XIV

da prevosto a leone
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21 dicembre, 2011

Ancora sul Don Giovanni scaligero


Ieri sera quinta rappresentazione dell'opera che ha inaugurato la stagione della Scala, tornata – sul fronte musicale - in amministrazione controllata, dopo anni di allegra anarchia. Chissà se Barenboim, al momento di proporre (o decidere) l'apertura della stagione 11-12, già aveva in cuor suo maturato l'intendimento di accettare l'investitura formale a Direttore musicale del teatro… fatto sta che 4 delle 11 rappresentazioni del Don Giovanni, quelle di gennaio, saranno dirette da un ex-clarinettista dei Berliner, smile!

Il Daniel, che già non aveva digerito bene quel troppo lento piovutogli addosso a SantAmbrogio, ha se possibile rincarato la dose, allascando ancor più i tempi, in certi momenti fino a livelli insopportabili. Però il pubblico di ieri non ha fatto storie, buon per lui. L'orchestra non ha demeritato, ma se il Kapellmeister, alla fine dei due atti, si ferma per due minuti a discutere con la spalla come farebbe dopo o durante una prova… non mi pare un buon segno.

Quasi all'ultimo momento (molti lo scoprono dall'annuncio dei telefonini) si viene a sapere che la bella e famosa Anna non ci sarà, colpita da un'influenza che deve avere uno strano decorso pianificato: a letto il 20, a teatro il 23, di nuovo a letto il 28! Quindi due dei principali protagonisti del primo cast mancano (Mattei però era programmaticamente a riposo). Al loro posto Tamar Iveri e Ildebrando D'Arcangelo.

La prima non è la Netrebko ma, almeno rispetto a quanto udito in TV il 7, non l'ha fatta poi troppo rimpiangere (buona notizia per lei, o grama per la super-star?) Voce di buona profondità e gradevole timbro. D'Arcangelo mi è abbastanza piaciuto, peccato che la sua voce – assai cavernosa - sia molto più adatta al Commendatore che al Don (smile!) Anche lui, sempre rispetto alla ripresa TV, non mi ha fatto più di tanto rimpiangere Mattei. Per entrambi discreto successo e un paio di timidi applausi a scena aperta (in tutta la serata questi sono stati erogati con il contagocce e a volume ridottissimo).

Bryn Terfel si conferma (ai miei occhi-orecchi) un Leporello molto volgare. Il che è assai appropriato al personaggio, sul piano attoriale, un filino meno su quello del canto!

Barbara Frittoli è stata la trionfatrice della serata, anche se la voce, nella banda alta, ha più di un problema, soprattutto nei passaggi veloci, meglio sulle note tenute.

Di Giuseppe Filianoti mi vien da dire: senza infamia e senza lode. Rispetto al 7 in TV mi è parso meglio in forma e meno in difficoltà.

Anche Anna Prohaska deve aver fatto progressi: ieri non mi è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico alla fine l'ha accolta con calore.

Invece Štefan Kocán mi ha lasciato ancora perplesso, una prestazione piuttosto incolore, voce sgradevole e poco penetrante.

Kwangchul Youn mi era parso meglio in TV, ieri ha lasciato un pochino a desiderare, persino con qualche problemino di intonazione, m'è sembrato.

In definitiva, una serata che ha galleggiato sul livello di sufficienza, che per il teatro più importante d'Italia non è un gran merito, diciamolo.
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Ma prima che sul fronte musicale, questo DonGiovanni ha destato – e non si sono ancora sopite – un sacco di polemiche e diatribe sull'allestimento di Carsen (che per la verità a SantAmbrogio è stato buato sì, ma neanche troppo smaccatamente). Ormai ci manca solo che si indicano concorsi a premi (primo premio: una sua foto con dedica) per chi propone la migliore decriptazione delle intenzioni del regista, spiegando agli ingenui, nel modo più convincente, il significato dello specchio ondulante, o dell'uso delle quinte scaligere, o del colore rosso, o delle passeggiate di personaggi in platea, o dei continui cambi d'abito che sono disseminati in ogni scena. Chi sperasse di trovare qualche interessante indizio nelle Note di regìa - ben quattro pagine del programma di sala – rimarrebbe purtroppo deluso. Poiché lì si fa riferimento in modo particolare, per non dire esclusivo, a come interpretare la personalità dei diversi protagonisti (che è effettivamente uno degli aspetti principali di una messinscena) : così vien detto che DonnaAnna è sicuramente (e non solo probabilmente) una donna reprensibile e irresistibilmente attirata dal Don (però Carsen ammette che gli risulta difficile capire perché poi lo smascheri pubblicamente e racconti a DonOttavio i fatti di quella notte). Il quale DonOttavio, non già un fustigatore di costumi e paladino dell'onore e della rettitudine, sarebbe in realtà, secondo Carsen, un epigono un po' frustrato, e segreto ammiratore del Don. Di DonnaElvira leggiamo che, se il Don si macchia di qualche eccesso, lei… del doppio! Quanto al protagonista, sarebbe un tipo che non riconosce legge né religione, pronto a sfidare qualunque potere, persino la morte (che lui invita nientemeno che a cena) ma soprattutto un esistenzialista che non merita per questo l'inferno.

Insomma, più o meno ciò che Carsen ci fa vedere. Ma si sa che oggi la rappresentazione di un'opera – soprattutto se è un famosissimo capolavoro – mica può limitarsi a mettere in scena ciò che si legge su libretto e partitura: effettivamente i testi son quelli e le note anche, ma il gran divertimento del pubblico mica viene da lì (roba vecchia, vista e rivista in tutte le salse) no, viene dalle domande che la messinscena suscita nella testa dello spettatore, che sarà tanto più soddisfatto e gratificato, quanto più dovrà pensare - durante lo spettacolo e poi per interi giorni e notti insonni - al significato profondo che il regista ha magicamente saputo cavar fuori da quella storia trita e ritrita.

Ecco quindi che Carsen ci stupisce con trovate quali lo specchio gigante, i protagonisti che si aggirano fra il pubblico, ed entrano o escono dalla scena passando da platea e palchi, invece che dalle quinte, e una serie infinita di… quinte finte che paiono riprodursi per partenogenesi. E subito noi spettatori cominciamo a pensare, pensare, pensare… a problematiche e concetti legati ai rapporti fra realtà e finzione (anzi, fra realtà reale e virtuale!) fra teatro e società, fra artista e pubblico. E purtroppo nelle Note di regìa non troviamo suggerimento alcuno che ci guidi, chè il regista – un poco sadicamente - non vuol privarci del gusto e del bello della ricerca della spiegazione più centrata dei suoi messaggi subliminali. Peccato che, tutti impegnati a pensare, magari ci lasciamo sfuggire la bellezza di qualche passaggio musicale di un tal Mozart (o al contrario, scambiamo per canto e suono celestiali anche le stonature più macroscopiche di qualche cantante e i biascicamenti dell'orchestra)… pazienza, tanto siamo venuti a teatro per fare esercizi di pensiero filosofico, mica per goderci un'opera immortale!

Personalmente dichiaro il mio completo disinteresse per questo secondo piano di lettura delle opere, che trovo non solo estraneo alle finalità del teatro musicale, ma spesso addirittura deleterio, in quanto finisce per adulterarne e contraffarne i capolavori.

Torniamo ai personaggi di Mozart e DaPonte. Che da duecento anni ci si accapigli sulla figura di DonnaAnna (sgualdrina di buona famiglia o integerrima figlia di hidalgo) è una delle prove della genialità del librettista (ma anche del compositore, che ne perfezionò il testo). Massimo Mila, nelle sue lezioni sull'opera, raccolte in preziosissimo libricino, ci dà conto delle due diverse scuole di pensiero: quella colpevolista, che fa capo a E.T.A.Hoffmann, e quella innocentista, che ha il suo paladino in Hermann Abert. Mila sembra tiepidamente propendere per la tesi colpevolista, ma non è questo il punto. Ciò che lascia preoccupati è invece la conclusione che lui paventa, cioè che inevitabilmente il regista sia portato a fare una scelta secca fra le due ipotesi, e quindi ci presenti in modo chiaro e netto una delle due possibili DonnaAnna (cosa che puntualmente fa Carsen, colpevolista convinto, e per nulla innovativo nella sua scelta, peraltro).

Ecco, credo personalmente che questa sia la più grande sciocchezza che un regista possa fare (qualunque delle due versioni ci presenti). In realtà ciò che dovrebbe arrivare allo spettatore (secondo DaPonte-Mozart, attenzione, basta leggere il libretto e ascoltare la musica!) e permanervi nella mente, è precisamente il dubbio sulla vera natura della donna, poiché questo è uno degli aspetti che fanno dell'opera un capolavoro. È ancora Mila a concludere mirabilmente sul punto: (…) pensare che DonnaAnna sia stata in qualche modo bruciata dalla fiamma erotica di DonGiovanni (…) non è proibito: la musica lo sopporta, e certe situazioni del dramma sembrano quasi suggerirlo: la complessità del personaggio ha tutto da guadagnarci. Chiaro, Carsen? Allo spettatore dovrebbe arrivare la complessità del personaggio, non la sua brutale semplificazione!

Come è stato giustamente scritto, mentre Le Nozze di Figaro è un'opera solare, trasparente, dove tutto – oltre ai sentimenti, anche le burle, le trappole, le trame, i travestimenti - viene sciorinato al pubblico dalla A alla Z e dove allo spettatore non resta che pregustare il come andrà a finire, godendosi quella mirabile scena degli equivoci che è il finale dell'opera, invece il DonGiovanni è un'opera dove tutto è avvolto nell'incertezza e nella nebbia, dove ogni vicenda presenta aspetti equivoci e mille diverse possibili interpretazioni, e dove quindi anche i personaggi principali – che di quelle vicende indecifrabili sono protagonisti – ne escono con una caratterizzazione non univoca, o ambivalente, a sua volta indecifrabile. E questo - di lasciare lo spettatore nel dubbio, se non addirittura nell'ansia di quali siano la verità vera e la realtà reale – è ancora una volta il più gran pregio dell'opera (…sublimemente incompiuta, come ebbe a dire Gavazzeni) che si perde totalmente quando il Carsen di passaggio pretende di presentarci le sue personali certezze. (Analogamente al finale indecifrabile del Così, che purtroppo troppi registi che si reputano geni si ostinano a decifrare, privandolo di tutta la sua straordinaria carica di ambivalenza.)

Questo discorso non vale solo per DonnaAnna, ma principalmente per lo stesso protagonista. Nel tempo scenico dell'opera (comunque lo si calcoli, ore o giorni o settimane) il Don ha o prospetta rapporti, diciamo così, orientati alla conquista, o potenzialmente sfocianti in conoscenza biblica, con sei donne. Questo se si escludono le ben 10 (in lettere: una decina) di femmine che il Don preannuncia a Leporello per la messa in lista all'indomani (Ah! la mia lista doman mattina d'una decina devi aumentar) ma di cui null'altro veniamo a sapere. Per il momento escludiamo anche DonnaElvira, di cui il Don è diventato apparentemente preda, da predatore; negli altri cinque casi l'esito degli approcci del protagonista resta – per precisa volontà di DaPonte-Mozart – avvolto nella più totale incertezza. Si è già detto della vicenda riguardante DonnaAnna, di cui ci viene presentato soltanto l'epilogo, che si presta ad interpretazioni addirittura antipodiche. Poi abbiamo una misteriosa dama della quale il Don parla a Leporello nella quarta scena: Sappi ch'io sono innamorato (sic!) d'una bella dama; e son certo che m'ama. La vidi, le parlai; meco al casino questa notte verrà... Domanda: qualcuno sa come andò a finire? Nessuno, nemmeno Leporello e meno ancora DaPonte! Vediamo che accade con Zerlina: il Don la approccia per ben tre volte: dapprima pare aver facilmente partita vinta, dato che la ragazza – per leggerezza, vanità, o perché ben conscia della sopravvivenza dello jus primae noctis – si lascia facilmente trascinare verso il casinetto. Ma arriva DonnaElvira a rompere le uova nel paniere. Nel secondo caso il Don ha sottomano la ragazza nel giardino, ma scopre nei pressi Masetto, a cui la deve riconsegnare. Durante il ballo finalmente il Don prende Zerlina e se la porta via in qualche stanza, chiudendo a chiave! (come deduciamo dal fatto che gli altri dovranno abbattere la porta). Che succede là dentro? Possiamo fare mille ipotesi, una più gratuita dell'altra. In quei pochi (ma solo per i tempi musicali) istanti prima che la porta venga sfondata, che è accaduto? Abbiamo sentito Zerlina urlare, poi la vediamo fuggire (vestita? nuda? o in sottoveste, come ce la mostra Carsen?)… insomma siamo di fronte ad una scena non poi troppo diversa dalla prima (protagonista DonnaAnna): come la mettiamo? Ci sono invece altre due donne che non si vedono, non parlano e menchemeno cantano. La prima è la cameriera di DonnaElvira: dopo che ha sistemato Masetto per le feste, il Don scompare per ricomparire solo più tardi al… cimitero. Che ha fatto nel frattempo? La cameriera è scesa giù per soddisfare le di lui smanie (come sostiene Carsen, mostrandocela tutta nuda al fianco del Don) oppure lui è salito da lei? Oppure… oppure? Insomma, il Don ha consumato o no? Mai lo sapremo e mai lo dobbiamo sapere, questo è ciò che gli autori hanno deciso. Proprio nel cimitero il Don racconta gli ultimi avvenimenti a Leporello: non fa alcun cenno alla cameriera (ma come, Carsen: non dovrebbe subito notificarne l'avvenuta conquista al servo-contabile?) per conquistare la quale aveva pur messo in atto un'operazione di commando in piena regola, con il pesante coinvolgimento del servo medesimo e poi di tutti gli altri personaggi. Invece il Don racconta di una ragazza incontrata per strada che addirittura gli è saltata al collo, avendolo scambiato (dagli abiti) per Leporello. Lui (il Don) ci ha provato, lo afferma lui stesso, ma con quale esito? La ragazza ha chiamato gente e lui è scappato a nascondersi nel cimitero. Anche qui: consumazione o andata-in-bianco?

Per farla breve, nel tempo scenico non abbiamo evidenza certa (5 su 5) che il Don abbia raggiunto il suo obiettivo (cosa di cui pare invece certissimo – beato lui - Carsen, come minimo in 2 dei 5 casi). Nel sesto caso (DonnaElvira) il protagonista addirittura le inventa tutte per liberarsene, quando non gli sarebbe difficile approfittare della situazione per una… replica (ma Leporello che farebbe? aggiungerebbe una tacca, o mezza, o niente? smile!) Ma allora, attenzione, non è che il Don è un tale che parla e parla, ma solo millantando? E le 2065 prede poste in lista dal suo biografo, non saranno per caso tutte vanterie e millanterie anche quelle? Ohibò, vuoi vedere che DonGiovanni Tenorio è una checca? O come minimo un impotente? (Anche questa non me la sto inventando io, e qualcuno l'ha già anche messa in scena). E la cui apparente fame insaziabile di femmina nasconde l'ossessione e il senso di colpa per questa sua diversità? E quindi: l'atteggiamento degli altri personaggi nei suoi confronti non rappresenterebbe per caso l'ipocrita condanna di tutti i diversi – peccatori per definizione - da parte della società benpensante? Illazioni legittime, ma ancora una volta prive di supporti di evidenza, e costruirci sopra una messa-in-scena equivale a distruggere il capolavoro originale. E allora domandiamoci finalmente: qual è o quale dovrebbe essere il compito di una regìa seria ed efficace? Presentarci il prodotto della volontà e della vision degli autori, o la gratuita dietrologia del regista? Personalmente non ho dubbi sulla risposta.

A proposito di regista: si potrebbe immaginare che il Don di Carsen sia il regista (lo stesso Carsen, per caso?) dello spettacolo (teatro-nel-teatro) che ci viene presentato. E proprio ciò che vediamo nel secondo atto (il Don seduto con la sua sgualdrinella nuda fuori dal palcoscenico, ad osservare - e dirigere, e applaudire - ciò che gli altri personaggi recitano sulla scena) potrebbe rendere plausibile questa ipotesi. Che sembrerebbe confortata dallo stesso Carsen, nelle sue Note di regìa, dove scrive che il Don è uno (…) veloce di mente, che controlla tutti, precede tutti, che è sempre davanti a tutti. Tutto, insomma, gli gira attorno. Su quest'ultimo punto, come non concordare? Che tutti i personaggi siano contagiati dal Don è un fatto che la musica, più ancora che il libretto, ci chiarisce in modo inequivocabile, laddove i temi – e ritmi e stilemi musicali - di tutti i personaggi sono in qualche modo debitori di quelli del Don (ricordo al proposito un vecchio quanto fulminante saggio di Roman Vlad, pubblicato quasi 25 anni orsono sulla da tempo defunta Musica&Dossier, dove l'argomento veniva sviscerato in modo mirabile). Del resto già Fedele D'Amico ci scrisse cose acutissime: In tutti scorre qualcosa del sangue di DonGiovanni: anche se ognuno lo assimila ed elabora in senso diverso e, al limite, opposto. Qui è l'arcano supremo di quest'opera (…) di qui il suo fascino unico. Ma il Don come regista? Credo che questo sia un clamoroso fraintendimento della sua personalità: che non è quella del manager (colui che comanda e impone comportamenti ai suoi sottoposti, obbedienti per contratto) ma quella del leader (colui che trascina con il comportamento suo i suoi pari, provocando in loro emulazione o rifiuto).

Altro tasto dolente, il finale. Anzi, i due finali di Mozart-DaPonte. Nel primo abbiamo il confronto drammatico fra il mito - o la quintessenza, o l'archétipo - della dissolutezza, del libertinaggio, del rifiuto di ogni regola, e un altro mito - o quintessenza, o archétipo – dell'irreprensibilità, del rigore morale e del rispetto della legge. Il Don soccombe, ma è davvero condannato? Giustizia è fatta? Il dissoluto punito? Domanda: perché allora il cupo, infernale RE minore che caratterizza l'intera scena si trasforma, precisamente nelle ultime tre battute, nell'accordo perfetto di RE maggiore? E quella tonalità vuole indicarci il DNA del Don, o piuttosto la raggiunta pace della società, dopo che il virus che l'aveva contagiata è stato finalmente neutralizzato? Domanda che deve restare senza risposta, o meglio: a cui ciascuno di noi può dare la risposta che crede, ma non deve essere certo il regista a proporla esplicitamente, altrimenti toglie allo spettatore tutto il sapore di questa mirabile ambiguità. Nel secondo finale abbiamo i sei sopravvissuti che presentano la morale della favola. Ma che fine fanno, senza il Don? Monasteri, ritiri spirituali, prosaica vita coniugale e ricerca di un nuovo padrone da servire: è il trionfo del bene e della giustizia, o non è questo, forse, l'inferno, a dispetto del RE maggiore che chiude l'opera? Ancora una volta: ciascuno di noi può pensare ciò che crede, ma è ridicola la pretesa di Carsen di spiegarci tutto lui, facendo resuscitare il Don e precipitare gli altri nel fuoco. Così si distrugge tutto il fascino di questo capolavoro.

Ma la conseguenza più nefasta di regìe come quella proposta dalla Scala è la totale svalutazione del rapporto musica-testo, che geni come Mozart hanno tanto faticato a valorizzare. Per convincersene basta porsi una domandina semplice-semplice: se per caso, prima che scrivesse la musica, a Mozart fosse stata mostrata la messinscena di Carsen relativa all'apparire del Don e di DonnaAnna, chiedendogli di comporre musica coerente con essa, che avrebbe fatto il Teofilo? Ammesso che accettasse una simile proposta, che musica avrebbe scritto? Per me, non una sola nota di quelle che lui ha composto! La sua musica c'entra proprio come i cavoli a merenda con lo scenario post-coitum che ci presenta esplicitamente Carsen (avete presente – come possibile riferimento - l'apertura del Rosenkavalier, tanto per intenderci?) E allora, se c'è abissale incongruenza fra ciò che ascoltiamo (parole e soprattutto musica) e ciò che vediamo, che si fa? Diamo ragione a Carsen e concludiamo che DaPonte e Mozart erano dei coglioni? It's the music, stupid!

Persino l'Ouvertura sarebbe stata diversa. A parte il fatto che sarebbe tradizionalmente da eseguirsi a sipario rigorosamente chiuso, in modo che lo spettatore veda con l'orecchio – senza distrazioni o suggerimenti - ciò che lo aspetta nel seguito, all'inizio dell'esecuzione Carsen ci mostra il protagonista che arriva dal corridoio di platea, sale al proscenio e strappa il sipario, specchiandosi nel pubblico che affolla il teatro. Questa originale apertura si conclude con la calata di un altro sipario, di cartapesta, guarda caso sulla battuta 31, dove per l'appunto inizia il Molto allegro in RE maggiore, che ci presenta musicalmente DonGiovanni, con la sua esuberante personalità. Quindi il protagonista, che DaPonte-Mozart avevano deciso di far comparire materialmente in scena più tardi, e in modo non propriamente nobile, mentre fugge inseguito e preso ad ombrellate da una tizia che ha cercato di violentare, Carsen ce lo mostra subito in tutto il suo spavaldo splendore. Dimenticando che in quelle prime 30 misure dell'Ouvertura, in Andante, Mozart ha voluto dipingere musicalmente la fotografia del Commendatore, che in tutta l'opera rappresenta l'unica entità che si contrappone metafisicamente (e musicalmente!) più che materialmente, al Don. Peccato che Carsen abbia impiegato questa fotografia sonora come passerella calpestabile e calpestata dal Don, nella sua rincorsa verso il proscenio. E così il Commendatore – entità chiave dell'opera – qui passa praticamente inosservato (anzi, musicalmente avvilito e calpestato, sarebbe il caso di dire).

Un ultimo caso esemplare: la scena della festa (che oltretutto non è farina del sacco di Carsen). Come ci viene presentata sarà anche bella in sé da vedersi, ma distrugge alla radice il valore della strepitosa invenzione mozartiana – una delle cose più straordinarie di tutto il teatro musicale - delle tre diverse danze che si svolgono contemporaneamente: è vero che al centro della scena si balla la Contradanza, ai lati il Menuetto e al proscenio la Teitsch, ma in pochi sono in grado di distinguerli, dato che tutti – personaggi e comparse – sono vestiti coll'identico rosso-scala e per di più son tutti mascherati, compresi gli orchestrali (cosa invero gratuita, chè in maschera devono essere solo DonnaAnna, DonOttavio e DonnaElvira). Così ci perdiamo del tutto il significato (non solo estetico, ma addirittura politico!) degli accoppiamenti per le danze.

Insomma, una regìa genialoide quanto velleitaria, che potrà accontentare chi va a teatro per godere di qualche bizzarra trovata, o per meditare sulle profondità siderali del pensiero del regista. A Mozart rende di certo un pessimo servizio. 
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08 dicembre, 2011

Il Don Roberto alla Scala


In attesa di assistere di persona e quindi poter meglio apprezzare (hopefully!) il lato sonoro di questo storico (fino al prossimo, smile!) allestimento del capolavoro del Teofilo, la trasmissione TV della benemerita RAI5 (no streaming, perché lo vedrebbero in troppi…) ha permesso di farsi almeno un'idea dell'allestimento del genio (e/o sregolatezza) canadese.

Oggigiorno mettere in scena opere come DonGiovanni - divenute immortali, rappresentate e incise migliaia e migliaia di volte e su cui si è scritto, detto e sproloquiato proprio tutto e il suo esatto contrario - è diventato un affare di stato. Un allestimento che semplicemente si attenesse al testo del DaPonte, anche se mirabilmente interpretato – per la parte musicale - da direttore e da cantanti sopraffini, verrebbe irriso e liquidato come reliquia ammuffita da museo delle cere, quindi indegno di soddisfare le esigenze estetiche (ma anche e soprattutto quelle politico-filosofico-socio-psico-sessual-esistenzial-morboso) di noi gente scafata del terzo millennio, che mica siamo degli ingenui ignorantoni di bocca buona come i nostri trisavoli di un paio di secoli fa, perdinci!

Qui qualcuno dovrebbe però spiegare come mai continuiamo a sentire frasi come: Ah si segua il suo passo; io vo' con lei dividere i martìri; saran meco men gravi i suoi sospiri, che non sembrerebbe precisamente un'espressione della poesia dei nostri tempi. E soprattutto perché ci ostiniamo a far suonare e cantare, dopo un secolo di serialismo, Là ci darem la mano nel diatonico, dolciastro e sorpassato LA maggiore, che ormai non si ascolta più nemmeno a Sanremo.

In effetti siamo arrivati al colmo di dover ringraziare il cielo quando il regista di passaggio non si mette a cambiare i testi dei libretti e non chiede al Kapellmeister di adattarci la partitura! (Per la verità lo stesso Carsen ci si avvicinò, con la sua Alcina…) O tempora, o mores!

All'inizio dell'Ouvertura ecco Mattei che percorre il corridoio della platea, sale al proscenio, strappa il siparione e rivela un enorme specchio-blob che riflette la platea e i palchi: il pubblico è co-protagonista dell'opera, o se si vuole, il mondo reale è all'origine dello spettacolo, oppure… ognuno si inventi la sua spiegazione di una trovata ormai trita, ritrita e pure triturata come le palle degli spettatori. E pare sia pure costata un occhio della testa, proprio da lacrime e sangue!

E dopo questo poco promettente inizio, il resto materializza i peggiori presentimenti. Intanto, da che teatro è teatro, esiste un palcoscenico dove si rappresenta qualcosa e un pubblico che – pagando, oltretutto – si vuol godere lo spettacolo. Qui invece il pubblico non ha pagato per godere uno spettacolo, ma per partecipare ad una lezione pratica – con hands-on, come dicono in padania – di filosofia esistenziale applicata alla nostra moderna civiltà. Quindi attori e cantanti si muovono, parlano, cantano, insomma… vivono in mezzo alla gente (più che altro agli abitanti della platea) perché si sappia che i DonGiovanni, le DonneElvire, le DonneAnne, i Leporelli, i DonOttavi e i Masetti e le Zerline altro non sono che stereotipi di noi stessi, e di tutta la gente che cammina, lavora, prega, pecca, e siede a teatro accanto a noi. Persino il Commendatore trova posto fra il pubblico, naturalmente – per rispetto al lignaggio - nel palco reale, fra due veri Presidenti. Strabiliante, da innalzare un monumento al regista in piazza Scala!

Per descrivere – e stigmatizzare – il Konzept di Carsen basterà partire dal fondo, dal finale del dramma, sulle due versioni del quale da sempre ci si accapiglia: meglio Praga o Vienna? La conclusione perbenista e moralista oppure quella tragica, nuda-e-cruda? È il caso di far seguire alla meritata morte del libertino, ingluviato dalle fiamme – che di per sé basterebbe e avanzerebbe come lezione per contemporanei e posteri - anche l'esplicita condanna benpensante, il banale e prosaico elenco delle future attività dei sopravvissuti e la morale-della-favola? Bene, Carsen vuol dimostrarci che lui è meglio di DaPonte, e aggiunge un'ulteriore scena (peccato davvero che Mozart sia morto da poco e non abbia fatto in tempo a musicarla): il Don che torna più vivo che mai, si fuma una bella sigaretta post-coitum (spargendone la cenere sugli astanti) mentre i poveri benpensanti vanno all'inferno al suo posto!

Il regista, che in conferenza stampa si presenta con in mano la partitura, spiega che «nella musica non trovo mai una connotazione negativa del protagonista». Così ci informa la nota di Avvenire. Ohibò, ma Carsen, oltre a portarsela in giro, l'ha letta e studiata bene la partitura? Misero! misero! misero, attendi, se vuoi morir! E Carsen, tanto per smentire se stesso, ci mostra il Don che ammazza il vecchio non in un regolare duello, ma facendo un'autentica carognata, gettando un lenzuolo in testa al Commendatore e infilzandolo a tradimento! E per fare un altro banale esempio: i trattamenti che il Don riserva a Masetto, prima minacciandolo spada alla mano (ma Carsen elimina questo particolare, ignorando bellamente l'indicazione di DaPonte!) e poi colpendolo anche qui a tradimento, non avrebbero connotazioni negative? Dico, ma le ha lette e capite bene, le parole, e ascoltate bene, le note, Robert Carsen, accidenti a lui?

Il suo finale contraddice totalmente non solo il testo di DaPonte, ma soprattutto la musica di Mozart! Per quanto sia una morale bigotta e a buon mercato, quella che esce dalle parole e dalle note del finale di Praga, quella è, e con quella il finale di Carsen non ci azzecca manco per il rotto della cuffia. Se Mozart (col suo librettista) avesse voluto spiegarci che un Don è morto, ma il suo archétipo (o il suo stereotipo, o il suo spirito) sopravvive e si fa beffe della società benpensante (meritevole, lei, di finire all'inferno) avrebbe aggiunto qualche battuta al concertato, oppure ci avrebbe fatto udire, in contrappunto, o in sottofondo, o subdolamente strisciante, un tema o anche solo un inciso, un ritmo, del Don. Nulla di tutto questo invece, e quindi la trovata di Carsen resta semplicemente una goliardata, gratuita e ignorante, un vero affronto a questo capolavoro e ai suoi autori. (E ovviamente il giudizio sulla sua pertinenza non cambierebbe anche se il finale fosse quello tragico di Vienna).

Per come Carsen tratta le femmine, in particolare, si meriterebbe un linciaggio da parte delle femministe. Vostro onore, lei aveva i jeans troppo attillati, con la vita bassa e la cerniera! Quindi è lei la responsabile dello stupro che ha subìto! Ecco, quante volte l'avvocato difensore dello stupratore ha usato questo argomento per chiedere (e spesso… ottenere!) l'assoluzione del suo difeso? Bene, Carsen è uno di quegli avvocati: che assolve lo stupratore e condanna la ragazza in jeans.

Per il regista, DonnaAnna all'inizio è a letto col Don, e in piena luce, e fa la figura della ninfomane insaziabile che non ne vuol sapere di smettere di scopare e cerca di trattenere il partner in tutti i modi! Ora, se c'è un aspetto affascinante nel libretto di DaPonte, che Carsen butta stupidamente nel cesso, è precisamente l'incertezza su ciò che accade davvero nella scena iniziale del dramma, che ci fa nascere legittimi sospetti sul comportamento della donna, ma allo stesso tempo è perfettamente e mirabilmente compatibile con gli sviluppi successivi: in particolare con il riconoscimento dell'intruso di quella notte, che la donna fa nella Scena XII, risentendo la sua voce. Invece il buon Carsen ci mostra quel riconoscimento fatto da DonnaAnna attraverso il tatto (e manco male palpando le guance del Don e non i coglioni…) con ciò smentendo contemporaneamente DaPonte, ma anche se stesso, visto ciò che ci aveva mostrato nella prima scena! E facendo passare Donna Anna, oltre che per ninfomane, anche per una bugiarda di tre cotte, e perfida simulatrice, allorquando narra sconvolta a DonOttavio (in Scena XIII) le vicende di quella notte maledetta.

DonnaElvira – selon Carsen - non solo è ninfomane, ma è anche una volgare esibizionista: lei gira spesso seminuda, e quando è vestita si… spoglia; mentre Leporello le sciorina il catalogo, lei che fa, invece di inorridire? Si mette a fare movenze da lap-dance…

Paradossalmente – anche qui Carsen sembra voler fare il bastian-contrario – è proprio Zerlina la femmina di cui meno viene messa in risalto la carica erotica, per privilegiare l'aspetto vagamente carognesco del suo carattere.

Ma il disprezzo che Carsen mostra per la donna tocca il colmo del cattivo gusto nel secondo atto dove, a seguito della serenata del Don alla cameriera di DonnaElvira, vediamo il protagonista (che ha appena riempito di botte Masetto, a proposito di connotazioni negative…) raggiunto al proscenio da detta cameriera – che nel libretto di DaPonte è soltanto nominata e forse forse compare fugacemente alla finestra – e con lei assiste alle scene successive (che si svolgono in un teatro-nel-teatro) finchè vediamo la ragazza andarsene via proprio comme l'ha fatta mammeta, evidentemente preda delle scalmane del Don. E anche qui – insieme a quanto mostratoci in modo esplicito nella scena iniziale - Carsen distrugge uno dei principali elementi di fascino dell'opera: durante la quale e fino alla fine, a noi spettatori deve rimanere il dubbio che al Don non glie ne vada bene una che è una.

Sul fronte delle scene, c'è soltanto un'indigestione di Scala (pannelli con dipinto il sipario rosso, soprattutto, un'immagine distorta del teatro vuoto, alla fine). Come omaggio al Piermarini mi pare davvero sgangherato e insulso (DonnaAnna nell'aria finale addirittura si porta appresso un programma di sala… forse per ripassare le note di regìa, smile!) Per il resto, totale minimalismo e insignificanza.

I costumi sono di epoche le più diverse e disparate e questa in fin dei conti è la trovata meno peregrina, visto il carattere archetipico del soggetto, che verrebbe sacrificato se calato in un contesto troppo specifico.

In definitiva, un allestimento di cui il minimo che si possa dire è: diseducativo.
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Sul fronte musicale, fermo restando che la ripresa meccanica appiattisce tutto e tutti, non mi sentirei di dar torto all'isolato spettatore che, al rientro, ha urlato a Barenboim: troppo lento! Dei cantanti salverei senza esitazione la Frittoli, insieme a Youn; deciso pollice verso per Kocán e per lo sguaiatissimo Terfel, un vero hooligan; maluccio Filianoti e Prohaska e più di una riserva, in relazione alla loro fama - su Netrebko e Mattei (costui non avrò il piacere di sentire dal vivo).
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11 febbraio, 2010

Un po’ di avanspettacolo alla Scala

Datosi che il glorioso Teatro Smeraldo non ne propone più ormai da qualche lustro, La Scala ha pensato bene di offrire un po' di avanspettacolo, presentando il DonGiovanni di Mussbach.

Di Mozart! mi correggerete.

No no, di Peter Mussbach. Perché è della regìa che conviene subito dire. Il nostro è – attenzione – un uomo di cultura (ha insegnato o insegna regìa teatrale in diverse Università) mica un ciarlatano alla Calixto Bieito (tanto per intenderci). Ma anche lui, purtroppo, predica bene e razzola male. Oppure è vittima del dilemma fra due estremi: allestire uno spettacolo che sia facile da capire, da parte del supposto popolo-bue che frequenta i teatri, o invece cercare di far emergere il vero sostrato dell'Opera, quello che si cela sotto la sua crosta esteriore, ma così rischiando di non essere capito – sempre da quel popolo-bue - e di incappare in un flop. Orbene, il regista ha chiaramente deciso per la prima soluzione. E così ha messo in scena uno spettacolino piacevole, quanto quelli che si potevano vedere al vecchio Smeraldo.

Vieni avanti, cretino! Ecco, i non pochi recitativi con protagonisti DonGiovanni e Leporello sono tutti su questo stile. Compreso l'impiego di urlacci al posto del cantato nel quale Mozart aveva posto altrettanta cura che nelle arie.

Nel DonGiovanni aleggiano eros e sesso, giusto? Infatti ne vediamo parecchio, però tutta roba innocente, non vietabile ai minori di 14: strusciamenti, sbaciucchiamenti, qualche posizione copulativa, una mano infilata sotto una gonna… insomma nessuno scandalo (appunto, Mussbach non è Bieito). Così però non si capisce perché alla fine il povero Don debba andare all'inferno, e perché soltanto lui. Ma in questo tipo di varietà non si deve far caso al libretto e ai suoi reconditi significati, vero?

Nel DonGiovanni è rappresentata una società rigidamente divisa in classi? Come no, però ciò accadeva più di 200 anni fa, oggi siamo in democrazia. Così la simpatica DonnaElvira, che bisogna far capire essere una viaggiatrice, si fa un 800Km (da Burgos a Siviglia) in Vespa. E pensare che lei è una nobile! Come minimo, ai tempi nostri, viaggerebbe in Bentley o in Bugatti, o in Isotta-Fraschini. In Vespa, caso mai, dovremmo veder arrivare Masetto, con Zerlina seduta dietro, di traverso. Ma qui siamo allo Smeraldo, non dimentichiamolo! C'è una festa in casa di un nobile, dove sono invitati dei plebei? Perdinci, Mozart ci scrive un pezzo su cui sono stati scritti metri di enciclopedie, con tre orchestre che suonano contemporaneamente tre diverse danze, e con i ballerini meticolosamente accoppiati secondo le consuetudini, ma con qualche rivoluzionaria libertà! Ma non è roba da avanspettacolo, diciamolo pure, e qui basta mostrare un po' di confusione, che va tutto bene!

Bisogna comunque capirlo, il povero regista. Lui mica può – con qualche mossa degli interpreti – spiegarci tutto ciò che è scritto in quintalate di libri sul DonGiovanni. E poi, casomai, toccherebbe al Kapellmeister di rendere chiaro e visibile ciò che il DonGiovanni è, poiché è la musica, molto più che i gesti, a determinarlo. Ma anche lui, il povero direttore, non può mica premettere alla recita una lezione di due ore, leggendo ad esempio l'analisi di Roman Vlad, o capitoli e capitoli di Massimo Mila! Insomma, restiamo con i piedi per terra e accontentiamoci.

Quanto alle scene, è evidente – data la complessità del libretto – che un approccio minimalista rende la vita facile a tutti, compreso il pubblico che non si deve sorbire continue pause e rumori molesti dietro il sipario, per i mille cambi che si renderebbero necessari. Se poi così si perdono piccoli dettagli, quali la spiegazione della troncatura iniziale del minuetto (suonato dall'Orchestra sopra il teatro) chi se ne frega, tanto perché si devono offrire perle ai porci?

Dalla foggia dei costumi si deve dedurre che i responsabili della messinscena considerano il DonGiovanni precisamente un'opera buffa.

Adesso, la musica.

A chi deve esibirsi di fronte ad un uditorio viene insegnato che sono decisivi i primi 7 secondi: se si cattura subito l'attenzione e l'interesse del pubblico, si può sperare di avere qualche successo; se no, l'uditorio è perduto per sempre. Ecco, il nostro Louis Langrée ha clamorosamente ciccato le prime 4 battute dell'ouverture, attaccandole come un Allegro, e mancando del tutto il famoso effetto baratro determinato dalla semiminima che viole, celli e bassi tengono in più, rispetto a violini, fiati e timpano. Fatta la cappella (per giustificare il titolo di maestro di cappella, appunto) il nostro si è alienato per sempre le simpatie del loggione, che lo ha spietatamente buato alla fine.

Erwin Schrott è certamente un Don di grande statura. Sul piano fisico, nessun dubbio. Su quello del canto, io gli darei tranquillamente un bel 7+. Attenzione però: datosi che tutto è relativo, per uno come lui che ha fama (e marketing, e cachet) da 9, significa galleggiare sopra la mediocrità. Applaudito, solo alla fine, ma senza ovazioni, nonostante lui abbia sparato più di un bacio verso il loggione.

Ecco, il Leporello di Alex Esposito è uno dei pochi personaggi che – selon moi – la sufficienza se la è meritatamente sudata (gli darò 7-): discreta impostazione, esperta padronanza del ruolo, a dispetto di una voce troppo chiara. Per lui sì, un'ovazione, oltre all'applauso a scena aperta dopo il Catalogo.

Pure discreti il Masetto di Mirco Palazzi (6-7) e il Commendatore di Georg Zeppenfeld (6+).

L'invertebrato DonOttavio era Juan Francisco Gatell Abre, che ha persino avuto un timido applausetto a scena aperta, dopo la sua Il mio tesoro. E accoglienza discreta alla fine. Per me non troppo meritata (6--).

La DonnaAnna di Carmela Remigio non mi è dispiaciuta in generale (7-). Dopo il Non mi dir un battimano se lo sarebbe meritato, ma non è arrivato, così come freddina (ma non ostile) è stata l'accoglienza dedicatale all'uscita.

Sorpresa lei per prima la Emma Bell (DonnaElvira). A dispetto di una voce indisponente e di chiare manchevolezze, si è avuta un applaus(in)o a scena aperta (Mi tradì) e una calda accoglienza finale. Io invece le rifilo un bel 5.

La Zerlina di Veronica Cangemi senza infamia, né lode: dopo il Batti, batti qualcuno ha cercato di applaudire, ma subito sopraffatto da fischi e buh. Per me era meglio il silenzio e basta (5-6).

Bene il coro di Casoni, una sicurezza.

Al tirar delle somme, uno spettacolo appena appena mediocre, che è – se non proprio la dichiarazione di bancarotta di certi proclami (più che programmi) della sovrintendenza del Piermarini – testimonianza di gestione superficiale, o velleitaria.

E a proposito di programmi, visto che siamo ad un quarto del cartellone 2009-2010 (12 opere in tutto, poi ci sarà la Carmen2) è il momento – per me - di tirare un primo (parziale) bilancio. Che mi sento di giudicare più sul negativo che altro, se l'unica sufficienza complessiva ai miei occhi l'ha meritata un vecchio Rigoletto, dopo una Carmen-disastro e questo inconsistente Don.

Non ci resta che sperare in Janacek, Berg e nel …dio-Wagner!