Come
è già accaduto in passate stagioni, la Scala ospita, come seconda opera del
cartellone, l’ultimo lascito
di Verdi.
A proposito di allestimenti che fanno storia, al posto del più recente
(Michieletto-2017, creato nel 2013 a Salzburg, che evidentemente ha fatto solo…
cronaca) ci viene offerto (ripreso da Marina Bianchi) quello, davvero
storico, di Giorgio Strehler, che vide la
luce a SantAmbrogio del 1980 e fu poi ripreso già altre sei volte:
82-93-95-97-01-04.
Falstaff è l’opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l’estremo sberleffo (meglio… la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell’intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l’intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta e a sonate di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Meistersinger e a Parsifal, giusto per citare quasi a caso…
In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale. Ma tutto fatto in modo intelligente e… pertinente.
Come nel caso della citazione dal Parsifal di quel Wagner che Verdi non aveva certo in grande simpatia, ma del quale aveva l’onestà intellettuale di riconoscere i meriti, e delle cui opere aveva una curiosità quasi morbosa (si procurò gli spartiti delle più importanti) a dispetto delle critiche anche radicali cui le sottoponeva. Dunque, nel monologo di Falstaff all’inizio dell’Atto III, il protagonista, prefigurando la propria fine, pronuncia la famosa frase (certo una rodomontata, in bocca ad un dongiovanni ormai pensionato e gabbato, invece che ambìto, dalle comari del luogo): Allor scomparirà la vera virilità dal mondo. Ebbene, Verdi come te la chiosa? Così, portandola sulla dominante:
Si tratta di una citazione quasi letterale dal second’atto: musica che colà dipinge la personalità di tale Klingsor, guarda caso un… (auto)castrato!
Il carattere
letteralmente rivoluzionario fa di questa musica un unicum nella storia del teatro musicale. E di conseguenza l’opera
richiede, anzi pretende, la presenza di un concertatore coi fiocchi per essere
resa al meglio.
Al proposito, ecco con quale rispetto e venerazione uno dei più grandi direttori di tutti i tempi affrontava la concertazione dell’opera. Nella sua monumentale biografia di Gustav Mahler, H.L. de La Grange ci informa di quanta autentica adorazione avesse il maestro boemo per Falstaff, di cui fu artefice di due storiche prime nel mondo tedesco: nel gennaio del 1894 ad Amburgo, a poco meno di un anno dall’esordio scaligero dell’opera, e 10 anni più tardi alla Hofoper.
E quanta certosina meticolosità e scrupolo mettesse nell’interpretazione della partitura (la cui strumentazione considerava per l’appunto rivoluzionaria e da cui ricavò abbondanti spunti per sè) è testimoniato da chi assistette alle prove in vista delle rappresentazioni amburghesi. Nel primo atto, le quattro comari, alla lettura delle missive del grasso-gradasso (dopo che Alice ha cantato i mirabili versi e il viso tuo su me risplenderà / come una stella sull'immensità) si fanno una bella sghignazzata, precipitando lungo la triade di MI maggiore, di ben 16 Ah!, su altrettante crome (tranne l’ultimo, una semiminima). Il tutto verrà ripetuto pari-pari in finale d’atto:
Protagonista nel title-role l’inossidabile Ambrogio Maestri, ormai da tempo uno degli interpreti di riferimento del panciuto e tronfio personaggio windsoriano. Che sarà affiancato da un cast che a sua volta promette assai bene.
Ci sono quindi le premesse per un’altra bella serata di musica!
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