Rieccomi sulla
riviera adriatica (dove all’apocalisse pronosticata da sedicenti saggi in
conseguenza della caduta di supermario nessuno sembra far caso) per il
mio personale esordio (come spettatore, s’intende) al ROF-XLIII. Assistendo alla
terza recita de La Gazzetta, una ripresa rivisitata della fortunata
produzione di Marco Carniti del 2015, che
fu anche da me a suo tempo ammirata.
Dico subito che la serata è iniziata in tono minore, poi vivacizzatasi man mano: forse condizionata, chissà, dalla scarsità (molte, troppe poltrone vuote in platea e nei palchi) e iniziale freddezza del pubblico. Sta di fatto che il primo atto ha cominciato a prender quota solo al momento del famoso (perché ritrovato da pochi anni) quintetto Già nel capo un giramento… Insomma, dopo l’ascolto della prima del 10 agosto in radio mi ero fatto aspettative migliori, ecco.
Com’è noto, l’opera rappresentò l’esordio di Rossini in territorio buffo a Napoli, la capitale italiana (e forse europea, ai tempi, 1816) del teatro musicale. Ebbene: due napoletani veraci, Carlo Lepore e Maria Grazia Schiavo, hanno impersonato qui la coppia padre-figlia, Prosdocimo-Lisetta, in viaggio di piacere-interesse a Parigi, dando così anche un tocco di realismo alla vicenda improbabile che un altro napoletano, Giuseppe Palomba, aveva inventato (beh, insomma, facendosi aiutare da… Goldoni) per la speciale occasione.
Lepore è un perfetto Prosdocimo Storione, una specie di prototipo di personaggi cui darà vita il grande Totò, del quale non per nulla vengono richiamate alcune gag passate alla storia. Oltre che cantare da par suo, eccelle ovviamente nei frequenti parlati in partenopeo, che esigono nativa, quindi assoluta dimestichezza con quel dialetto.
Lisetta, che il librettista presenta in modo (almeno apparentemente) contraddittorio, affibbiandole l’epiteto francamente equivoco di donzella scaltra e baggiana (!?) è resa in modo apprezzabile dalla Schiavo, che mette la sua abilità vocale nella coloratura al servizio della natura bifronte del personaggio. E inoltre la sua voce acuta e penetrante svetta sempre nei duetti e concertati.
Fra gli altri protagonisti emerge prepotentemente, per vocalità e presenza scenica, Giorgio Caoduro, che passa autorevolmente dalla sua identità reale (Filippo, il locandiere) a quelle virtuali di quakero e turco. Qualche eccesso di forzatura nella parte acuta della tessitura non inficia il giudizio positivo sulla sua prestazione, confermato dalle ovazioni ricevute alle uscite finali, oltre che agli applausi a scena aperta dopo il duetto con Lisetta e la sua aria Quando la fama altera…
Pietro Adaìni impersona un Alberto convincente, voce squillante e omogenea in tutta la gamma: dopo un esordio un poco trattenuto (Ho girato il mondo intero) anche lui è cresciuto meritando applausi con l’aria O lusinghiero amor.
Doralice è Martiniana Antonie, che mette in bella mostra la sua voce corposa di mezzosoprano, che dopo l’aria (di mano aliena, peraltro) Ah, se spiegar potessi, avrebbe anche meritato un applauso che invece il pubblico ancora freddino le ha negato. Prezioso anche il suo contributo ai concertati.
Con lei bene ha meritato l’altra mezzo, Andrea Niño, efficace Madama La Rose, vocalmente e scenicamente.
Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen) hanno onorevolmente completato la squadra delle voci.
Mirca Rosciani ha ben guidato il Coro (qui di soli maschi) del Teatro della Fortuna, componente non marginale dell’opera.
Da ultimo lascio l’unico superstite (fra coloro che escono in scena) del 2015, Ernesto Lama, il Tommasino (quasi) muto che qui assume il ruolo del catalizzatore nelle reazioni chimiche: e anche ieri ha simpaticamente contribuito ad aggiungere verve a questo godibile spettacolo.
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