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consulta e zecche rosse

08 dicembre, 2011

Il Don Roberto alla Scala


In attesa di assistere di persona e quindi poter meglio apprezzare (hopefully!) il lato sonoro di questo storico (fino al prossimo, smile!) allestimento del capolavoro del Teofilo, la trasmissione TV della benemerita RAI5 (no streaming, perché lo vedrebbero in troppi…) ha permesso di farsi almeno un'idea dell'allestimento del genio (e/o sregolatezza) canadese.

Oggigiorno mettere in scena opere come DonGiovanni - divenute immortali, rappresentate e incise migliaia e migliaia di volte e su cui si è scritto, detto e sproloquiato proprio tutto e il suo esatto contrario - è diventato un affare di stato. Un allestimento che semplicemente si attenesse al testo del DaPonte, anche se mirabilmente interpretato – per la parte musicale - da direttore e da cantanti sopraffini, verrebbe irriso e liquidato come reliquia ammuffita da museo delle cere, quindi indegno di soddisfare le esigenze estetiche (ma anche e soprattutto quelle politico-filosofico-socio-psico-sessual-esistenzial-morboso) di noi gente scafata del terzo millennio, che mica siamo degli ingenui ignorantoni di bocca buona come i nostri trisavoli di un paio di secoli fa, perdinci!

Qui qualcuno dovrebbe però spiegare come mai continuiamo a sentire frasi come: Ah si segua il suo passo; io vo' con lei dividere i martìri; saran meco men gravi i suoi sospiri, che non sembrerebbe precisamente un'espressione della poesia dei nostri tempi. E soprattutto perché ci ostiniamo a far suonare e cantare, dopo un secolo di serialismo, Là ci darem la mano nel diatonico, dolciastro e sorpassato LA maggiore, che ormai non si ascolta più nemmeno a Sanremo.

In effetti siamo arrivati al colmo di dover ringraziare il cielo quando il regista di passaggio non si mette a cambiare i testi dei libretti e non chiede al Kapellmeister di adattarci la partitura! (Per la verità lo stesso Carsen ci si avvicinò, con la sua Alcina…) O tempora, o mores!

All'inizio dell'Ouvertura ecco Mattei che percorre il corridoio della platea, sale al proscenio, strappa il siparione e rivela un enorme specchio-blob che riflette la platea e i palchi: il pubblico è co-protagonista dell'opera, o se si vuole, il mondo reale è all'origine dello spettacolo, oppure… ognuno si inventi la sua spiegazione di una trovata ormai trita, ritrita e pure triturata come le palle degli spettatori. E pare sia pure costata un occhio della testa, proprio da lacrime e sangue!

E dopo questo poco promettente inizio, il resto materializza i peggiori presentimenti. Intanto, da che teatro è teatro, esiste un palcoscenico dove si rappresenta qualcosa e un pubblico che – pagando, oltretutto – si vuol godere lo spettacolo. Qui invece il pubblico non ha pagato per godere uno spettacolo, ma per partecipare ad una lezione pratica – con hands-on, come dicono in padania – di filosofia esistenziale applicata alla nostra moderna civiltà. Quindi attori e cantanti si muovono, parlano, cantano, insomma… vivono in mezzo alla gente (più che altro agli abitanti della platea) perché si sappia che i DonGiovanni, le DonneElvire, le DonneAnne, i Leporelli, i DonOttavi e i Masetti e le Zerline altro non sono che stereotipi di noi stessi, e di tutta la gente che cammina, lavora, prega, pecca, e siede a teatro accanto a noi. Persino il Commendatore trova posto fra il pubblico, naturalmente – per rispetto al lignaggio - nel palco reale, fra due veri Presidenti. Strabiliante, da innalzare un monumento al regista in piazza Scala!

Per descrivere – e stigmatizzare – il Konzept di Carsen basterà partire dal fondo, dal finale del dramma, sulle due versioni del quale da sempre ci si accapiglia: meglio Praga o Vienna? La conclusione perbenista e moralista oppure quella tragica, nuda-e-cruda? È il caso di far seguire alla meritata morte del libertino, ingluviato dalle fiamme – che di per sé basterebbe e avanzerebbe come lezione per contemporanei e posteri - anche l'esplicita condanna benpensante, il banale e prosaico elenco delle future attività dei sopravvissuti e la morale-della-favola? Bene, Carsen vuol dimostrarci che lui è meglio di DaPonte, e aggiunge un'ulteriore scena (peccato davvero che Mozart sia morto da poco e non abbia fatto in tempo a musicarla): il Don che torna più vivo che mai, si fuma una bella sigaretta post-coitum (spargendone la cenere sugli astanti) mentre i poveri benpensanti vanno all'inferno al suo posto!

Il regista, che in conferenza stampa si presenta con in mano la partitura, spiega che «nella musica non trovo mai una connotazione negativa del protagonista». Così ci informa la nota di Avvenire. Ohibò, ma Carsen, oltre a portarsela in giro, l'ha letta e studiata bene la partitura? Misero! misero! misero, attendi, se vuoi morir! E Carsen, tanto per smentire se stesso, ci mostra il Don che ammazza il vecchio non in un regolare duello, ma facendo un'autentica carognata, gettando un lenzuolo in testa al Commendatore e infilzandolo a tradimento! E per fare un altro banale esempio: i trattamenti che il Don riserva a Masetto, prima minacciandolo spada alla mano (ma Carsen elimina questo particolare, ignorando bellamente l'indicazione di DaPonte!) e poi colpendolo anche qui a tradimento, non avrebbero connotazioni negative? Dico, ma le ha lette e capite bene, le parole, e ascoltate bene, le note, Robert Carsen, accidenti a lui?

Il suo finale contraddice totalmente non solo il testo di DaPonte, ma soprattutto la musica di Mozart! Per quanto sia una morale bigotta e a buon mercato, quella che esce dalle parole e dalle note del finale di Praga, quella è, e con quella il finale di Carsen non ci azzecca manco per il rotto della cuffia. Se Mozart (col suo librettista) avesse voluto spiegarci che un Don è morto, ma il suo archétipo (o il suo stereotipo, o il suo spirito) sopravvive e si fa beffe della società benpensante (meritevole, lei, di finire all'inferno) avrebbe aggiunto qualche battuta al concertato, oppure ci avrebbe fatto udire, in contrappunto, o in sottofondo, o subdolamente strisciante, un tema o anche solo un inciso, un ritmo, del Don. Nulla di tutto questo invece, e quindi la trovata di Carsen resta semplicemente una goliardata, gratuita e ignorante, un vero affronto a questo capolavoro e ai suoi autori. (E ovviamente il giudizio sulla sua pertinenza non cambierebbe anche se il finale fosse quello tragico di Vienna).

Per come Carsen tratta le femmine, in particolare, si meriterebbe un linciaggio da parte delle femministe. Vostro onore, lei aveva i jeans troppo attillati, con la vita bassa e la cerniera! Quindi è lei la responsabile dello stupro che ha subìto! Ecco, quante volte l'avvocato difensore dello stupratore ha usato questo argomento per chiedere (e spesso… ottenere!) l'assoluzione del suo difeso? Bene, Carsen è uno di quegli avvocati: che assolve lo stupratore e condanna la ragazza in jeans.

Per il regista, DonnaAnna all'inizio è a letto col Don, e in piena luce, e fa la figura della ninfomane insaziabile che non ne vuol sapere di smettere di scopare e cerca di trattenere il partner in tutti i modi! Ora, se c'è un aspetto affascinante nel libretto di DaPonte, che Carsen butta stupidamente nel cesso, è precisamente l'incertezza su ciò che accade davvero nella scena iniziale del dramma, che ci fa nascere legittimi sospetti sul comportamento della donna, ma allo stesso tempo è perfettamente e mirabilmente compatibile con gli sviluppi successivi: in particolare con il riconoscimento dell'intruso di quella notte, che la donna fa nella Scena XII, risentendo la sua voce. Invece il buon Carsen ci mostra quel riconoscimento fatto da DonnaAnna attraverso il tatto (e manco male palpando le guance del Don e non i coglioni…) con ciò smentendo contemporaneamente DaPonte, ma anche se stesso, visto ciò che ci aveva mostrato nella prima scena! E facendo passare Donna Anna, oltre che per ninfomane, anche per una bugiarda di tre cotte, e perfida simulatrice, allorquando narra sconvolta a DonOttavio (in Scena XIII) le vicende di quella notte maledetta.

DonnaElvira – selon Carsen - non solo è ninfomane, ma è anche una volgare esibizionista: lei gira spesso seminuda, e quando è vestita si… spoglia; mentre Leporello le sciorina il catalogo, lei che fa, invece di inorridire? Si mette a fare movenze da lap-dance…

Paradossalmente – anche qui Carsen sembra voler fare il bastian-contrario – è proprio Zerlina la femmina di cui meno viene messa in risalto la carica erotica, per privilegiare l'aspetto vagamente carognesco del suo carattere.

Ma il disprezzo che Carsen mostra per la donna tocca il colmo del cattivo gusto nel secondo atto dove, a seguito della serenata del Don alla cameriera di DonnaElvira, vediamo il protagonista (che ha appena riempito di botte Masetto, a proposito di connotazioni negative…) raggiunto al proscenio da detta cameriera – che nel libretto di DaPonte è soltanto nominata e forse forse compare fugacemente alla finestra – e con lei assiste alle scene successive (che si svolgono in un teatro-nel-teatro) finchè vediamo la ragazza andarsene via proprio comme l'ha fatta mammeta, evidentemente preda delle scalmane del Don. E anche qui – insieme a quanto mostratoci in modo esplicito nella scena iniziale - Carsen distrugge uno dei principali elementi di fascino dell'opera: durante la quale e fino alla fine, a noi spettatori deve rimanere il dubbio che al Don non glie ne vada bene una che è una.

Sul fronte delle scene, c'è soltanto un'indigestione di Scala (pannelli con dipinto il sipario rosso, soprattutto, un'immagine distorta del teatro vuoto, alla fine). Come omaggio al Piermarini mi pare davvero sgangherato e insulso (DonnaAnna nell'aria finale addirittura si porta appresso un programma di sala… forse per ripassare le note di regìa, smile!) Per il resto, totale minimalismo e insignificanza.

I costumi sono di epoche le più diverse e disparate e questa in fin dei conti è la trovata meno peregrina, visto il carattere archetipico del soggetto, che verrebbe sacrificato se calato in un contesto troppo specifico.

In definitiva, un allestimento di cui il minimo che si possa dire è: diseducativo.
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Sul fronte musicale, fermo restando che la ripresa meccanica appiattisce tutto e tutti, non mi sentirei di dar torto all'isolato spettatore che, al rientro, ha urlato a Barenboim: troppo lento! Dei cantanti salverei senza esitazione la Frittoli, insieme a Youn; deciso pollice verso per Kocán e per lo sguaiatissimo Terfel, un vero hooligan; maluccio Filianoti e Prohaska e più di una riserva, in relazione alla loro fama - su Netrebko e Mattei (costui non avrò il piacere di sentire dal vivo).
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8 commenti:

mozart2006 ha detto...

Beh, l`idea di piazzare il Commendatore in mezzo ai due Presidenti era l' unica trovata registica che involontariamente era efficace. La frase "Di rider finirai pria dell' aurora" in questo modo diventava un messaggio alla nazione...

RRC (was bobregular) ha detto...

Non ho seguito tutta l'opera in video, ma quello che ho visto mi è bastato ad avallare le tue sensazioni. Peccato, spervao in un guizzo di Carsen (che in Elektra al maggio mi piacque).

Gianguido, non voglio le royalties sulle mie bischerate ma i credits sì!... ;)

mozart2006 ha detto...

La Scala è un teatro attualmente in mano a una direzione artistica che non sa scegliere un cast, un direttore ed un regista e quindi affida tutto a qualche ciarlatano o qualche agente importante. Un cast adeguato (magari non eccelso, ma adeguato e dignitoso) si può trovare anche oggi, eccome. Se si ha voglia e competenza per fare audizioni, per cercare. E sopratutto, bisogna avere delle idee. Questo è un teatro immerso in una totale bancarotta intellettuale – pubblico compreso.

daland ha detto...

@mozart2006

Hai detto bene, involontariamente. Perchè sarebbe stato perfetto con Berlusconi seduto al posto di Monti (assente Napolitano). Ma credo che Carsen non legga TIME! La Scala ha obiettivamente obiettivi (visto che Stabreim?) assai diversi dalla promozione dell'Arte (quella con la tripla A, ma non di Moody's!)

@RRC (scusa l'impertinenza, ma ti trovo sempre molto "riservato" anche sulla nuova piattaforma!)

Ho scritto che Carsen è genio e sregolatezza. Troppo di rado genio (vedi l'Elektra gigliata) e troppo spesso genialoide!

Grazie a tutti!

ps: sui diritti d'autore... rivolgersi a Richard Strauss, please!

RRC (was bobregular) ha detto...

daland: vedi ancora il blog "privato"? L'ho riaperto ieri, un po' sgrassato: http://blogregular.wordpress.com

[Siamo tutti in fuga da splinder, come sai].

Per i "diritti" non c'è bisogno di scomodare Strauss ;) Il commento l'ho inserito sulla bacheca di GG a opera terminata e l'ho ripetuto qui da Amfortas qualche ora dopo;

http://amfortas.wordpress.com/2011/12/07/recensione-semiseria-ed-espressa-del-don-giovanni-di-mozart-alla-scala-di-milano-deludono-tutti-da-carsen-alla-netrebko/#comment-818

lieto che sia piaciuto, un po' meno che non si citino le fonti ma tant'è...

daland ha detto...

@RRC
grazie del link... dovevo arrivarci da solo, stante l'eutanasia di splinder!

mozart2006 ha detto...

Nei teatri italiani di oggi si sentono alcune italianissime voci che non avrebbero sfigurato al confronto: certo, se poi dopo la seconda nota ben cantata della loro vita evitassero di farsi trascinare in repertori al di fuori della loro portata, credo che ne guadagnerebbero sia le nostre orecchie che le loro longevità artistiche. Ma oggi la parola “repertorio” vuole solo dire “catalogo di ruoli che riesco in qualche modo a portare in fondo” e questo crea storture irrimediabili…

Renato Di Sano ha detto...

Ascoltate e vedete la messinscena di un certo Herbert von Karajan, prodotta a Salisburgo nel 1987 (dovrebbe essere ancora disponibile su dischi Sony) e poi ovviamente, dall'alto della proletarizzazione culturale che il liberismo senza vincoli ci propina, dite che sono un povero, misero, banale, ignorante. Quella di Karajan è arte geniale che ci presenta, in tutte le sue immortali altezze, Mozart. Non le idiozie, le insulsaggini, di registi come Carsen e l'acquiescenza scialba, vuota, di direttori come Barenboim.