappresentati dai diversamente assortiti legami affettivi che a cascata collegano, da un lato, Bradamante<>Ruggiero<>Alcina<>Astolfo; e dall’altro Medoro<>Angelica<>Orlando.   

L’allestimento è piacevole e intelligente: non si perde alcunchè del classico clima dell’opera barocca, grazie alle scene di Massimo Checchetto, assai efficaci pur nella relativa essenzialità: la luna di Orlando, il mondo incantato e sexy di Alcina, l’ippogrifo di Ruggiero e il naufragio di Medoro... Insomma, un simpatico revival delle atmosfere che nel primo ‘700 caratterizzavano i teatri musicali. Il tutto impreziosito dai coloratissimi e raffinati costumi di Giuseppe Palella e ravvivato dalle luci di Fabio Barettin. Essenziali anche le coreografie di Riccardo Olivier.
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Sul piano musicale, doverose lodi a Diego Fasolis, che ha fatto valere la sua indiscussa esperienza in questo repertorio, accompagnando personalmente ad uno dei due cembali e trascinando strumentisti e coristi della Fenice a confermare a loro volta la dimestichezza con il barocco, raggiunta anche grazie alle esecuzioni monteverdiane di questi ultimi anni.

Le voci si sono dimostrate tutte all’altezza del compito. A partire dall’Alcina di Lucia Cirillo e dall’Angelica di Francesca Aspromonte. Subito dietro collocherei la Bradamante di Loredana Castellano e la protagonista Sonia Prina, che ho personalmemte apprezzato spesso in Auditorium a Milano con laBarocca di Jais, ma che ieri non mi è parsa al meglio (incassando anche un eccessivamente severo buh nel second’atto).  

Apprezzabili il Medoro di Raffaele Pe, il Ruggiero di Carlo Vistoli e autorevole l’Astolfo di Riccardo Novaro.

Pubblico non oceanico e freddino negli applausi a scena aperta dopo le arie (ha fatto eccezione Sol per te, grazie soprattutto all’accompagnamento del magico traversiere, collocato in un palchetto). Anche alla fine applausi calorosi ma... centellinati.

Comunque uno spettacolo sicuramente da consigliare.
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Struttura dell’opera in questa edizione-produzione

I
Ang Un raggio di speme
Alc Alza in quegli occhi
Ast Costanza tu m’insegni
Bra Asconderò il mio sdegno
Orl Sorge l’irato nembo (da atto II) sostituisce Nel profondo, cieco mondo, spostato in atto II
Ang Tu sei degli occhi miei
Orl Troppo è fiero il nume arciero (espunto)
Med Rompo i ceppi (Nel libretto originale: Se tacendo, se soffrendo)
Rug Sol per te mio dolce amore (flauto traverso)
Alc Amorose ai rai del sole

II
Alc Vorresti amor da me?
Ast Benchè nasconda la serpe in seno
Bra Taci, non ti lagnar
Rug Piangerò sinchè l’onda del pianto (assente nel libretto originale)
(Orl Sorge l’irato nembo, spostato in atto I)
Med Qual candido fiore
Ang Chiara al pari di lucida stella (spostata poco avanti)
Orl Nel profondo, cieco mondo (da atto I)
Rug Come l’onda (da atto III) sostituisce Che bel morirti in sen, espunto
Bra Io son ne’ lacci tuoi (da atto III) sostituisce Se cresce un torrente, espunto
Cor Al fragor de’ corni audaci
Cor Gran madre Venere
Cor Diva dell’Espero
Ang-Med Belle pianticelle (espunto)
Ang-Med Sei mia fiamma - Sei mia gioia
Alc Così potessi anch’io (spostato qui da prima del duetto Ang-Med)
Orl Ah sleale, ah spergiura

III
Ast Dove il valor combatte
Alc L’arco vuò frangerti
Alc Che dolce più (espunto)
Ang Poveri affetti miei (espunto)
 (Bra Io son ne’ lacci tuoi, spostato in atto II)
Alc Non è felice un’alma (espunto)
(Rug Come l’onda, spostato in atto II)
Med Vorrebbe amando il cor (espunto)
Orl No no ti dico no
Alc Infelice, ove fuggo
Alc Anderò, chiamerò
Cor Con mirti e fiori (Nel libretto originale: Vien dal cielo in noi l’Amore)

24 aprile, 2017

Dario definitivamente incoronato a Torino.

 

Ieri al Regio torinese si è conclusa la serie di recite del Dario di Vivaldi. Sala non proprio gremitissima, ma data la proposta (piuttosto desueta) credo che si debba essere soddisfatti per come il pubblico ha risposto a questa coraggiosa iniziativa del Teatro.

Spettacolo nobilitato dalla musica del prete rosso, autorevolmente diretta da Ottavio Dantone, che è notoriamente uno specialista del barocco ed in particolare ha già eseguito ed inciso un Dario praticamente integrale, con la sua Accademia Bizantina e (a parte proprio Dario) con gli stessi interpreti principali delle recite al Regio. In occasione delle quali (la registrazione radiofonica della prima è ascoltabile su youtube) ha apportato alla partitura alcuni tagli non proprio indolori. A parte una buona dose di recitativi (e questo può anche passare) a Torino sono stati omessi completamente: il duetto iniziale Statira-Argene (“Cessi il pianto”); l’aria di Oronte (atto II, scena 11) “Se fui contento”, l’aria di Statira (atto II, scena 16) “Se palpitarti il sen” e l’intera scena 1 dell’atto III, con conseguente eliminazione del duo Oronte-Arpago “Col fulgor di sacro alloro” e dell’aria di Arpago “V’ubbidisco amate stelle”. In più, alcune arie sono state accorciate, eliminando la seconda strofa e il da-capo della prima. Il tutto per più di 20 minuti di musica, che non credo avrebbero mandato in overflow la pazienza del pubblico, ecco. In ogni caso, una proposta più che accettabile (del resto anche ai tempi di Vivaldi era costume costruire ogni recita assemblando il materiale disponibile con criteri dipendenti dalle circostanze).

Da lodare l’intero cast, compresa la Delphine Galou (la sbifida Argene) che l’altoparlante aveva annunciato come non al meglio, causa improvvisa indisposizione. Bene Sara Mingardo (la vanesia Statira) e benissimo Romina Tomasoni (Flora). Apprezzabili le due travestite, pretendenti di Statira, Lucia Cirillo (Oronte) e Veronica Cangemi (Arpago) come pure la poverina Alinda (Roberta Mameli).

Nei due principali ruoli maschili si sono distinti Carlo Allemano (Dario) e Riccardo Novaro (l’inaffidabile filosofo-alchimista). Poi Cullen Gandy, nel doppio e striminzito ruolo dell’Ombra di Ciro e dell’Oracolo di Apollo.

Benissimo i professori del Regio (più l’arciliuto portato da Dantone) nel rendere al meglio questa musica, che altrimenti rischierebbe di sembrare un po’ troppo ripetitiva. Ma è un Vivaldi brillante e geniale, soprattutto nel rivestire la sua musica di splendidi e sempre appropriati accenti naturalistici.
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La regìa di Leo Muscato è tutto sommato rispettosa dello spirito (non della lettera) dell’originale: la trasposizione spazio-temporale (dall’antica Persia siamo finiti negli sceiccati petroliferi contemporanei) non disturba per nulla, dal momento che lo stesso soggetto del Morselli impiega storia&geografia esclusivamente come pretesti per presentare uno scenario (per la verità piuttosto grottesco e tragicomico) di lotta per il potere (politico ed economico) che ha le stesse caratteristiche sotto ogni latitudine e in qualsivoglia epoca storica.

Quindi ci sta che Dario sia un magnate del petrolio, Oronte il capo di un’impresa di estrazione e Arpago il responsabile della sicurezza, così come l’Oracolo di Apollo sia uno yuppie di WallStreet, venuto a controllare che tutto fili secondo le regole della moderna divinità: il capitale internazionale.

Le scene (dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino) mostrano alternativamente gli esterni, in cui predomina la tecnologia petrolifera (direi più da raffinazione che da estrazione...) e gli interni delle sontuose residenze della ricchissima nobiltà. I costumi sono di concezione fantastica, colori sgargianti e taglio moderno. Efficaci le luci di Alessandro Verazzi.  

Intelligente ed efficace anche la gestione dei personaggi, che ne mette in luce i prevalenti lati grotteschi e tragicomici; apprezzabili anche i movimenti coreografici di Alessandra DeAngelis

In conclusione, una proposta meritevole di lode, che presto dovrebbe poter essere goduta, tramite DVD, anche da chi non ha potuto assistere di persona.

28 giugno, 2015

Vivaldi tuttora profeta in patria

 

Ieri pomeriggio la rivoluzionaria Venezia-di-centro-destra (stra-smile!) ha ospitato (seconda recita) un altro tipo di trionfo, quello della vivaldiana Juditha.

Questi spettacoli della Fenice si inquadrano, insieme a molti altri eventi culturali, nella manifestazione Lo Spirito della Musica di Venezia 2015 (15/6-26/7) che ha come sottotitolo: Venezia porta d’Oriente: dialogo fra culture. Dialogo? Accipicchia, quello che succede in questi giorni alle porte di casa nostra pare molto peggio di ciò che si viveva ai tempi della Juditha. Però una cosa è certa: non risulta che i levantini (sultani o califfi che fossero) abbiano mai prodotto (per celebrare vittorie o sconfitte contro l’occidente) opere d’arte paragonabili a questa di Vivaldi.

E così abbiamo sistemato la coscienza: perciò tanto vale cominciare dal… sodo. Ecco qua come il Prete rosso – nel recitativo accompagnato che apre con Impii, indigni Tyranni - evoca l’attimo fatidico della decollazione di Oloferne, dopo che Giuditta ha proclamato: Nel tuo nome, o Dio, tronco la testa. (Oggi va di moda sostenere che non si può ammazzare in nome di Dio… quando a farlo sono loro e non noi.) È un furioso quanto fulminante SOL minore degli archi, che precipita per due ottave piene e in cui trova posto addirittura - ed appropriatamente, date le circostanze - il Dies-Irae!


Restiamo alla musica, cominciando con… la Sinfonia! È noto che nessun brano del genere si è mai trovato (ammesso che Vivaldi ne avesse composto uno) per la Juditha, che apre invece con il bellicoso coro degli oloferniani, in RE maggiore. Ecco, Alessandro De Marchi, seguendo le orme di altri prima di lui (ma soprattutto se sue proprie !) ha deciso di aggiungere in testa all’Oratorio una specie di Sinfonia. Ora, nella produzione di Vivaldi brani di tal genere abbondano, ma hanno tipicamente una struttura in tre movimenti (Allegro-Largo-Allegro) e ciò fa subito insorgere il problema di un evidente pleonasmo fra l’ultima parte della Sinfonia e il coro iniziale dell’Oratorio, pure in Allegro. Come ha risolto la cosa il Direttore? Riproponendo ciò che già ha immortalato in disco: ha preso il Concerto RV 562 (che è pure in RE maggiore) ma escludendo l’Allegro finale, in modo da ottenere, anteponendolo all’incipit dell’Oratorio, una specie di Sinfonia. Operazione legittima? Beh, certo non vietata da alcuna Legge, ma abbastanza gratuita e di efficacia francamente discutibile, oltretutto non essendo escluso che Vivaldi avesse avuto proprio l’intenzione di aprire l’Oratorio con il Coro, rinunciando alla Sinfonia.

Per il resto, De Marchi ha diretto con l’autorevolezza che gli deriva dalla sua lunga esperienza in questo repertorio. Personalmente giudico fin troppo sostenuti i suoi tempi, che hanno finito per aggravare i problemi legati alla congenita staticità dell’opera e al suono particolare degli strumenti, legato al diapason a 415. Comunque benissimo i Professori della Fenice, con gli strumenti d’epoca (salmoè in testa) in grande evidenza.     

La protagonista Juditha è Manuela Custer, veterana del ruolo che conosce evidentemente come le proprie tasche. E non ha tradito la sua fama con un’interpretazione intensa; l’unico appunto che personalmente le muovo riguarda il volume della sua voce, che non è dei più robusti e che ne penalizza l’ottava bassa. Potente invece la voce di Teresa Iervolino, un Holofernes tanto duro guerriero come sdolcinato amante. Vagaus è impersonato da Paola Gardina, un soprano dalla voce piuttosto corposa (lei è di fatto un mezzo…) e quindi adatta al ruolo: ha interpretato in modo efficace le sue cinque arie e in particolare l’ultima, davvero indemoniata, che richiede grandissima agilità. Discreta anche la prestazione di Francesca Ascioti nel ruolo di Ozia. Però chi, per me, ha svettato su tutte è Giulia Semenzato, una più che convincente Abra, che ha anche impreziosito con acuti da soprano (la tessitura è da mezzo…) la sua prestazione. Benissimo anche il coro di Claudio Marino Moretti.
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Vengo ora alla parte più… ostica (per chi ne è responsabile) dello spettacolo: l’allestimento registico. A differenza delle cantate (che hanno sì un soggetto, ma non hanno una storia da raccontare) gli oratori, oltre che un soggetto presentano anche una storia, una trama, e ciò spiega perché possano legittimamente aspirare ad essere allestiti in forma scenica. Per dire: come si potrebbe inscenare Ein Deutsches Requiem? In nessun modo, certamente. Mentre invece il Messiah, per dire, si presta benissimo alla rappresentazione poiché racconta una storia (e che storia, mezzo Antico testamento!)  

Orbene, la Juditha ha una storia francamente così circoscritta (l’impresa personale della vedova betuliana) e un’azione così povera (come testimonia la stringatezza dei recitativi, che dovrebbero proprio servire ad alimentarla) da rappresentare il limite inferiore della possibilità di messa in scena. Va quindi ascritto a merito dell’equipe di Elena Barbalich l’aver saputo proporre uno spettacolo intelligente e coinvolgente.

Massimo Checchetto ha ideato delle scene… vuote (!) Bella fatica, direte voi… no, perché erano sì vuote (o quasi) ma per essere occupate ora dai cori, ora da elementari suppellettili (vedi il tavolone da ultima cena del second’atto) ma soprattutto dalle luci di Fabio Barettin, che riproducevano di volta in volta delle grate, degli apparati bellici, supportando atmosfere di festa o di dolore. Il piano dell’orchestra era alzato al livello sala (come in occasione di concerti) e il palco era a sua volta rialzato di nemmeno un paio di metri; due scale assai larghe e di moderata pendenza consentivano ai cantanti di scendere fino a contatto con il pubblico. I costumi di Tommaso Lagattola erano di epoca indefinita, tranne quelli del secondo atto, che parevano ispirati da quadri rinascimentali e barocchi.

Elena Barbalich ha curato i movimenti di singoli e masse con grande equilibrio e sensibilità, trovando una giusta via di mezzo fra eccessiva ieraticità (tipo Wilson, per intenderci) ed eccessi di verismo. Insomma: una regìa, la sua, degna di encomio.

E il pubblico (non proprio oceanico e smagritosi ulteriormente all’intervallo) ha comunque mostrato di apprezzare assai questa proposta: frequenti applausi a scena aperta dopo le arie principali e calorosissima accoglienza finale. Viva Venezia, viva Vivaldi!      
  

24 giugno, 2015

Dopo Brugnaro, anche Giuditta si prepara a trionfare in laguna

 

Domani la Fenice ospita la prima della vivaldiana Juditha. Trionfatrice sullo sbifido Oloferne (il capo dell’ISIS di quei tempi) impiegando precisamente la stessa sbrigativa quanto infallibile tecnica mozza-collo dei di lui simpatici nipotini di oggi. Della serie: chi di spada ferisce… o anche: chi la fa l’aspetti… o anche: se sei dalla parte dei nostri, allora sei un eroe (o eroina) altrimenti sei un criminale.

Politica? Eh sì, perché la Juditha fu in realtà un manifesto politico/propagandistico, auspicante/celebrante una prima vittoria (dopo una serie di disfatte) di Venezia (appoggiata dal Papa e dal Sacro Romano Impero) sugli Ottomani, nell’estate del 1716 a Corfù. Non a caso l’ultimo verso dell’Oratorio recita Adria vivat, et regnet in pace. E che c’entra mai Adria con la vicenda di Giuditta e Oloferne, ambientata in Palestina, alle porte di Betulia, città ebraica (dalle parti dell’odierna Jenin, nella West-Bank) assediata dagli Assiri di Nabucodonosor? Ce lo spiega lo stesso librettista Giacomo Cassetti, che aggiunse in coda al testo musicato da Vivaldi un Carmen allegoricum in cui chiarisce gli apparentamenti dei cinque ruoli (più il luogo) dell’Oratorio: Giuditta è Adria (cioè Venezia); la sua compagna Abra è la Fede cristiana; Betulia è la Chiesa e Ozia ne è il Pontefice; Oloferne è il Sultano e Vagao il suo Generale.

Quindi Giuditta rappresenta Venezia che sconfigge il nemico venuto dall’oriente e con ciò salva anche la Chiesa di Roma dalla minaccia islamica. E questo riferimento religioso ben si addice alla figura del reverendo Antonio Vivaldi, insegnante di violino, viola all’inglese e maestro di coro dell’Istituto veneziano (La Pietà) che mise a disposizione tutte le risorse (umane, prima ancora che materiali) per la rappresentazione dell’Oratorio.  

Oratorio che finì per quasi 200 anni nel dimenticatoio e venne riesumato solo 90 anni fa a Torino, dove la Biblioteca Nazionale aveva acquisito i manoscritti vivaldiani della collezione Foà. Da allora si sono susseguite diverse edizioni, la prima del 1940 (riveduta nel 1949) a cura di Vito Frazzi, poi quella benemerita (1970) di Alberto Zedda (stampata presso Ricordi). In questi ultimi anni (2008) abbiamo avuto ben due nuove edizioni che hanno come curatori dei musicologi anglosassoni, o yankee. La prima è di Ricordi ed è stata curata dal britannico Michael Talbot; l’altra è quella americana, curata principalmente da Eleanor Selfridge-Field e prodotta dalla CCARH, che è stata impiegata da Andrea Marcon in questa esecuzione ad Amsterdam con la Venice Baroque, dove la protagonista è la stessa che ascolteremo in questo allestimento veneziano. Per la verità la locandina della Fenice indica l’impiego di un’altra edizione, quella della Carus-Verlag, Stuttgart: dovrebbe quindi trattarsi di quella curata (nell’ormai lontano 1979) da Günter Graulich, fondatore della Carus, con il ruolo di Abra affidato ad un soprano a dispetto della sua estensione da mezzo (ma nel rispetto del manoscritto originale).

L’Oratorio è in lingua latina (magari un filino… artefatta) come imponevano le consuetudini di Venezia (città davvero internazionale) del tempo ed è interpretato da sole voci femminili (4 mezzosoprani – contralti per Talbot - e un soprano, o 3-2 come qui a Venezia, più il classico coro S-A-T-B, ma tutto di gentil sesso). In origine erano solo ed esclusivamente donne anche le strumentiste dell’orchestra, tutte ospiti dell’Antico Spedale della Pietà e dotate degli strumenti più diversi ed anche (per noi moderni) piuttosto strani, come i flauti dritti contralti, lo chalumeau (salmoè in venexiano) la viola d’amore e le viole da gamba (all’inglese) oltre alle tiorbe e al violone, violoncello e organo per l’accompagnamento. Ma ci sono anche un mandolino e due claren (clarinetti in SIb) oltre ad oboi, timpani, trombe e a violini e viola. Uno specialista, Alessandro De Marchi, cura la concertazione di queste recite veneziane.

L’Oratorio ha la struttura classica, dove si alternano recitativi e arie (più i cori) e dove la arie hanno invariabilmente la forma A-B-A, quindi con il da-capo. Essendo la struttura simile a quella delle opere del tempo, non è infrequente che se ne proponga (come qui a Venezia) una rappresentazione in forma scenica e non semplicemente concertante (come accadde alle recite originali alla Pietà, dove addirittura le cantanti erano poste dietro grate che le rendevano quasi invisibili al pubblico). Ecco come la regista Elena Barbalich spiega il suo approccio per la messinscena.

Come al solito informazioni e dotte analisi sulla Juditha sono già disponibili sul prezioso programma di sala del Teatro.

22 febbraio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.23


Otto stagioni sono l’oggetto del concerto di questa settimana, per il quale torna sul podio Jader Bignamini in (bella, ad onor del vero!) compagnia della violinista Natasha Korsakova, un’ospite non nuova de laVerdi (l’avevamo ascoltata un paio di anni fa in Shostakovich) che si presenta fasciata da un lungo nero dotato di spacco vertiginoso. Chissà se è per vedere (e ascoltare, ovviamente) lei che l’Auditorium di Largo Mahler, a dispetto del nevischio imperversante su Milano, è stato letteralmente preso d’assalto (ed esaurite risultano anche le due prossime repliche)!

Quattro sono le celeberrime Stagioni di Antonio Vivaldi, e le altre quattro sono Las cuatro estaciones porteñas di un re del tango, Astor Piazzolla. In questo video Bignamini spiega l’approccio usato per presentarcele: un approccio non certo nuovo, dacchè l’accostamento fra le stagioni vivaldiane e quelle bairensi non è una primizia, essendo spesso oggetto di concerti ed esibizioni. Quindi l’ordine di presentazione non ha poi moltissime possibili varianti: prima le une, poi le altre; oppure, più spesso, una mescolanza delle otto stagioni ordinate per calendario (primavera-primavera, etc.) oppure, come in questo caso, per contemporaneità fra le stagioni dei due emisferi.
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I concerti vivaldiani fanno parte dell’op.8, stampata in Amsterdam attorno al 1725 e pomposamente consacrata a tale Venceslao, Conte di Marzin (o Morzin) un nobile mecenate boemo che aveva incontrato e apprezzato Vivaldi durante uno dei suoi soggiorni italiani:


Vivaldi scrisse personalmente (o forse impiegò farina del sacco di altri, chissà…) i testi poetici richiamati nei quattro concerti tripartiti, trascrivendo i singoli versi sui corrispondenti righi delle partiture, ed aggiungendo sulle stesse alcuni sottotitoli, come schematicamente rappresentato nelle figure che seguono.

I tentativi di Vivaldi di imitare la natura (e/o le reazioni e i sentimenti che si provano al contatto di essa) oggi ci possono sembrare patetici, ma non va dimenticato che il nostro aveva a disposizione mezzi assai limitati, e non certo le macchine del vento (vedi Strauss) né tanto meno i nastri magnetici registrati col cinguettar di un usignolo (Respighi)! Inoltre i concerti sono per complessi di soli archi, quindi il reverendo nemmeno si potè giovare (come Beethoven nella Pastorale) di flauti-usignoli, oboi-quaglie e clarinetti-cuculi! Né di timpani o di grancasse a simulare tuoni e temporali.


Nell’Allegro iniziale c’è la scena dei ruscelli (le fonti) dove Vivaldi impiega quartine di semicrome ad evocare lo scorrere calmo ma continuo delle acque. Qualcosa di simile sentiremo 150 anni più tardi nella Moldava… In compenso simili semicrome (in sestine) verranno impiegate da Wagner per evocare lo stormir di fronde (il Waldweben nel Siegfried); il quale mormorio è invece rappresentato da Vivaldi (all’inizio del Largo) con semicrome puntate seguite da biscrome, proprio a darci l’idea dell’incresparsi irregolare del fogliame.

Insomma, fenomeni diversi possono essere evocati dallo stesso stilema musicale, e uno stesso fenomeno da stilemi diversi. A dimostrazione, ce ne fosse ancora bisogno, che la musica mai e poi mai può descrivere alcunché, ma soltanto richiamare vagamente alla nostra sensibilità oggetti, fenomeni o personaggi. I quali, se non esplicitamente e preventivamente esposti in un programma o in didascalie, ci rimarrebbero del tutto indecifrabili al puro udirne i motivi musicali.


Nell’Allegro compaiono (come in Beethoven) tre volatili (cucù, tortorella e cardellino): è invariabilmente il violino solista a doverli impersonare, e non può far altro che differenziarne il canto attraverso il ritmo impresso alla melodia, mancandogli la qualità fondamentale, il diverso timbro. E Vivaldi fa effettivamente miracoli, nel tentativo di presentarci tutta questa varietà ornitologica con questi limitatissimi mezzi…

Nell’Adagio-Presto centrale e poi nel Presto finale abbiamo l’evocazione di tuoni e di un classico temporale, e guarda caso molti dei mezzi musicali impiegati da Vivaldi sono analoghi, se non identici, a quelli relativi ai tuoni del movimento iniziale della Primavera. Simili urla di vento udiremo infine anche nell’Inverno. Certo che la mancanza di timpani (tuoni) e di un bell’ottavino (per lampi e saette) si fa sentire, e come!


Nell’Allegro iniziale, curiosa la rappresentazione di ubriachi, dove il violino cerca di mostrare l’effetto dei fumi dell’alcol, i giramenti di testa e il barcollare incerto della persona:


L’Allegro conclusivo, che dovrebbe rappresentare la caccia, in effetti è un menuetto dietro il quale inizialmente si intravedono, più che preparativi di carattere venatorio, leziosi balletti di corte! Poi l’atmosfera si muove assai con la comparsa di schioppi e cani e le terzine che evocano la belva fuggente. Però ci vuole una bella fantasia per associare questa musica allo scenario proposto!


Nell’iniziale Allegro non molto è curiosa e meticolosa allo stesso tempo la cura che Vivaldi pone nel differenziare due fenomeni di battimento (di piedi e di denti) legati alle basse temperature. Per rappresentare i secondi il prete rosso introduce una rudimentale poliritmia, con il violino solista che suona in corda doppia 32 biscrome a battuta (4/4), i violini che suonano 16 semicrome e le viole che suonano 8 crome.

Nel Largo, il sottotitolo La Pioggia è scritto sulla parte dei violini (primi e secondi) che suonano arpeggi di MIb in pizzicato, proprio ad evocare il rumore di sgocciolamento che arriva alle nostre orecchie, ovattato, mentre ce ne stiamo al calduccio davanti al caminetto!

Nelle sezioni estreme tornano venti e maltempo, ma anche corse e scivolate sul ghiaccio: e il povero violino solista, con i colleghi, deve far miracoli per rappresentarli plausibilmente, anche se il risultato, ammettiamolo pure, non cambierebbe se le diverse didascalie venissero magari rimescolate a piacere!
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Quanto ai tanghi di Piazzolla, che non sono stati propriamente concepiti come un corpus organico, non hanno certo pretese descrittive, ma sono più che altro rievocazioni poetiche della vita del porto di Baires.

Musicalmente, uno degli stilemi ricorrenti è un inciso di due semicrome che ricompare quasi come un tic in tutte le stagioni:


Qui una interessante interpretazione del Quartetto Artemis.

La versione che ascoltiamo in questa occasione (ci sono svariati arrangiamenti di questi tanghi) è opera abbastanza recente di un russo (Leonid Desyatnikov) che ha voluto evidentemente rivestire Piazzolla con qualcosa di Vivaldi, a cominciare dal violino principale, che diventa protagonista dei quattro tanghi, nei quali Desyatnikov ha pure infilato qualche chiara reminiscenza vivaldiana, a costo di qualche forzatura, come il MI maggiore del veneziano messo in chiusura del SOL minore della Primavera di Piazzolla.
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La coppia Bignamini-Korsakova fa davvero scintille: lui sempre impeccabile e pulitissimo nel gesto (ed avendo sia Vivaldi che Piazzolla mandati a memoria…) lei a sfoggiare la sua tecnica sopraffina, ma anche una grande sensibilità di interprete. Ai lodati sono da aggiungere il violoncello di Tobia Scarpolini (in particolare nell’Autunno bairense) la viola di Gabriele Mugnai e il violino di Luca Santaniello.

Il successo è tale che non può mancare un bis, con la ripetizione del Largo dall’Inverno: che, devo dire, a me più che la pioggia ha sempre richiamato alla mente la classica slitta di SantaKlaus che se ne scivola dolcemente sulla neve diffondendo cullanti suoni di sonagli.

Ma non finisce qui, poiché la fascinosa discendente del grande Rimsky ci regala anche la Sarabanda in RE minore, dalla seconda Partita bachiana.
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A fine mese, in singolare coincidenza con il prepensionamento del Papa (per il quale laVerdi ha più volte suonato) una sesquipedale costruzione sonora del tardoromanticismo: la Terza di Mahler!