XIV

da prevosto a leone
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17 gennaio, 2025

Gatti (e Strehler) fanno rivivere Falstaff alla Scala.

Ancora Verdi in scena per il secondo spettacolo dalla stagione, che presenta una storica produzione dell’opera ultima del Peppino. Ier sera la prima, accolta da un caloroso successo di pubblico (folto sì, ma non proprio da tutto-esaurito, e con qualche defezione lungo il cammino…)

Poche parole per elogiare, a 45 anni di distanza, l’allestimento di Strehler (ripreso da Marina Bianchi) che resta tutt’oggi un esempio di fedeltà a testo e musica, resistente agli attacchi del tempo. Di certo superiore a quello abbastanza velleitario di Michieletto (dato qui ultimamente nel 2017) e al precedente ancora, moderno ma non certo esente a sua volta da critiche, di Carsen (2013-15).

Ecco, di quella ripresa del 2015 resta oggi in piedi il… podio: dove è tornato Daniele Gatti, che quest’opera la conosce come le sue tasche (l’ha diretta tutta a memoria). Se devo fargli un appunto, mi è parso un poco eccedere nelle dinamiche, spesso sovraccaricando il suono dell’orchestra, così correndo il rischio di coprire le voci. A proposito dell’orchestra, una curiosità: dieci anni fa Gatti aveva disposto legni e corni all’estrema sinistra, mentre oggi è tornato ad un layout abbastanza usuale.

Alla fine, per lui e per il coro di Malazzi (come per il team della Bianchi) solo applausi e consensi.

Il cast ha in generale ben meritato. A parte Ambrogio Maestri, che con il passare degli anni e delle… recite sembra ancora migliorare, mi sentirei di dargli dei giudizi che vanno dal buono, al discreto al sufficiente, suddividendolo in tre gruppi: nel primo colloco la Quickly di Marianna Pizzolato, il Ford di Luca Micheletti e il Cajus di Antonino Siragusa; nel secondo la altre tre rappresentanti del sesso debole: la Alice di Rosa Feola, la Nannetta di Rosalia Cid e la Meg di Martina Belli; nel terzo gli altri tre maschietti: Marco Spotti (Pistola), Christian Collia (Bardolfo) e Juan Francisco Gatell (Fenton).

E infine, giusto menzionare il piccolo paggio Lorenzo Forte, un prezzemolino (invenzione di Strehler) davvero bravo e simpatico.

In conclusione, una serata tutto sommato piacevole, in attesa dell’incombente panzer wagneriano.


14 gennaio, 2025

Uno storico Falstaff torna alla Scala.

Come è già accaduto in passate stagioni, la Scala ospita, come seconda opera del cartellone, l’ultimo lascito di Verdi. A proposito di allestimenti che fanno storia, al posto del più recente (Michieletto-2017, creato nel 2013 a Salzburg, che evidentemente ha fatto solo… cronaca) ci viene offerto (ripreso da Marina Bianchi) quello, davvero storico, di Giorgio Strehler, che vide la luce a SantAmbrogio del 1980 e fu poi ripreso già altre sei volte: 82-93-95-97-01-04.

Falstaff è l’opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l’estremo sberleffo (meglio… la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell’intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l’intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta e a sonate di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Meistersinger e a Parsifal, giusto per citare quasi a caso…

In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale. Ma tutto fatto in modo intelligente e… pertinente.

Come nel caso della citazione dal Parsifal di quel Wagner che Verdi non aveva certo in grande simpatia, ma del quale aveva l’onestà intellettuale di riconoscere i meriti, e delle cui opere aveva una curiosità quasi morbosa (si procurò gli spartiti delle più importanti) a dispetto delle critiche anche radicali cui le sottoponeva. Dunque, nel monologo di Falstaff all’inizio dell’Atto III, il protagonista, prefigurando la propria fine, pronuncia la famosa frase (certo una rodomontata, in bocca ad un dongiovanni ormai pensionato e gabbato, invece che ambìto, dalle comari del luogo): Allor scomparirà la vera virilità dal mondo. Ebbene, Verdi come te la chiosa? Così, portandola sulla dominante:

Si tratta di una citazione quasi letterale dal second’atto: musica che colà dipinge la personalità di tale Klingsor, guarda caso un… (auto)castrato!

Il carattere letteralmente rivoluzionario fa di questa musica un unicum nella storia del teatro musicale. E di conseguenza l’opera richiede, anzi pretende, la presenza di un concertatore coi fiocchi per essere resa al meglio.

Al proposito, ecco con quale rispetto e venerazione uno dei più grandi direttori di tutti i tempi affrontava la concertazione dell’opera. Nella sua monumentale biografia di Gustav Mahler, H.L. de La Grange ci informa di quanta autentica adorazione avesse il maestro boemo per Falstaff, di cui fu artefice di due storiche prime nel mondo tedesco: nel gennaio del 1894 ad Amburgo, a poco meno di un anno dall’esordio scaligero dell’opera, e 10 anni più tardi alla Hofoper.

E quanta certosina meticolosità e scrupolo mettesse nell’interpretazione della partitura (la cui strumentazione considerava per l’appunto rivoluzionaria e da cui ricavò abbondanti spunti per sè) è testimoniato da chi assistette alle prove in vista delle rappresentazioni amburghesi. Nel primo atto, le quattro comari, alla lettura delle missive del grasso-gradasso (dopo che Alice ha cantato i mirabili versi e il viso tuo su me risplenderà / come una stella sull'immensità) si fanno una bella sghignazzata, precipitando lungo la triade di MI maggiore, di ben 16 Ah!, su altrettante crome (tranne l’ultimo, una semiminima). Il tutto verrà ripetuto pari-pari in finale d’atto:

Ebbene, il pignolissimo Mahler, per dare a queste risatine un effetto più naturale, chiedeva alle cantanti di interporre due impercettibili pause dopo il secondo e il terzo gruppo di 4 Ah!
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E proprio un raffinato interprete mahleriano, Daniele Gatti, tornerà per l’occasione sul podio del Piermarini per dirigervi un’opera, a distanza di quasi 10 anni da quando si cimentò proprio in Falstaff, in occasione della ripresa dello spettacolo creato da Carsen nel 2013: una lettura, la sua, allora assai apprezzata da pubblico e critica (e, per quanto può valere, anche dal sottoscritto).

Protagonista nel title-role l’inossidabile Ambrogio Maestri, ormai da tempo uno degli interpreti di riferimento del panciuto e tronfio personaggio windsoriano. Che sarà affiancato da un cast che a sua volta promette assai bene.

Ci sono quindi le premesse per un’altra bella serata di musica!

06 febbraio, 2017

Alla Scala sbarca il Falstaff triste di Michieletto

 

Altro esempio di acquisto in casa propria (Salzburg 2013) del soprintendente Pereira (oggi però i conflitti di interesse che tengono banco sono quelli di tale Raggi...) ecco arrivare in Scala, ieri sera alla seconda recita, il Falstaff di Damiano Michieletto, che segue la precedente e fortunata produzione di Carsen (2013 con Harding e 2015 con Gatti).

Comincio dalla musica che – sono certo Boito non me ne vorrà – è di gran lunga l’ingrediente principale dell’opera, per il suo carattere letteralmente rivoluzionario, che ne fa un unicum nella storia del teatro musicale. E che richiede, anzi pretende, la presenza di un concertatore coi fiocchi per essere resa al meglio. E qui siamo davvero in buone mani chè, dopo un giovane e un... diversamente giovane (entrambi all’altezza) arriva sul podio un arzillo nonnetto che va per gli 81 ma pare se la passi ancora alla grande, proprio come il Verdi che – a quell’età o giù di lì – componeva questo incredibile gioiello! Se si escludono un paio di circostanze in cui il Direttore ha sciolto un po’ troppo le briglie, con decibel eccessivi, mi pare di poter dire che la resa complessiva sia stata del tutto positiva, avendo messo in luce ogni minimo dettaglio di una partitura che è – appunto – una miniera d’oro e diamanti, che ad ogni ascolto non finisce di stupire. L’orchestra, giustamente ridimensionata nell’organico, soprattutto negli archi, per garantire quella purezza di suono che è la cifra principale dell’orchestrazione verdiana, ha risposto assai bene e si merita un incondizionato applauso.

Cast di sapore scaligero, se ben 5 dei 10 interpreti vengono dalla citata produzione carseniana: torna infatti, dopo aver saltato il turno precedente (ci fu Alaimo) il protagonista, Ambrogio Maestri, ormai avviato a diventare sir Ambrose Falstaff, viste le centinaia e centinaia di calate nei panni (per lui sempre più stretti!) del vecchio John. Passano gli anni, ma lui, proprio come il personaggio, sembra non accorgersene: forse l’assuefazione lo porta casomai a gigioneggiare più del necessario, con parlati che talvolta si sostituiscono al declamato, ma in complesso la sua è una prestazione degna della sua fama.

Con lui tornano dal 2013 anche Carmen Giannattasio, Francesco Demuro, Carlo Bosi e Massimo Cavalletti, questi tre ultimi ormai ospiti fissi dei Falstaff scaligeri, avendo cantato anche nel 2015. La prima mi pare aver acquisito maturità e miglior controllo dell’emissione, soprattutto negli acuti, in passato piuttosto urlati. Bosi sembra inossidabile e il suo Cajus continua a convincere. Anche Cavalletti, dopo tanta esperienza nel ruolo, dà di Ford un’interpretazione più che accettabile, superando si slancio anche le salite impervie che la parte gli impone. Demuro si merita ampia sufficienza, come in passato, ma mi pare non faccia ancora quel salto di qualità che sarebbe auspicabile.

Per il resto, dignitose le prestazioni del... Pistola (Gabriele Sagona) e di Francesco Castoro (Bardolfo) che illustra i meriti dell’Accademia scaligera dalla quale proviene.

Yvonne Naef è una intrigante (in tutti i sensi) Quickly, e mette in mostra la sua voce ben tornita e sempre ben controllata. Non così Annalisa Stroppa (Meg) che tende ad urlacchiare o a... non farsi udire. Infine, Giulia Semenzato impersona con discreto profitto una Nannetta disinvolta e sbarazzina.

Il Coro di Casoni non manca a sua volta di distinguersi, chiamato nelle due circostanze in cui interviene, a contrappunti davvero... bestiali, ma resi al meglio.

In conclusione, una piacevole performance, che conferma la qualità dei complessi scaligeri, che paiono tirar fuori il meglio di sè proprio in occasione di appuntamenti difficili come questo.
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Della regia di Michieletto si conosceva ormai tutto, e non solo riguardo i contenuti della messinscena, ma anche riguardo i giudizi di pubblico e critica: il bello e il brutto insieme di queste co-produzioni, o riciclaggi che dir si voglia, in tempi di web, blog, youtube, dvd, streaming e diavolerie assortite, è che si va a teatro già prevenuti, in un senso o nell’altro, e viene così a mancare l’effetto-novità o sorpresa.

Liquido con rito abbreviato (direbbe un leguleio) la scelta del regista di rappresentare le vicende dell’opera come un sogno del protagonista: idea in sè vecchia come il cucco, ma che non per questo è da biasimare a-priori. In fin dei conti il Falstaff sveglio (quello originale di Boito-Verdi) è un inguaribile sognatore ad occhi aperti, quindi fin qui tutto ok. Però, attenzione, il sogno dovrebbe mostrare il contenuto del soggetto, non ciò che si sogna... il regista!

Sono invece personalmente assai scettico sulla pertinenza dell’accostamento, tutto extramusicale, quindi per definizione sospetto - in quanto prescinde dall’unica fonte attendibile, testo-partitura - fra la composizione dell’opera e le vicende legate alla costruzione di Casa-Verdi, dal quale accostamento il regista ha preso spunto per porre al centro del suo Konzept una riflessione sui temi della malinconia, della vecchiaia e della morte (parole sue, riportate anche sul programma di sala): temi che effettivamente emergono in modo chiaro dal suo allestimento, ambientato appunto nella milanese casa di ricovero per artisti, dove vediamo circolare spesso e volentieri anziani e malati. (Detto di passaggio, Georges Wilson mise in scena un Falstaff triste già nel 1982 a Parigi, quindi anche qui siamo al riscaldamento di vecchie minestre... al quale peraltro si applica lo stesso ragionamento fatto sopra per il sogno.)

Ora, cosa Verdi avesse in testa nessuno può saperlo, ma ciò che è inconfutabile è che nel testo di Boito e nella musica del Maestro (che, lo ripeto, dovrebbero essere i soli elementi su cui basare la messinscena) nulla si ritrova del Konzept di Michieletto (a parte forse un po’ di malinconia, che per definizione non può mai mancare in alcun soggetto, anche il più leggero). E sarà solo un caso se tutta l’opera – escluse fugacissime apparizioni del minore – è in modo maggiore? E se principia e termina nel solare DO maggiore?

Nel testo troviamo soltanto due accenni alla vecchiaia e alla morte: il primo (atto II) quando, incontrando Alice, Falstaff proclama che potrà morir contento, dopo un’ora d’amore con lei. Una specie di meglio un giorno da leone... francamente di nessuna particolare profondità (e infatti il regista ci passa sopra disinvoltamente). Il secondo (inizio atto III) quando il povero pancione, ancora inzuppato d’acqua, sembra rassegnato a farla finita con un mondo in declino. Qui Michieletto tira in ballo proprio Verdi in persona, quando Falstaff stacca dal muro un quadro con la famosa effigie del Maestro ottuagenario, e la cosa ci può anche stare ma, appunto, è un momento fugace di malinconia che subito il grassone impenitente supera con un bicchiere di vin brulè che lo fa tornare più arzillo, credulone e incosciente di prima!    

Per il resto, Falstaff pensa e si comporta come uno che crede (di certo non lo è, ma lo crede, o lo sogna) di essere ancora un gran dongiovanni (Io sono ancora una piacente estate di San Martino); che ancora ha in testa progetti per il futuro (Questo è il mio regno. Lo ingrandirò !) Si tratta appunto di sogni ad occhi aperti, che la realtà distrugge sistematicamente ed impietosamente (un po’ come succede anche al dapontiano DonGiovanni, in fatto di conquiste mancate...) ma che non sembrano portare Falstaff (così come il Don) a serie meditazioni per trarre insegnamenti dai casi della vita. E così, dopo la tragicomica esperienza nel cestone del bucato con bagno finale nel Tamigi, lui è prontissimo a dimenticare tutto, tanto da ringalluzzire subito di fronte alla prospettiva della nuova avventura notturna. E nemmeno l’umiliante sputtanamento sotto la quercia di Herne lo porterà a meditare su vecchiaia e morte, al contrario: quando le tre comari implorano Fallo pentito Domine! lui ribatte, in perfetta rima: Ma salvagli l’addomine! (puro humor boito-albionico, altro che meditazioni michielettiane sulla morte!) E che dire della sua reazione al beffardo Cavaliero di Quickly con un fantastico Reverenza!

Anzi, il vecchio John mostra d’esser il più giovane di tutti (gente dozzinale) quando si attribuisce il merito della loro arguzia. E alla fine lui si sentirà ancora talmente giovane da prenderla sul ridere, e chiudere l’opera aizzando tutti gli altri a quello strepitoso, ottimistico quanto irresponsabile Tutto nel mondo è burla! (un’esilarante e strepitosa parodia del wagneriano, seriosissimo e pedante Wahn, Wahn, überall Wahn di Sachs.)

Insomma, a me pare che Michieletto, per giustificare la sua impostazione di fondo, abbia surrettiziamente introdotto elementi estranei al soggetto del Falstaff, senza apportarvi particolare valore aggiunto, anzi privandolo (non del tutto, certo) della sua freschezza quasi innocente; in compenso, alcune trovate volte a caratterizzare l’aspetto onirico della sua concezione mi sono parse francamente eccessive, volgari e perniciose: le donne che prendono d’assalto Falstaff con moine di ogni tipo, le fate che restano in sottoveste, Nannetta che scopriamo ninfomane, il funerale con i protagonisti maschi trasformati in religiosi...

Invenzione già... inventata è anche la trovata di far comparire in scena personaggi che lì non dovrebbero stare, ma ai quali alludono o fanno riferimento i personaggi che in scena ci sono in forza del libretto: il presumibile intento didascalico che sottende questa idea viene solitamente annullato dalla confusione che si ingenera nello spettatore.  

Dopodichè: tanto di cappello alla professionalità e alla cura con cui lo spettacolo viene presentato, ma ahinoi si tratta di condizioni necessarie, ma mai da sole sufficienti a garantire l’eccellenza di un prodotto. 

Piermarini con parecchi vuoti in ogni settore (gallerie comprese) e pubblico che non ha mancato di manifestare apprezzamento per tutti, Maestri e... Maestro in primo luogo! 
       

17 ottobre, 2015

Il Falstaff di Carsen-Gatti alla Scala


A quasi tre anni di distanza torna alla Scala il Falstaff inscenato da Robert Carsen: ieri sera è andata in onda la seconda rappresentazione, in un Piermarini per la verità lontanissimo dal tutto esaurito.

Sull’impostazione registica di Carsen avevo già espresso più di un dubbio (insieme a doverosi apprezzamenti) ai tempi, e questa ripresa non poteva certo cambiare le carte in tavola: spettacolo godibile, a dispetto delle gratuite ma tutto sommato innocue idee del regista.

Sul fronte dei suoni, la bacchetta è passata dalla mano di Daniel Harding (che aveva ben meritato allora, qui l’audio) a quella di Daniele Gatti: il quale si trova evidentemente a suo agio con questo Verdi che, proprio mentre fa una specie di summa di tutta la musica dal barocco ai suoi tempi, sembra guardare verso il novecento, di cui il maestro milanese è indiscusso epigono. Così ne risulta una lettura molto analitica, rigorosa al limite della freddezza, spigolosa quanto mai, ma di grande impatto. L’Orchestra, disposta da Gatti in modo inusuale (legni e corni all’estrema sinistra) risponde bene in tutte le sezioni al gesto secco e preciso del Direttore.

Del (primo) cast del 2013 sono sopravvissuti 4 dei 10 personaggi: il Ford di Massimo Cavalletti, che in questo frattempo mi è sembrato… cresciuto, insomma una prestazione più che discreta. Poi encomiabile anche Carlo Bosi, un Dr.Cajus ancora molto efficace. Note meno liete dal Fenton di Francesco Demuro, che in questi due anni non mi pare abbia affinato le sue qualità. Idem dicasi per Laura Polverelli (Meg Page) che fatica a farsi udire nei larghi spazi del Piermarini.

I nuovi erano capitanati da Nicola Alaimo, lungamente acclamato alla fine, che direi essersi meritato ampiamente il successo, esibendo gran voce (qualche schiamazzo lo si perdona a tutti) unita ad efficacia interpretativa.       

Personalmente deluso da Eva Mei (Alice): acuti quasi sempre urlati e centri-bassi inudibili. Decisamente meglio la Nannetta di Eva Liebau, e ancor più la Quickly di Marie-Nicole Lemieux, che non ha fatto rimpiangere la Barcellona di allora.

Senza infamia e senza voto i due buzzurri Bardolfo e Pistola (al secolo Patrizio Saudelli e Giovanni Parodi).

Alla sua altezza il coro di Casoni (solo la fuga conclusiva gli vale l’ottimo). Successo calorosissimo e ripetute chiamate ed applausi per tutti indistintamente, con punte per Alaimo e la Lemieux.

21 gennaio, 2013

L’onesto Falstaff di Harding-Carsen alla Scala


Gradito ritorno di Falstaff alla Scala: una volta tanto (peccato che capiti, appunto, piuttosto di rado) uno spettacolo complessivamente di buon livello, accolto anche ieri (alla seconda) con favore dal pubblico (di un Piermarini peraltro non esaurito).   
Per non smentire una tradizione ormai consolidata, dopo quello ampiamente anticipato di Barbara Frittoli (che diserterà tutte le recite) ecco il forfait – annunciato in sala alle 19:55 – di Fabio Capitanucci, rimpiazzato da Massimo Cavalletti, originariamente scritturato per le sole recite del 2-6-8 febbraio. (Brutta cosa programmare le stagioni in pieno inverno, smile!)
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Falstaff è l’opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l’estremo sberleffo (la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell’intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l’intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Cantori e a Parsifal… In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo, che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale.

Ma tutto fatto in modo intelligente e… pertinente. Come nel caso della citazione dal Parsifal di quel Wagner che Verdi non aveva certo in simpatia, ma del quale aveva l’onestà intellettuale di riconoscere i meriti, e delle cui opere aveva una curiosità quasi morbosa, a dispetto delle critiche anche radicali cui le sottoponeva. Dunque, nel monologo di Falstaff all’inizio dell’Atto III, il protagonista, prefigurando la propria fine, pronuncia la famosa frase (certo una rodomontata, detta da un dongiovanni ormai pensionato e gabbato, invece che ambìto, dalle comari del luogo): Allor scomparirà la vera virilità dal mondo. Ebbene, Verdi come te la chiosa? Così:


Si tratta di una citazione quasi letterale dal second’atto del Parsifal: musica che colà dipinge la personalità di tale Klingsor, un (auto)castrato!

Daniel Harding ha fatto bene il suo compito, esagerando a mio avviso in qualche fracasso di troppo, che ha talvolta coperto le voci. Rispetto alla prima (ascoltata in radio) ho avuto l’impressione che sia migliorato nell’insieme, rimediando ad alcune eccessive (per me) lentezze. Con lui l’orchestra ha mostrato ancora una volta di avere un buon feeling, a partire dal pacchetto degli strumentini che abbiamo lodevolmente visto in buca già alle 19:30 per… scaldare i motori.

Ambrogio Maestri ha proprio il phisique-du-role del protagonista, non c’è che dire. Peccato che la voce non sempre riesca a passare come si deve, quando la partitura non prevede esibizioni stentoree, ma canto a mezza voce o sussurrato. Comunque una prestazione più che encomiabile.    

A Massimo Cavalletti (Ford) va riconosciuta l’attenuante della chiamata all’ultimo momento: alla quale lui ha risposto dignitosamente, peraltro forse più sul piano scenico che non su quello vocale, in specie nelle impervie altezze in cui Verdi impegna il secondo baritono. 

Carlo Bosi è un discreto Dottor Cajus, cui dà la sua voce squillante e penetrante, oltre che le sue qualità di attore.

A Francesco Demuro (Fenton) mi sento di dare la sufficienza, non molto di più: la voce è bella di timbro e certamente adatta al ruolo, ma poco udibile in basso e un tantino sforzata negli acuti.    

Riccardo Botta (Bardolfo) e Alessandro Guerzoni (Pistola) se la cavano più che bene, dando il loro valido contributo ai diversi concertati in cui sono coinvolti.

Vengo ora al gineceo:

Daniela Barcellona ha fra le quattro femmine la parte forse più impegnativa (Quickly) soprattutto nell’estensione verso il basso. A me è personalmente piaciuta in questo suo avvicinamento a Verdi (che dovrebbe culminare più avanti, a Torino, in Eboli!)  
        
Carmen Giannattasio, assurta fin dalla vigilia al rango di primo cast (vista la defezione cronica di Frittoli) è un’Alice che mostra qualche pecca negli acuti tendenti all’urlato, comunque compensata da timbro e sonorità gradevoli.  

Laura Polverelli (Meg) si sente pochino, coperta spesso dalle altre voci e qualche volta da… Harding (smile!) Non mi sentirei però di darle l’insufficienza.

Piacevole la Nannetta di Irina Lungu, e brava – al contrario dell’innamorato - proprio nella parte alta della tessitura impostale da Verdi.

Il coro di Casoni ha il suo impegno gravoso soprattutto nel finale, con quella strepitosa e difficile fuga che è chiamato a riempire di suono, supportando i solisti. Direi che ha assolto puntualmente il suo compito.

Per tutti, alla fine, applausi convinti, anche se non propriamente da stadio, ma mi pare giusto così.  
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Che dire dell’allestimento?

La premessa fondamentale da farsi è che la sua stessa natura - di commedia brillante con qualche retrogusto amarognolo – garantisce all’opera di Boito-Verdi la totale inossidabilità da ogni possibile sofisticazione. Per dire, mentre rivestire un Rolex con plastica colorata e imbrattargli il quadrante di schizzi di vernice farebbe (e fa) rivoltare, fare la stessa operazione con uno Swatch potrebbe addirittura aumentarne l’appeal!

Ecco perché la regìa di Robert Carsen questa volta non dà luogo a scandali, né a contestazioni particolari (e pure al Covent Garden lo scorso anno fu accolta senza… traumi). Certo non tutte le trovate del genio canadese sono impeccabili: quando si è costretti, per giustificare la propria parcella, a inventare sempre qualcosa di nuovo e di diverso (diverso anche e soprattutto dall’originale…) si rischia immancabilmente di andare oltre le righe.

Il regista presenta alcune sue considerazioni sull’opera nel programma di sala. Insieme a cognizioni che anticipano la scoperta dell’acqua calda (smile!) cerca anche di spiegare i razionali (!) che stanno alla base del suo allestimento. Fra tutti, una chicca, roba proprio da edizione critica. Scrive Carsen, testualmente: Il libretto di Falstaff, se si legge con attenzione, ha numerosi riferimenti alla passione tipicamente inglese della caccia. Vi si accenna anche a donne che vanno a caccia, a differenza di quanto avviene in altri paesi. Nel nostro spettacolo abbiamo posto l’accento anche su questo aspetto. Evidentemente il regista dev’essere in possesso di un libretto in versione originale, mentre noi – teatro e cantanti inclusi – ne abbiamo uno chiaramente adulterato e apocrifo, dove non c’è la minima traccia di caccia, cavalli, volpi, hounds e affini (salvo la caccia a Falstaff in casa Ford, smile!) Caccia che invece il regista usa a sostegno della sua ideona di mettere in scena un cavallo vero al quale Falstaff propina (direi senza molto successo) il suo amaro filosofeggiare.

Poi, l’ambientazione. Carsen la sposta in avanti di cinque secoli e mezzo rispetto alla vicenda narrata da Shakespeare (e ripresa da Boito) e di tre secoli e mezzo dall’epoca in cui il genio di Stratford  la mise su carta. Rispetto a quest’ultimo scenario, si passa solo da Elisabetta I (che pare avesse commissionato l’opera, anche a costo di far… resuscitare Falstaff) a Elisabetta II! Per la verità in periodi abbastanza diversi – non dico diametralmente opposti – della storia albionica: con la prima Elisabetta (più ancora con Enrico IV) l’Impero era proprio agli albori; con la seconda l’Impero era gli sgoccioli e soprattutto aveva appena visto la gloriosa e altera Pound sterling venir soppiantata da quel volgare Dollar dei cugini d’oltreoceano, eredi della feccia dei derelitti degli slum di Londra, deportati secoli prima nel Nuovo mondo a far da schiavi ai capitalisti di Sua Maestà… (Forse Carsen si è accorto di ciò, e quindi per rimediare ha travestito Ford da miliardario texano.) Peraltro, volendo a tutti i costi traslocare Falstaff in uno scenario a noi familiare, il posto più adatto – oggi - sarebbe Shanghai

Ma dato che in tutte le epoche e sotto tutti i cieli c’è sempre qualche nobilastro decaduto (Falstaff) e qualche intraprendente ed emergente sfruttatore di forza-lavoro (Ford: un nome, un programma, a proposito di dollari, smile!) ecco che anche l’ambientazione di Carsen, pur concettualmente strampalata, non fa poi eccessivi danni.

A cominciare dalla Garter Inn trasformata in un misto di hotel e club, dove nella seconda parte dell’Atto I si ritrovano le comari a colazione (servita da Fenton, che immagino ringrazierà eternamente il regista per averlo promosso da gentleman a headwaiter!) e dove (inizio dell’atto secondo) il nobile, pur decaduto, Falstaff, riceve nella sala da fumo (quindi per soli uomini) una donna, per di più una serva, la badante, diremmo oggi, del Docteur Cajus (in Shakespeare perlomeno) che risponde al nome di Quickly…

E che dire della dimora di Ford che – a giudicare dalla cucina - pare quella di un rappresentante della lower-class, altro che borghesia emergente… e dove il presunto e illuso amante arriva con i minuti contati per la sua sveltina e che ti fa? dimentica il sesso per mettersi a tavola a divorare un tacchino!

E infine: la presenza, in apertura di terz’atto, della comparsa equina (a proposito, la famosa traccia scoperta da Carsen sarà mica l’auto-definizione di Falstaff audace e destro cavaliere?) col ricordato riferimento alla caccia (incluso l’abbigliamento di Quickly) è cosa simpatica e cervellotica allo stesso tempo. Per dire, allora anche una torma di hooligans ubriachi – parte integrante dell’attuale panorama albionico - avrebbe potuto trovare legittima cittadinanza in questo allestimento.   

Sul fronte della recitazione, diamo a Carsen ciò che gli spetta, e facciamo anche i complimenti a tutto il cast, coro e… cavallo inclusi.

Alla fine mi sentirei di dire che la regìa esageri un filino, portando la gustosa commedia di Boito-Verdi ai confini dell’avanspettacolo. Ma in complesso: ci ha fatto comunque divertire, proprio come voleva Verdi. E ciò, per stavolta, basta e avanza per farcela digerire (smile!) 

14 dicembre, 2011

Un “Abnorme Falstaff” a Verona


Ieri sera inaugurazione della stagione 11-12 del Filarmonico di Verona con Falstaff. Tre ore e quindici minuti sono effettivamente una durata abnorme per la rappresentazione di un'opera che non raggiunge le due di pura musica: oltre ai due intervalli di 20 minuti abbondanti, abbiamo anche avuto tre attese (a luci spente in sala) per i cambi di scena a vista, effettuati con esasperante quanto studiata lentezza dai ragazzi della squadra tecnica (anche loro usciti alla fine per il meritato – a questo punto – applauso). E dire che Falstaff è un'opera così travolgente che si potrebbe addirittura rappresentare tutta d'un fiato, senza per questo chieder troppo al pubblico (salvo la rinuncia a non indispensabili passerelle nel foyer… smile!) ma almeno primo e secondo atto non si potevano tranquillamente accorpare?

Il piccolo Filarmonico non è nemmeno esaurito (anzi c'è anche chi ha approfittato delle pause per squagliarsela anzitempo) e il pubblico mi è parso elegante sì, ma sufficientemente moderato nell'ostentazione di lusso e ricchezza (forse perché di questi tempi è meglio non dare troppo nell'occhio, onde evitare che a qualcuno vengano tentazioni… patrimoniali, smile!) Età media da pensionati (ma su questi la Fornero non avrebbe motivi per piangere, ri-smile!) a riprova che il teatro lirico non sembra convincere i giovani, ahinoi, pur con prezzi non proibitivi. Chissà se la situazione cambierà in meglio quando anche da queste parti, invece del decrepito Euro, circolerà il Padulo (smile!)

Falstaff è l'opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l'estremo sberleffo (meglio… la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell'intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l'intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Cantori e a Parsifal, giusto per citare quasi a caso… In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo, che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale.

Nella sua monumentale biografia di Gustav Mahler, H.-L. de La Grange ci informa di quanta autentica adorazione avesse il maestro boemo per Falstaff, di cui fu artefice di due storiche prime nel mondo tedesco: nel gennaio del 1894 ad Amburgo, a poco meno di un anno dall'esordio scaligero dell'opera, e 10 anni dopo alla Hofoper. E quanta meticolosità e scrupolo mettesse nell'interpretazione della partitura (la cui strumentazione considerava addirittura rivoluzionaria e da cui prese spunti per sè) è testimoniato da chi assistette alle prove per le rappresentazioni amburghesi. Nel primo atto, le quattro comari, alla lettura delle missive del grasso-gradasso (dopo che Alice ha cantato i mirabili versi e il viso tuo su me risplenderà / come una stella sull'immensità) si fanno una bella sghignazzata, sulla triade di MI maggiore, ben 16 Ah!, su altrettante crome (tranne l'ultimo, una semiminima). Il tutto verrà ripetuto pari-pari in finale d'atto:

Ecco, Mahler, per dare a queste risatine un effetto più naturale, chiedeva alle cantanti di interporre due impercettibili pause dopo il secondo e il terzo gruppo di 4 Ah!

Questa premessa serviva ad introdurre il discorso su Daniele Rustioni… Che forse non sa di Mahler, o magari lo sa, ma preferisce restare fedele alla lettera del Guiseppe (così in teutonia, smile!) Lui è ormai più che una promessa, ha solo 28 anni ma sta rapidamente scalando posizioni in campo internazionale. Evidentemente la consuetudine con maestri di gran talento (Pappano e Noseda in primo luogo) gli ha permesso di raggiungere rapidamente una grande maturità, che anche ieri è emersa in modo evidente. Non solo il gesto e la capacità di tenere in pugno orchestra e palco fanno di questo ragazzo un talento naturale, ma la qualità del suono e la chiarezza dell'interpretazione sono lì a testimoniare del suo lavoro in profondità, che non può non essere alla base del risultato. Insomma, una bella realtà italiana, che già oggi non sfigura di fronte ad altri giovani stranieri, ormai arrivati.

Al centro della scena è Alberto Mastromarino, sul cui aspetto fisico si direbbe che Falstaff sia stato pensato e modellato(!) E lui il suo fisico ce lo mette coraggiosamente in mostra, allorquando rimane in scena coperto solo da mutandoni, all'inizio dell'atto conclusivo, dopo il bagno nel canale del Tamigi. Quando si dice immedesimazione nel ruolo! Ma per fortuna fa la sua bella figura anche la voce, potente nelle espressioni più truci, ma anche ricca delle sfumature che caratterizzano il personaggio. Per lui gran successo.

Ma tutta la compagnia di canto pare bene assortita, a cominciare da Vittorio Vitelli, l'altro baritono che impersona Ford-Fontana (voce forse meno penetrante di quella di Mastromarino) e che sé l'è cavata bene nella sua aria di sogno-realtà. Saverio Fiore ha dignitosamente tenuto il ruolo di Cajus, mentre Francesco Demuro mi è parso un Fenton discreto, anche se la sua vocina a volte ha stentato a passare adeguatamente. Buoni anche Nicola Pamio e il gigantesco Ziyan Atfeh (Bardolfo e Pistola).

Passando al gineceo… sugli scudi l'efficace macchietta di Quickly, impersonata fantasticamente nella parte attoriale e assai efficacemente in quella vocale da Elisabetta Fiorillo. Brava anche Manuela Custer (Meg) e più che discrete l'Alice di Virginia Tola e la Nannetta di Serena Gamberoni.

Completano il quadro e meritano un plauso il Coro di Armando Tasso e il Corpo di ballo di Maria Grazia Garofoli, che hanno reso il finale in modo davvero efficace.

Luca Guadagnino è un giovane regista cinematografico che si cimenta ora con il teatro musicale. Questa sua proposta resta saldamente ancorata alla tradizione, senza velleità di inventare chissà quali significati astrusi di un'opera solare e scanzonata come questa. Molto buona la gestione dei movimenti dei personaggi. Forse l'unico tocco di originalità è la scena che Francesca di Mottola ci propone per la casa di Ford (seconda parte del primo atto): costruzioni moresche, una palma e una vela sullo sfondo: L'Italiana in Algeri? Forse un omaggio all'opera buffa per eccellenza? (La palma per la verità torna poi allusivamente anche nell'atto conclusivo.)

Tirando le somme, uno spettacolo più che degno, che conferma come in provincia (i veronesi non se la prendano…) si facciano ancora cose egregie.
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