XIV

da prevosto a leone
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16 agosto, 2022

ROF-43 live: La Gazzetta

Rieccomi sulla riviera adriatica (dove all’apocalisse pronosticata da sedicenti saggi in conseguenza della caduta di supermario nessuno sembra far caso) per il mio personale esordio (come spettatore, s’intende) al ROF-XLIII. Assistendo alla terza recita de La Gazzetta, una ripresa rivisitata della fortunata produzione di Marco Carniti del 2015, che fu anche da me a suo tempo ammirata.

Dico subito che la serata è iniziata in tono minore, poi vivacizzatasi man mano: forse condizionata, chissà, dalla scarsità (molte, troppe poltrone vuote in platea e nei palchi) e iniziale freddezza del pubblico. Sta di fatto che il primo atto ha cominciato a prender quota solo al momento del famoso (perché ritrovato da pochi anni) quintetto Già nel capo un giramento Insomma, dopo l’ascolto della prima del 10 agosto in radio mi ero fatto aspettative migliori, ecco.    

Com’è noto, l’opera rappresentò l’esordio di Rossini in territorio buffo a Napoli, la capitale italiana (e forse europea, ai tempi, 1816) del teatro musicale. Ebbene: due napoletani veraci, Carlo Lepore e Maria Grazia Schiavo, hanno impersonato qui la coppia padre-figlia, Prosdocimo-Lisetta, in viaggio di piacere-interesse a Parigi, dando così anche un tocco di realismo alla vicenda improbabile che un altro napoletano, Giuseppe Palomba, aveva inventato (beh, insomma, facendosi aiutare da… Goldoni) per la speciale occasione.

Lepore è un perfetto Prosdocimo Storione, una specie di prototipo di personaggi cui darà vita il grande Totò, del quale non per nulla vengono richiamate alcune gag passate alla storia. Oltre che cantare da par suo, eccelle ovviamente nei frequenti parlati in partenopeo, che esigono nativa, quindi assoluta dimestichezza con quel dialetto. 

Lisetta, che il librettista presenta in modo (almeno apparentemente) contraddittorio, affibbiandole l’epiteto francamente equivoco di donzella scaltra e baggiana (!?) è resa in modo apprezzabile dalla Schiavo, che mette la sua abilità vocale nella coloratura al servizio della natura bifronte del personaggio. E inoltre la sua voce acuta e penetrante svetta sempre nei duetti e concertati.   

Fra gli altri protagonisti emerge prepotentemente, per vocalità e presenza scenica, Giorgio Caoduro, che passa autorevolmente dalla sua identità reale (Filippo, il locandiere) a quelle virtuali di quakero e turco. Qualche eccesso di forzatura nella parte acuta della tessitura non inficia il giudizio positivo sulla sua prestazione, confermato dalle ovazioni ricevute alle uscite finali, oltre che agli applausi a scena aperta dopo il duetto con Lisetta e la sua aria Quando la fama altera

Pietro Adaìni impersona un Alberto convincente, voce squillante e omogenea in tutta la gamma: dopo un esordio un poco trattenuto (Ho girato il mondo intero) anche lui è cresciuto meritando applausi con l’aria O lusinghiero amor.

Doralice è Martiniana Antonie, che mette in bella mostra la sua voce corposa di mezzosoprano, che dopo l’aria (di mano aliena, peraltro) Ah, se spiegar potessi, avrebbe anche meritato un applauso che invece il pubblico ancora freddino le ha negato. Prezioso anche il suo contributo ai concertati.

Con lei bene ha meritato l’altra mezzo, Andrea Niño, efficace Madama La Rose, vocalmente e scenicamente.

Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen) hanno onorevolmente completato la squadra delle voci.

Mirca Rosciani ha ben guidato il Coro (qui di soli maschi) del Teatro della Fortuna, componente non marginale dell’opera.  

Lodevole la direzione e concertazione del veterano Carlo Rizzi, bacchetta ambidestra... che ha ottenuto dalla Sinfonica Rossini (con la Filarmonica, una delle due belle realtà locali) un risultato di tutto rispetto: freschezza e trasparenza del suono, precisione negli attacchi, compattezza nei passaggi d’insieme.
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Come prevedibile, confermato il successo del 2015 per la proposta registìca di Marco Carniti, coadiuvato dalla sua squadra composta da Manuela Gasperoni per le scene, Maria Filippi per i costumi e Fabio Rossi alle luci.

Da ultimo lascio l’unico superstite (fra coloro che escono in scena) del 2015, Ernesto Lama, il Tommasino (quasi) muto che qui assume il ruolo del catalizzatore nelle reazioni chimiche: e anche ieri ha simpaticamente contribuito ad aggiungere verve a questo godibile spettacolo.       

10 agosto, 2022

ROF-43: le tre prime da Radio3

Una nuova produzione de Le Comte Ory ha aperto il 9 agosto a Pesaro (Vitrifrigo Arena) la 43esima edizione del ROF. Per quel che posso giudicare dall’ascolto radiofonico, una partenza decisamente positiva.

Cast ben assortito, capeggiato dall’inossidabile JDF, la cui voce non ha perso lo smalto di un tempo, resistendo bene all’inevitabile usura legata all’ampliamento del repertorio che ha caratterizzato questi ultimi anni del tenore peruviano.

Per me è stata una bella sorpresa la Contessa di Julie Fuchs (che prima avevo solo ascoltato in spezzoni del DVD del 2017 disponibili in rete): praticamente perfetta, timbro chiaro e pulitissimo, colorature impeccabili, voce svettante nei concertati, sensibilità espressiva sempre adeguata alla psicologia del personaggio.

Da apprezzare Maria Kataeva, che fra l’altro ha brillantemente contribuito, come Isolier, al mirabile quanto equivoco terzetto al buio del second’atto.  

Bene anche le due comprimarie: la veterana ma sempreverde Monica Bacelli e la giovane Anna Doris-Capitelli (uscita dall’Accademia).

All’altezza dei rispettivi compiti Andrzej Filonczyk e (un filino sotto) Nahuel Di Pierro. Così come il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che ormai da qualche anno coabita con quello della Fortuna sulle scene pesaresi.  

Diego Matheuz ha guidato da par suo la ritrovata OSN-RAI, forse eccedendo nella corposità di suono (ad esempio nella polonaise del primo atto). Ma può essere impressione mia legata alla ripresa audio.

Successo pieno, si direbbe, anche se gli applausi mi pare non abbiano superato i 5 minuti… 
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La Gazzetta (ripresa/rivisitazione della produzione del 2015) è andata in scena il 10 agosto al Teatro Rossini, con un cast completamente rinnovato rispetto a 7 anni orsono (un’eternità, se si pensa che a Palazzo Chigi c’era tale Matteo Renzi al culmine della sbornia da successo, oggi mutatasi in disperata ricerca di un qualunque mezzuccio Calenda per evitare il definitivo trasloco nell'arido paese del nuovo rinascimento…)

Carlo Rizzi ha guidato la Sinfonica Rossini (che da qualche anno si alterna con l’omonima… Filarmonica come seconda orchestra del cartellone principale) in questa sbarazzina opera comica, mettendone in luce la freschezza dell’ispirazione rossiniana (genuina ma con spruzzate, anche abbondanti, di auto-imprestiti) coniugata con l’impronta napoletanissima del libretto di Giuseppe Palomba.

E il partenopeo Carlo Lepore ne è stato il protagonista assoluto, calandosi anche (complice Marco Carniti) nei panni del grande Totò, di cui ha citato testualmente alcune battute della famosa lettera dal film Totò-Peppino-Malafemmena

Come lo era stata Julie Fuchs per l’Ory, anche qui la protagonista femminile Maria Grazia Schiavo ha meritatamente guadagnato gli applausi del pubblico interpretando una Lisetta davvero convincente, per timbro di voce, varietà di virtuosismi ed espressività.

Sugli scudi anche Giorgio Caoduro, autorevole Filippo e Pietro Adaìni, un Alberto convincente e applaudito in particolare nell’aria del second’atto.

Gli altri interpreti tutti su un più che discreto standard, a partire dalle due voci femminili, la Doralice di Martiniana Antonie e la Madama La Rose di Andrea Niño; così come onorevoli mi son parse le prestazioni di Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen).

Apprezzabile infine l’apporto del Coro del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani che ha contribuito alla generale godibilità della serata.
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Otello (nuova produzione affidata alla pesarese Rosetta Cucchi) ha chiuso l’11 agosto (Vitrifrigo Arena) il primo dei 4 cicli di rappresentazioni del cartellone principale del ROF-43.

Un’edizione che sul piano musicale - almeno a giudicare dall’ascolto radiofonico e dall’accoglienza del pubblico – si direbbe sia di un livello più che apprezzabile, il che costituisce un buon viatico per chi come il sottoscritto si prepara a seguirla dal vivo nei prossimi giorni.

E una costante emersa dalle tre serate pare proprio essere l’affermazione delle altrettante protagoniste femminili di questo Festival: anche in Otello ha particolarmente brillato la Desdemona di Eleonora Buratto, trionfatrice della serata.

Accanto a lei i tre tenori protagonisti, tutti veterani del ROF – Enea Scala nel ruolo del titolo, Dmitry Korchak (Rodrigo) e Antonino Siragusa (Jago) – hanno completato un cast ben assortito e capace di valorizzare una partitura che è a torto troppo spesso sottovalutata, messa fatalmente in ombra dall’avvento della coppia di tali Verdi&Boito

Evgheny Stavinsky (un Elmiro un po’ troppo vociferante), Adriana Di Paola (un’onesta Emilia) e gli altri due tenori (Julian Henao Gonzales, apprezzabile Gondoliere e il Doge di Antonio Garès) hanno dato il loro onesto contributo alla riuscita dello spettacolo.

Ovviamente insieme al Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina e all’impeccabile OSN-RAI sotto la guida del solido Ives Abel, altro veterano avendo diretto a Pesaro fin dal 1995.

La radio ci ha portato anche reazioni del pubblico alle regìe, positive per Ory e Gazzetta e contrastate per Otello: vedremo poi dal vivo.


21 agosto, 2015

Il ROF-36 live (3): La Gazzetta

 

Ieri sera, in un Teatro Rossini piacevolmente gremito, ultima recita al ROF-36 della nuova produzione de La Gazzetta, che ha chiuso così la sua terza presenza al Festival, la prima in forma finalmente completa. La novità del quintetto dell’atto primo (Già nel capo un giramento) è ovviamente al centro dell’attenzione, tanto da occupare gran parte dei saggi pubblicati sul programma di sala a firma di due autentiche autorità in merito: nientemeno che gli editori critici della partitura, Philip Gossett e Fabrizio Scipioni.

 

Gossett – tornato di persona sui luoghi dei suoi vecchi amori e del suo… divorzio - ricostruisce, per così dire, i retroscena musicologici relativi al quintetto: nella sua prima edizione del 2000 (rappresentata al ROF nel 2001, poi ripresa nel 2005, con Dario FO) Gossett stesso aveva musicato il recitativo della scena VI (Alberto che dichiara il suo amore a Doralice, creduta figlia di Pomponio) e poi il testo del quintetto (scena VIII) era stato declamato sul sottofondo al fortepiano della Danza dalle Soirées musicales. Una soluzione assai più complessa e ardita era stata poi proposta in Germania da Stefano Piana, che aveva presentato il quintetto con musiche derivate per induzione dal sestetto de La Cenerentola (opera successiva e oggetto di importanti imprestiti da La Gazzetta, a partire dall’intera Sinfonia) e dal quartetto de La scala di seta, oltre che dal finale primo del Barbiere, per il famoso Mi par d’esser con la testa.  

 

Gossett ammette di aver molto apprezzato l’acume di Piana nel predisporre la sua soluzione alla mancanza della musica del quintetto, soluzione che è poi stata in gran parte invalidata dal recente ritrovamento dell’originale di Rossini. Che ha rivelato come la prima sezione del quintetto medesimo sia musica del tutto nuova (c’è in effetti una premonizione a La Cenerentola, ma non al sestetto, bensì all’introduzione); che la seconda derivi effettivamente da La scala di seta, ma con importanti modifiche, specie nelle modulazioni di tonalità; e che la terza riprenda sì il sestetto del Barbiere, ma anche qui con importanti varianti (non c’è la sezione in MIb e nel finale il DO maggiore lascia fugacemente spazio ad un LAb maggiore).   


Da parte sua Scipioni, dopo aver ricostruito le vicende che portarono alla creazione del libretto (da Goldoni) e alla rappresentazione dell’Opera, ci ragguaglia con minuziosi dettagli riguardo ai numerosi imprestiti sparsi nella partitura, ma concentrati prevalentemente nel primo atto. Oltre a quelli già citati da Gossett, veniamo a sapere che già nell’Introduzione quadripartita troviamo il coro (Chi cerca il piacere) che proviene da Torvaldo e Dorliska; poi, dopo l’aria di Alberto, nuova, il recitativo accompagnato (Oh sior Alberto) da L’equivoco stravagante e da La scala di seta; infine il terzetto con coro (Portala qua) ancora da Torvaldo. La cavatina di Lisetta (Presto, dico) proviene, ma diversamente orchestrata, dall’aria sostitutiva di Fiorilla (Presto amiche) del Turco in Italia. Il finale primo, strutturato in quattro sezioni, presenta nella terza (Giusto ciel) un imprestito dal Torvaldo. Altri imprestiti più o meno corposi vengono da La pietra del paragone, La cambiale di matrimonio e Sigismondo.

La presenza del quintetto appare davvero come una necessità (musicale innanzitutto, ma anche drammaturgica e spettacolare) tanto che si fatica ormai ad immaginare come potesse configurarsi una rappresentazione che ne fosse priva: e questo credo proprio spieghi la lunghissima assenza dalle scene di un’Opera che aveva un primo atto ridotto musicalmente, drammaturgicamente e spettacolarmente ad un corpo deforme perché mutilato. Restano così ancor più inspiegabili le ragioni per cui Rossini in persona lo volle rappresentato in tal forma.
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Ieri l’ascolto (e visione) dal vivo mi ha confermato la buona impressione della prima ascoltata in radio, e anche il pubblico ha mostrato di apprezzare, applaudendo a scena aperta dopo ciascun numero, e tributando alla fine un meritato trionfo per tutti.

E su tutti ha spiccato lo Storione del volga di Nicola Alaimo, per possanza di voce (oltre che per… stazza fisica!): qualche eccesso gli si può perdonare, portandolo a credito della componente attoriale della sua prestazione.

Benissimo l’esordiente (al ROF, sia chiaro) Vito Priante, un Filippo davvero convincente, bella voce tornita e chiara in tutta l’estensione, da baritono rossiniano. Buone notizie anche per Maxim Mironov, che si è confermato tenor-ino (nella voce, -one nel fisico da cestista) di qualità, presentandosi subito sicuro nell’esordio di Ho girato il mondo intero, e poi guadagnandosi un’ovazione alla fine dell’aria del second’atto (O lusinghiero amor).
Completavano la sezione-androceo del cast Andrea Vincenzo Bonsignore, che si è onorevolmente accollato la parte non proibitiva di Traversen, e Dario Shikhmiri, un onesto Anselmo.

Nel campo femminile, discreta prestazione della Lisetta di Hasmik Torosyan (per la verità mi aveva meglio impressionato alla radio) che è dotata di voce ragguardevole che però, soprattutto salendo agli acuti, tende un filino a stimbrarsi, virando al… metallizzato. Discreta la sua tecnica, come testimoniato dai virtuosismi richiesti dalla parte. Abbastanza sicura Raffaella Lupinacci, che ha creato un’onorevole Doralice, manifestatasi in pieno nell’aria (spuria) Ah, se spiegar potessi. Un gradino sotto (per me, s’intende) la Madama di Josè Maria Lo Monaco, voce dal timbro sgradevole e intonazione non sempre appropriata. Le tre cantanti (così come Bonsignore e Shikhmiri) vengono da recenti esperienze dell’Accademia di Zedda (che sedeva in un palco a ricevere i loro omaggi…) il che testimonia della validità di tale iniziativa, ma anche di una certa fretta nel promuovere le voci al cartellone principale del ROF.

Il coro maschile di Andrea Faidutti ha meritoriamente dato il suo contributo al successo della serata. Enrique Mazzola ha confermato quanto di buono udito in radio: direzione attenta ai particolari e alle sfumature (qui l’Orchestra bolognese ha confermato la sua buona forma) e precisa concertazione delle voci; insomma, per lui un ritorno proficuo al ROF dopo le presenze marginali (ma significative) risalenti all’ultima fine-secolo (!)
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L’allestimento di Marco Carniti (applauditissimo anche lui alle uscite finali) mi è parso complessivamente indovinato. Le scene di Manuela Gasperoni assai spartane, racchiuse da lunghi pannelli a mo’ di tendaggio semitrasparente, con tavoli mobili e poco più (così immagino abbiano contribuito a non far aumentare troppo il rapporto debito/PIL del Festival) hanno comunque creato spazi e occasioni per i movimenti di singoli e masse. Simpatici i costumi di Maria Filippi ed efficaci le luci di Fabio Rossi. In generale mi è parso di rilevare una specie di crescendo (rossiniano) nella tinta complessiva della scena: si è passati da mille sfumature di grigio (con poco bianco e nero) del primo atto ad una progressiva accentuazione cromatica col progredire della rappresentazione.

Da segnalare in particolare la sceneggiatura del terzetto maschile del second’atto (il duello) che ha impegnato i protagonisti in esilaranti gag, con Alaimo nelle vesti dell’elefante ballerino, culminate in uno sfrenato Cantiamo, balliamo, che ha strappato un uragano di applausi divertiti.

Non si può a questo punto non parlare del Tommasino di Ernesto Lama. Come la gazza di Michieletto e il ragazzino-minatore di Vick, è stato il prezzemolo sparso a piene mani sulla rappresentazione. Lui sembrava un Pietro DeVico di buona memoria, una macchietta straordinaria cui Carniti ha affidato il compito di vivacizzare ogni scena, mettendogli anche in bocca qualche battuta non precisamente scritta da Palomba. E affidandogli anche qualche sottile (e tutto sommato innocente) messaggio socio-politico (Vick ha fatto scuola) culminato nel cartello esibito alla fine: con la cultura si mangia?  

Ecco, facendo proprio questo drammatico interrogativo, chiudo il mio personale diario del ROF-36 operistico. Mi resta però ancora un’ultima stazione di via-crucis (smile!): eh sì, quella dove… Stabat Mater.