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22 gennaio, 2018

Il Pasquale di Spontini rivive a Venezia


Ieri pomeriggio al Malibran di Venezia (molte le poltrone vuote...) è andata in scena la seconda recita della farsa Le metamorfosi di Pasquale di Gaspare Spontini, operina ritenuta perduta ma riscoperta l’altr’anno in Belgio.

In un precedente intervento avevo scritto di un soggetto, quello del Foppa, che mi pareva, almeno a prima vista, piuttosto deboluccio, e della conseguente curiosità di ascoltarne la resa in musica del grande (...ma non ancora, nel 1802) Spontini. Ecco, la curiosità è stata soddisfatta, naturalmente, ma non così... l’aspettativa. Non che (personalmente) sognassi di ascoltare Mozart e menchemeno Rossini, ma insomma, si è avuta la conferma che lo Spontini del 1802 era un musicista ormai involuto – come del resto doveva aver concluso il pubblico del San Moisè, rimasto assai freddo - e che solo il totale cambiamento d’aria (leggasi: Parigi) gli potè (e 5 anni dopo) ispirare cose davvero innovative e imperiture.

Federico Agostinelli, cui è stata affidata l’edizione critica (così recita la locandina, a me pare in termini un tantino pretenziosi, date le circostanze in cui la partitura è tornata alla luce) ha dovuto far fronte alla mancanza di una Sinfonia, così ha ipotizzato che Spontini abbia fatto ascoltare ai veneziani del 1802 quella tratta da La fuga in maschera, giustificando ciò con il razionale che Spontini aveva già impiegato (e avrebbe impiegato successivamente) tale sinfonia in altre opere, e che alcune sezioni tornano nel finale della farsa. Finale che Agostinelli ha dovuto anche integrare di suo in alcune parti mancanti nel tomo rinvenuto in Belgio. Sempre secondo Agostinelli, quest’operina mostrerebbe qualche elemento di novità rispetto alla produzione precedente di Spontini, come: modulazioni più ardite, cadenze evitate e accordi aumentati. Okay, ma il risultato, ripeto a mio modesto avviso, è quello che è...

Gianluca Capuano ha comunque fatto del suo meglio per... indorarci la pillola, con una direzione vibrante, ben assecondato dagli sparsi strumentisti della Fenice. Al proposito, al Malibran ieri è successo ciò che forse non capitava nemmeno nel 1802: per ben due volte è mancata improvvisamente l‘illuminazione nella buca! Nella prima occasione l’orchestra è riuscita miracolosamente a chiudere il numero, suonando nel buio più fitto e raccogliendo meritati applausi. Al secondo incidente, Capuano ha dovuto fermare tutti e riattaccare poi l’aria di Lisetta (quella col corno inglese). Evabbè...

Proprio Lisetta, al secolo Irina Dubrovskaya, è stata la mattatrice del pomeriggio, essendo anche il personaggio più impegnato da Spontini: un po’ censurabile il suo timbro di voce (nella Sonnambula di qualche tempo fa mi era parso più gradevole) ma apprezzabili i virtuosismi e le salite ai sovracuti che le hanno meritato un’ovazione alla singola. Meno impegnata e meno appariscente la Costanza di Michela Antenucci, che ha però sfoggiato una voce più rotonda di quella del soprano siberiano.

I cinque rappresentanti maschi hanno discretamente meritato, su tutti metterei il Frontino di Carlo Cecchi, voce ben impostata e buon portamento. Poi Giorgio Misseri (Marchese) una voce piccola e però sufficiente in un ambiente... piccolo, appunto.  Efficaci nelle loro non proibitive parti il Barone di Francesco Basso e il doppione (Cavaliere-Sergente) di Christian Collia. Quanto al protagonista Pasquale, Andrea Patucelli merita ampia sufficienza, anche se questa parte di buffo forse richiederebbe ancora più verve, ecco.
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Quanto alla regìa, Bepi Morassi ha scelto – in assenza totale di riferimenti spazio-temporali nel libretto del Foppa - un’ambientazione in epoca appena pre-primo-conflitto-mondiale e ha immaginato il barone come il ricco proprietario di un elegante caffè-bar. All’interno o nei pressi del quale (insegne luminose di entrata e uscita scambiate alla bisogna) collocare gli avvenimenti. Scene spartane, quelle di Piero De Francesco, e costumi più o meno plausibili quelli di Elena Utenti, tutti ideati – così come l’impiego delle luci - da allievi della Scuola di Belle Arti veneziana.

Morassi sa poi far muovere da par suo personaggi e comparse (avventori del bar) sulla scena, garantendo un buon livello di vivacità ad uno spettacolo i cui ingredienti di base lasciano effettivamente molto a desiderare.

Pubblico abbastanza ben disposto, con alcuni applausi a scena aperta e un doveroso apprezzamento finale per tutti i protagonisti. Insomma, un ritorno dopo 216 anni che difficilmente farà... storia. Viaggio che comunque si concluderà proprio a casa di Spontini, fra qualche mese, in occasione del Festival 2018. 

03 luglio, 2017

La rediviva Sonnambula veneziana


Ieri la Fenice ha ospitato la seconda delle 5 recite della Sonnambula di Bellini, una ripresa della produzione del 2012.

Venezia come... al solito: leggevo di autentica invasione di cavallette turisti e invece si circolava con assoluta scorrevolezza. Il posto più affollato era il porto: ma di barconi a 12 piani! (uno dei quali ha poi solcato – maestoso quanto protervo - la Giudecca proprio mentre la Sonnambula si risvegliava).
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Qualche curiosità sparsa su quest’opera che consacrò il Bellini alla storia.

a. Il fantasma che gli svizzerotti credono di vedere ogni notte è per caso Amina sonnambula? Orbene, la descrizione che la madre adottiva (Teresa) ne fa - In bianco avvolta lenzuol cadente, col crin disciolto, con occhio ardente – parrebbe proprio attagliarsi alla figlioccia, che in quelle vesti e atteggiamenti compare al Conte e poi nella scena finale. Ma allora, caspita: possibile che la Teresa, che l’Amina ce l’ha in casa, non si accorga che quando appare il fantasma, puntualmente la figlioccia sia irreperibile? E del resto il Conte non tarda più di un paio di secondi a riconoscerla, quando se la trova di fronte! Se no, allora la storia del fantasma fa davvero sorridere: si tratterebbe di un banalissimo diversivo del librettista per spargere un pizzico di suspence in un libretto dal contenuto un tantinello noioso.

b. Ah! non credea mirarti è l’anticipazione di Fenesta ca lucive o invece è una scopiazzatura (geniale) di una melodia vecchia di secoli? La domanda ha assillato esegeti e musicologi per decenni, ma ora pare che pochi dubbi esistano sulla veridicità della seconda ipotesi. E del resto la somiglianza è perfetta solo sul verso Più non reggo a tanto duolo cantato da Elvino (Chiagneva sempe ca dormeva sola, nel testo popolare) mentre quell’incipit che sale da dominante a tonica (LA minore in Bellini, FA minore nella tradizione) e da qui per gradi congiunti alla dominante (in Bellini solo alla mediante) si ritrova in Rossini (Dal tuo stellato soglio) in Smetana (Moldava) e in chissà quante altre opere famose e non. Che Bellini abbia tratto ispirazione da quell’antica melodia si può anche spiegare con la vaga rassomiglianza dell’ambientazione del testo popolare con il libretto di Romani.

c. All’inizio del second’atto troviamo un ideale percorso da Beethoven a Brahms, via Bellini: dapprima i legni espongono un motivo che ricorda assai da vicino l’attacco del tema principale del 4° concerto beethoveniano (note ribattute che dalla tonica, attraverso sensibile, tonica e tonica diesizzata portano alla sopratonica); subito dopo, nell’introduzione all’entrata di Amina (Larghetto maestoso, SOL maggiore) legni e archi espongono un motivo che tornerà anni e anni più tardi (in RE maggiore) come incipit del concerto per violino dell’amburghese.
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Tornando alla Fenice, ieri affollata ma non presa d’assalto, lo spettacolo ha confermato il discreto successo del 2012. La regìa di Bepi Morassi è simpatica e un tantinello strampalata, cercando di rispettare il testo originale, ma in ambientazione quasi-moderna: così ecco Rodolfo arrivare in funivia (nella quale rossa cabina sale poi la Lisa per scendere a valle e tornare in scena dopo nemmeno due minuti rientrando dalle quinte...) e i valligiani prendere una corriera di color rosso sgargiante per andare – in completo assetto da discesa libera - al castello a implorare l’intervento del suddetto conte.

Efficace il trattamento dei protagonisti e delle masse che li circondano: equilibrato e scevro da volgarità quello di Rodolfo (soprattutto nella scena scabrosetta del primo atto, in camera da letto); convincente quello di Amina, che ne mette in evidenza la personalità complessata ma sincera; come pure quello del povero Elvino, sballottato come una navetta in continue andate-e-ritorni fra le due femmine che se lo contendono; meno scolpiti quelli di Lisa (che si vorrebbe un filino più... impertinente) e di Teresa; Alessio viene gentilmente gratificato dal regista del matrimonio con la sua Lisa (ma sulla durata di tal legame ci sarebbe poco da giurare... e infatti Bellini la Lisa la fa proprio sparire dal finale); il coro dei valligiani si muove (o sta fermo) sempre in modo appropriato alle circostanze.
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Della compagnia del 2012 sono sopravvissuti l’Elvino di Shalva Mukeria e la Teresa di Julie Mellor: il primo ha ben figurato, confermando le sue doti di lirismo e sensibilità di portamento, ben supportate dalla voce chiara e squillante; francamente meno convincente la seconda, piuttosto stimbrata negli acuti e non troppo udibile nei gravi.

Trionfatori del pomeriggio il Rodolfo di Roberto Scandiuzzi, gran vocione (non sempre controllato al meglio, secondo me) e imponente presenza scenica; e la protagonista Irina Dubrovskaya, che non ha fatto per nulla rimpiangere la pur grande Pratt di 5 anni orsono (e non solo per i MIb e il FA sovracuti staccati con perfetta naturalezza).

Discreta la Lisa di Silvia Frigato, vocina sottile adatta al ruolo, ma troppo poco cattiva (almeno per me). Oneste la prestazioni di William Corrò (Alessio) e del notaio Eugenio Masino.

Coro di Claudio Marino Moretti e orchestra sui loro migliori standard: Fabrizio Maria Carminati ha concertato con precisione e sobrietà, restituendoci con merito questo Bellini davvero lanciato verso le altissime vette che toccherà di lì a pochi mesi con Norma e dopo pochi anni con Puritani.