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19 dicembre, 2015

Riecco la Giovanna: salvata dal rogo dai registi?


Mah, io mi convinco sempre di più che debba essere salvata – nel senso di tenuta lontana! - da registi cialtroni e da esegeti con la puzza al naso. Dichiaro subito: non considero assolutamente la Giovanna un capolavoro, chè altrimenti dovrei inventarmi qualche astruso neologismo per apostrofare Otello… Ma allo stesso tempo penso che sia sommamente sbagliato sostenere che tutto ciò che capolavoro non è sia per definizione ciofeca. In un’ipotetica piramide suddivisa orizzontalmente in tre sezioni, collocherei Giovanna nella parte alta di quella mediana, ecco. Quindi: tutto salvo che brutta, come la catalogò il pur sommo Massimo Mila, assieme ad altre cinque sorelle derelitte, tra le quali un’altra opera che si appresta ad aprire la stagione 2016 in uno dei principali teatri italiani (Attila, a Bologna).

Nel suo citato testo (dove si riassumono le lezioni universitarie da lui tenute negli anni ’60) Mila affianca a benevoli apprezzamenti di tono paternalistico autentiche stroncature di ferocia inaudita. Della cavatina Pondo è letal il nostro parla come di crollo (estetico); poi di perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica a puro scopo edonistico, per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere al tenore l’esibizione delle sue facoltà; poi ancora di melodia sciocca e fatua; e infine pure… gaglioffa! Accipicchia: messa così si dovrebbe allora buttare nel cesso mezzo Verdi, dalla pira alla donna mobile, ai bollenti spiriti (tanto per restare alla invece santificata trilogia): non sono altrettanti pretesti per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere esibizioni delle facoltà del tenore?

Dopo aver liquidato di passaggio come poco significante la melodia della cavatina Sempre all’alba, Mila apostrofa come un caso di brutto-oltraggioso e come goffaggine e gagliofferia il coro dei demoni (al ritorno nel second’atto lo definirà futile barcarola). È vero che la bizzarra filastrocca di Solera è perenne oggetto di lazzi e sberleffi, ma in realtà rappresenta perfettamente gli stereotipi radicati nelle usanze del popolino, riassumibili nel concetto: ogni lasciata è persa… Quindi il testo e la musichetta di walzer che lo sorregge sono (per me) un mirabile esempio di equilibrio e di stile, mi verrebbe persino da spendere il termine poesia per definirli. Mila poi così si esprime sul duetto Son guerriera: un’atroce cabaletta (…) su un accompagnamento dozzinale; che dopo la parentesi del terzetto a cappella, viene ripresa dai tre che si mettono a berciare (…) sul suo sfacciato accento giambico.

Le due sezioni dell’aria doppia di Giacomo (atto II) sono (è sempre Mila) melense e oziose, melodicamente cincischiate. Cincischiata è anche la romanza di Giovanna (O fatidica foresta). Il duetto Giovanna-Carlo è affetto dal più vieto e superficiale dinamismo rossiniano (per Gino Roncaglia è uno dei momenti più stolidi dell’opera). Quanto al finale dell’atto II, esso mescola autentiche intuizioni drammatiche a obbrobriose banalità. Qui Mila si lascia purtroppo andare ad una miserabile considerazione di carattere ideologico: a proposito dell’ultimo intervento dei diavoli che cantano vittoria, scrive di brutale arpeggio, una specie di “Allarmi, siam fascisti!” Ora, che quell’inciso sia stato impiegato da tale Mario Ruccione (o chi per lui, e coscientemente o per pura combinazione) per supportare il testo dell’Inno fascista di Luigi Landi sarà pur vero, ma accadrà 90 anni dopo la composizione di Giovanna: e da quando in qua le colpe dei pronipoti ricadono sui bisnonni?

La marcia che apre l’atto III è da Mila benevolmente accreditata di essere un lontanissimo antefatto di quelle (…) del DonCarlo o dell’Aida, ma forse meglio come documento delle attività municipali del giovane Verdi per la banda comunale di Busseto (!) Più avanti affermerà che Verdi non aveva neanche tentato uno sforzo d’ambientazione storica (cioè, ndr: la banda comunale di Reims?!? Ah no, la Messa di Machaut!) Gli interventi di Giacomo (recitativo, romanza, declamato e aria) vengono liquidati come privo di interesse, con accompagnamenti convenzionali, senza importanza musicale, piuttosto banale melodicamente… Il concertato finale ha una realizzazione men che modesta (…) senza reale consistenza di valori né musicali, né drammatici.

Il quarto atto è considerato da Mila (con la prima parte del primo) la cosa migliore dell’opera. E meno male! Perchè anche qui non mancano accuse di cadute nella banalità convenzionale, di incompatibilità stilistiche, di superficiale ed edonistica ricerca della bella melodia. Ancora: recitativo banalevolgari ritmi orchestrali di accordi ribattutiprogressione volgarebrutale, di gusto discutibile… 
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Mah, credo che si possa tranquillamente negare alla Giovanna lo status di capolavoro senza per questo abbassarsi a simili (abbastanza) gratuite denigrazioni, ecco.

E la più chiara risposta alle denigrazioni dei critici alla Mila viene proprio dal fronte musicale di questa produzione scaligera (ieri sera quinta recita - primina del 4 esclusa) e da chi ne è responsabile in-primis: Riccardo Chailly. La cui direzione ha precisamente trasformato in pregi tutti i difetti attribuiti alla musica: nulla di ciò che si ode qui è banale, cincischiato, volgare, brutale o discutibile, poiché tutto ha un senso narrativo assolutamente coerente ed esteticamente nobile. A partire dalla Sinfonia, che in sé concentra mirabilmente sia i contenuti pubblici (storici, religiosi) del dramma, sia quelli legati alla sfera privata ed alla psicologia dei protagonisti. Se devo proprio trovare un pelo nell’uovo nella direzione del Maestro citerò due, massimo tre circostanze in cui il fracasso orchestrale ha parzialmente coperto le voci (di Meli, nella chiusa della cavatina d’esordio, e Álvarez, nelle arie del primo e second’atto). Per il resto, si merita alle mie orecchie un voto fra il buono e l’ottimo. Stesso voto da attribuire all’Orchestra, che ha risposto proprio come un unico strumento alle sollecitazioni di Chailly.      

Anna Netrebko non avrà un timbro di voce dei più gradevoli (quando sale agli acuti) ma la facilità con la quale supera gli ostacoli di una tessitura massacrante (nell’estensione e nelle perorazioni a voce piena, vedi finale terzo) e la potenza del suo strumento, che invade anche gli spazi siderali di un Piermarini, fanno di lei una Pulzella di valore assoluto.

Francesco Meli si conferma tenore di altissima qualità: non una sbavatura sul lato tecnico (intonazione e aderenza al testo) e grande attenzione a tutte le sfaccettature che la parte di Carlo presenta a livello di espressività. La voce non ha certo la potenza di decibel della Netrebko e ciò ha comportato (complice Chailly, come detto) qualche circoscritto problema di udibilità, ma parliamo di piccoli dettagli che nulla tolgono all’eccellenza della prestazione complessiva. E qualche attenuante Meli la può vantare a carico dei registi, che lo costringono a cantare spesso e volentieri sdraiato per terra, appoggiato su un gomito.

Carlos Álvarez, alla sua seconda prova dopo i forfait iniziali, non ha mancato di portare il suo contributo di grande esperienza e mestiere: anche per lui vale il discorso sulla potenza dello strumento fatto per Meli. In ogni caso il suo è stato un Giacomo più che convincente.

Bene i due comprimari: soprattutto Dmitry Beloselskiy, un efficace Talbot; e poi Michele Mauro, onesto Delil.

L’altro personaggio di importanza capitale è il Coro: e quello di Casoni ha mostrato ancora una volta la sua eccellenza in opere come questa; sempre compatto e preciso, sia quando si deve far udire – in modo arcano - cantando fuori scena, sia nelle irruzioni a tutta forza cui è chiamato da Verdi nelle grandi pagine di carattere retorico.

Insomma, una Giovanna per la quale mi sento di sprecare l’attributo di superlativa, ecco.       
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Superlativa sul piano musicale. Quanto ai registi, ciò che compare sul programma di sala sulla loro concezione dell’opera è talmente contorto e contraddittorio da farli apparire come due pesci fuor d’acqua che hanno preteso di mettersi a correre in un autodromo…

Raccontare la storia di un certo personaggio facendola vivere ad un nuovo soggetto che nulla ha a che fare con il personaggio in questione, ma che – causa turbe psichiche assortite - immagina, vorrebbe, millanta, crede o sogna di esserlo, e di lui (lei) veste i panni, è idea tanto geniale quanto frusta, ma soprattutto estremamente rischiosa. Principalmente perché il nuovo protagonista, affinché tutta l’operazione abbia un senso qualsivoglia, deve necessariamente comportarsi in modo difforme dall’originale, e l’ambiente (materiale e umano) in cui esso si muove deve necessariamente essere diverso da quello in cui si muove l’originale. In caso contrario l’idea registica va subito a meretrici, chè si riduce allora a far scimmiottare ad alcune controfigure le stesse gesta del protagonista originale e di chi gli stava attorno, dando luogo ad una semplice, banale, stupida e soprattutto peggiorativa imitazione, o al massimo ad una parodia.

Ed è proprio ciò che succede con questa regìa, che invece di aggiungere valore ad un’opera che ne avrebbe (secondo i registi e gli esegeti con la puzza al naso) assai poco, finisce per sottrarre valore ad un’opera che non è assolutamente la ciofeca che costoro vorrebbero dipingerci. Insomma: ai due registi non è parso vero di poter sfruttare a proprio vantaggio tutte le facili stroncature di cui è fatto oggetto da sempre l’originale (il testo di Solera, ma anche la musica di Verdi) ed hanno quindi avuto buon gioco nel decidere – per loro stessa ammissione – di cambiargli i connotati! Permettendosi quindi di sbeffeggiare non solo il Solera, ma anche il Verdi, che il libretto di Solera aveva evidentemente apprezzato (e sappiamo quanto il cigno di Busseto fosse esigente in fatto di livello estetico dei testi da musicare.) Purtroppo per loro, non siamo ancora arrivati ad accettare che il testo e la musica originali vengano anch’essi modificati in relazione al Konzept registico, cosicchè i poveri registi sono costretti comunque con l’originale a farci i conti: e da qui nascono un’infinità di incongruenze e di stupidaggini, che finiscono per rendere il soggetto da loro manipolato ancor più criptico e paradossale di quanto l’originale non venga da loro dipinto.

Nel soggetto di Solera-Verdi il privato dei personaggi (con tanto di rapporti conflittuali e/o amorosi, di sentimenti e ipocrisie, di egoismi e pregiudizi e di schizofrenie assortite) occupa di certo una posizione preminente, ma non esclusiva, dato che si inserisce in un pubblico rappresentato dallo scenario politico della guerra dei 100 anni. Certo, l’opera non vuole essere un testo di storia per le scuole medie, nondimeno la Storia (per quanto falsificata, proprio a partire dal dramma di Schiller cui si ispirò Solera) ne è parte integrante e irrinunciabile, coinvolgendo comportamenti di popoli, eserciti, sovrani e comandanti (quindi testo e musica di cori e singoli). Così come la Religione, che mette il naso sia nel privato che nel pubblico e condiziona credenze, costumi, giudizi, e quindi comportamenti (leggi sempre: testo e musica) degli individui e delle masse. Insomma, accanto a quelli di natura privata e personale, gli aspetti relativi a tematiche di natura pubblica (politica, religiosa) sono fondamentali nell’originale di Solera-Verdi, dove l’individuo (tutti i protagonisti) opera e si muove all’interno di una società di cui subisce i vincoli e con le regole (politiche, religiose) della quale si deve continuamente confrontare. (È vero o no che si parla di Giovanna come di un passaggio che avvicina Verdi al GrandOpéra meyerbeeriano? e ci sarà pure un motivo…) 

Ebbene, tutti questi aspetti vengono distorti e ridotti a parodia dall’idea dei registi di mettere al centro della loro messinscena nemmeno più una persona, ma addirittura la sua patologia: ecco allora che tutto quanto ruota intorno a quella persona perde totalmente di pregnanza e persino di significato, essendo stato degradato a pura proiezione del subconscio di un individuo malato di mente: ciò che rimane allo spettatore è il racconto di un caso clinico più o meno interessante o disperato, ma nulla più. 

Emblematica della confusione generata nello spettatore dall’idea registica è la figura di Giacomo. Al quale i registi sono costretti (dal libretto di Solera che loro non si azzardano a modificare) a far assumere il magico ruolo di intermediario fra la realtà - di metà ‘800, dove in questa produzione è ambientata l’opera - e le fantasie della figlia (epoca 1429-31). Lui è infatti il padre sano della falsa Giovanna, malata di mente, quindi è chiamato contemporaneamente a prendersi cura della salute della povera figlia, ma anche a tenerle bordone diventando protagonista delle sue allucinazioni: andando a trattare per consegnarla agli inglesi di Enrico VI; poi accettando di svergognarla pubblicamente davanti a Carlo VII a Reims; infine consentendole di compiere la sua ultima impresa guerresca.

Ecco, ciò che lo spettatore fatica a comprendere sono le due trasformazioni della figura del padre (andata e ritorno, fra realtà e sogno della figlia). La prima è appena-appena percettibile allorquando si rialza il sipario (che durante la Sinfonia si era già alzato e poi riabbassato per mostrarci l’ambiente ottocentesco dove Giovanna malata è assistita dal padre): qui si odono i cori (nascosti in penombra dietro una vetrata) e poi qui arriva il dorato Re Carlo. Ebbene, del padre (vero) di Giovanna si intravede solo un braccio sporgente da una poltrona che dà le spalle al pubblico e sulla quale lui è evidentemente addormentato, poiché d’ora in avanti sarà anche lui parte delle allucinazioni di Giovanna. Ma mi domando quanti abbiano potuto afferrare questo dettaglio fondamentale della concezione registica. Peggio ancora la scena finale, dove si torna alla realtà di Giovanna malata e morente: qui testo e musica costringono i registi a far convivere la realtà (la poveretta assistita dal padre) con la fantasia: Re Carlo che assiste di persona, dovendo cantare insieme ai due e agli spiriti. Insomma, un bel… risotto. 

E sì che nell’originale di spunti interessanti per una regìa davvero di rottura ce ne sarebbero: ne cito solo un paio. Diavoli-Angeli: che fosse volontario o meno da parte del librettista, ecco un curioso ma significativo risvolto filosofico nelle figure di questi esseri ultraterreni: i primi (fate l’amore e non la guerra) sono dei pacifisti; i secondi dei biechi guerrafondai!

E poi la Madonnina (che te brilet dè luntan…): i registi ne mettono una statuetta di cartapesta (o di legno o coccio) da giardino (o presepe-gigante) in braccio a Giovanna, che se la porta dietro e poi la lascia al proscenio, sempre a portata di… sguardi del pubblico. Ecco, questa sarebbe anche un’idea condivisibile (a parte le dimensioni esagerate…) stante la devozione che la Giovanna di Solera (così come quella di Schiller) ha per la Vergine Maria, dalla quale ha avuto l’imbeccata per… arruolarsi. (Nella realtà la pulzella aveva invece ben tre sponsor, fra arcangeli e sante.) Però attenzione: in Solera (non in Schiller, ma qui chi fa testo, col permesso dei registi, è di diritto il librettista!) la Madonna è anche l’imbeccatrice di Re Carlo! Che si mostra a lei devoto altrettanto, se non più, della pulzella. E allora ecco che i registi hanno dimenticato di mettere in braccio al reuccio un’altra madonnina, un po’ diversa però da quella di Giovanna. Sì perché avrebbe dovuto avere un manto recante la union-jack, visto che ha ordinato a Carlo di arrendersi all’albionico invasore, cedendogli gentilmente il trono! La madonnina di Giovanna andava a quel punto rivestita con il tricolore, avendo manifestato invece patriottismo per la Francia. Poi, alla fine del primo atto, Carlo avrebbe dovuto strappare il manto traditore alla sua madonnina, e rivestire anche quella con il tricolore, oppure buttarla direttamente in un cassonetto per trastullarsi anche lui con quell’altra, da lì in avanti. Sarebbe stato un modo memorabile per spiegare al pubblico un aspetto della vicenda (secondo Solera) che viene normalmente ignorato e che soprattutto i registi hanno ignorato: una chiarissima allegoria dell’intreccio politica-religione, una delle problematiche capitali di tutta la storia europea dal medioevo ai giorni nostri…

Criticabili poi alcuni dettagli della messinscena. Mi limito a citarne solamente uno per tutti: mostrare scene cruente di battaglia contraddice spirito e lettera del libretto e della musica, nei quali esse vengono relegate a pochi accenni fatti da Giovanna alla fine del primo atto, o dagli inglesi all’inizio del secondo, o ancora da Giacomo con la sua cronaca nel finale. Tuttavia, quali che fossero le motivazioni (la censura magari, ma più verosimilmente i canoni estetici che il melodramma si auto-imponeva a quei tempi) sta di fatto che Solera-Verdi si guardarono bene dal mettere in mostra la benchè minima violenza o crudeltà. Che qui invece ci vengono propinate a piene mani alla fine del primo atto, compresa la vista di Giovanna che dà il colpo di grazia - calandovi nel petto a due mani e in modo invero orripilante il suo spadone - ad un soldato nemico già atterrato e indifeso.  
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Che dire? Che ancora una volta si sono buttati soldi del contribuente per mettere in piedi un allestimento tanto strampalato quanto pretenzioso. Una regìa di quelle che i soliti con la puzza al naso chiamerebbero museale avrebbe garantito alla produzione un price/performance assai migliore.

19 febbraio, 2014

Un Trovatore… trovatello?

 

No, il titolo non è farina del mio sacco, ma qualcuno lo coniò ai tempi di Muti, ultimo a proporre l’opera in Scala nell’ormai lontano 2000 (ma l’allestimento è proprio quello ripreso oggi).

 

Certo, se era un trovatello quello di Muti con Nucci-Frittoli-Urmana-Licitra (tutti al loro top, ai tempi) allora per quello di oggi si dovrebbe inventare un nomignolo davvero imbarazzante! Invece, dopo la prima semi-burrascosa (a leggere in giro) di sabato scorso, ieri la seconda è passata (come da cliché, che vuole la Scala trasformarsi in MET) non solo senza danni, ma in modo più che positivo. Però in un teatro che purtroppo presentava numerosi vuoti: brutto segno, trattandosi della riproposta dopo anni di uno dei titoli che dovrebbero immancabilmente fare cassetta.

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Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora). Ecco, riguardo i due personaggi il buon librettista si prese una non marginale libertà rispetto all’originale ispanico, come vado a spiegare.


Sappiamo che il Conte fa la parte del cattivone: viene risparmiato da Manrico in un duello rusticano (a proposito di Leonora) e per tutta… riconoscenza più tardi lo ferisce quasi mortalmente in battaglia; poi vuole conquistare Leonora - che non lo ama affatto - a tutti i costi e con tutti i mezzi, proprio come fosse un oggetto (Leonora è mia!) Ergo gli viene affibbiata, secondo i sacri crismi del melodramma, la tessitura vocale di baritono. A Manrico – buono, disinteressato, amorevole e soprattutto… riamato da Leonora (soprano) – tocca ovviamente, secondo gli stereotipi della lirica, la voce di tenore.

Ne consegue che il Conte (laido, protervo e libidinoso) deve apparire anche piuttosto attempato, se non proprio vecchio; Manrico (puro, eroico e idealista) giovine. E infatti il libretto di Cammarano ci conferma che il Conte è il fratello maggiore; infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio della prima parte, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del secondo nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena (mezzosoprano) per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Bene, qual è la libertà che si è preso Cammarano? Semplice: invertire l’età dei due personaggi! In Gutiérrez Manrique è infatti il maggiore, e Nuño (il Conte) è più giovane di due anni. Racconta infatti Jimeno: Don Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire certe …ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte: él es... tu hermano, imbécil!  
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Ora vediamo come mi è parsa la recita di ieri.


Maria Agresta si conferma cantante di gran talento: una Leonora convincente, proprio in virtù della sua voce, che non è da soprano drammatico spinto, e quindi è aderente a questo personaggio verdiano, lontano assai dalle Abigaille e consimili. Piccola pecca la scarsa penetrazione (negli ampi spazi scaligeri) del registro basso.   

 

Ekaterina Semenchuk mi è parsa musicalmente un po’ troppo… zingarella (smile!) Nel senso di non avere un chiaro indirizzo di casa, quanto ad approccio interpretativo. Però la voce c’è, e tanta: andrà (se lei lo vorrà e saprà fare) meglio coltivata.

 

Marcelo Álvarez si è difeso con mestiere, distribuendo bene le sue (non esuberanti) energie per arrivare sano e salvo alla fine. (Mi chiedo ancora perché, per le parti da eseguire fuori scena - qui sono due - il cantante venga seppellito chissà dove, cosicchè la voce pare arrivi dall’aldilà…) Quanto alla pira, anche lui ha scelto la soluzione (relativamente) più conservativa: intanto si è scontato la ripetizione, poi non volendo rinunciare a far colpo sul pubblico, con lo sparo della tonica finale (invece di fermarsi, come scrive Verdi, alla più comoda dominante) e nel contempo evitare figuracce (il DO è pur sempre un azzardo…) è prudentemente degradato sul SI, come del resto hanno fatto e fanno spesso anche i tenori più titolati. Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:

Se il tenore, sul fi-glio, invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema agli orecchi dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa…

Franco Vassallo così e così: chissà, forse per cercare di conquistare Leonora, lui prova a cantare come… Manrico (stra-smile!) Quello che ne esce fuori è un Luna…tico (!)

Chi ha fatto la sua bella figura (ma pochi avevano dubbi, data la caratura del basso coreano) è Kwangchul Youn: un Ferrando assolutamente di alto livello.

Marzia Castellini (Ines) e Massimiliano Chiarolla (Ruiz) bene nelle loro piccole parti. Come sempre onesti comprimari l’immarcescibile Ernesto Panariello e Giuseppe Bellanca.

Il Coro di Casoni in queste opere si trova proprio a casa sua e non si è smentito.

Che dire di Daniele Rustioni? Che non sarà il migliore, ma nemmeno il peggiore del pacchetto di ggiovani che in questi ultimi anni la Scala ha deciso di mandare… allo sbaraglio. Per prudenza, si è portato sul leggìo una seconda bacchetta di scorta (non si sa mai…) Così anche lui – piuttosto contestato, così si racconta, alla prima – ha ricevuto, come tutti, solo applausi e pure qualche bravo!
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Quanto alla messinscena (di Hugo De Ana, a.d. 2000) è di quelle – magari fin troppo - serie e rassicuranti (qualità ai giorni nostri sempre meno reperibili in natura e sempre più vituperate dalle élite che contano).

In definitiva, un trovatello (smile!) non proprio disprezzabile.

03 maggio, 2012

Riecco alla Scala la Toscaccia di Bondy, un pochino ricondizionata


Forse perché sono ancora da ammortizzare i costi dell’allestimento (altre serie ragioni non se ne vedrebbero, perlomeno…) la Scala ripropone anche in questa stagione la deplorevole Tosca di Luc Bondy, che già fece i suoi danni poco più di un anno fa. E, a differenza di allora, è pure inserita nel programma in abbonamento, così – avendola già pagata – un abbonato non può esimersi dal risorbirsela (d'altronde sarebbe azione quanto mai disdicevole, da parte dell’abbonato medesimo, deleteria per la promozione dell’opera lirica, nonchè punitiva verso un amico, prestargli la tessera d’abbonamento per l’occasione, smile!)

In realtà qualcosa di buono nel frattempo è accaduto poichè, essendo il regista svizzero contumace, in questa ripresa la brava Lorenza Cantini fa del suo meglio per smussare, se non proprio per cancellare del tutto (cosa impossibile) le sue principali efferatezze, in specie quelle del secondo atto. Insomma: una produzione che resta semplicemente sconcia, ma non più da codice penale (ri-smile!)

Per le prime due rappresentazioni si è ripetuto un copione ormai quasi obbligato al Piermarini: buh e grida di vergogna alla prima e poi quasi un trionfo alla seconda, oltretutto col cast alternativo. E anche certe reazioni sono state fedeli a quel copione: chi ha assistito alla seconda recita (e non alla prima) crede di aver la prova provata che l’insuccesso di quella fosse opera dei soliti sabotatori di professione; chi ha assistito alla prima (e non alla seconda) si dice certo che il successo di quest’ultima sia da ascriversi all’ignoranza del pubblico bue. Insomma: dispute da bar-sport, ma proprio di quelli che espongono il cartello vietato l’ingresso ai cani e alla logica

Insomma, eccomi puntuale in prima galleria a risentirmi (guardando il meno possibile…) questa straordinaria espressione del genio italico, una storia tutta fuoco e passioni come di più e meglio non potrebbe uscire dallo scenario della Roma papaloide di fine ‘700, mirabilmente descritta con gli strumenti musicali di fine ‘800.

Devo dire che, date le premesse, mi aspettavo di molto peggio. Invece devo ammettere che si è trattato di una prestazione complessiva tutto sommato sopra la sufficienza (certo non si parla né di dieci, né di lodi!)  

Di Luisotti si dice sia un esperto pucciniano: non so di preciso cosa significhi, ma devo dire che la sua direzione mi è parsa equilibrata (gli perdono qualche eccesso di fracasso in alcuni momenti topici) e rispettosa di chi sta sul palco a cantare. Con lui anche l’Orchestra mi è parsa suonare dignitosamente, inclusi i sempre criticati ottoni.

Martina Serafin è stata una Tosca per nulla disprezzabile (suo l’unico applausetto a scena aperta, dopo un Vissi d’arte peraltro non memorabile). Qualche problema, mi è parso, di intonazione sugli acuti, ma in complesso una prestazione onorevole.

Marcelo Álvarez non ha fatto rimpiangere per nulla – alle mie orecchie perlomeno – il bel Jonas della scorsa edizione: voce ancora sicura e soprattutto senza interventi di naso e gola, così caratteristici del commerciante crucco.

Su George Gagnidze (Scarpia) andrebbe stabilito se: a) lui canta male perché costretto dalla regìa a digrignare continuamente i denti e strabuzzare gli occhi, oppure se: b) lui digrigna i denti e strabuzza gli occhi perché non sa cantare (smile!)

Deyan Vatchkov era già stato un discreto Angelotti lo scorso anno, e mi pare abbia confermato quella prestazione.

Il sagrestano di Alessandro Paliaga ha fatto il suo dovere, facendosi almeno udire chiaramente fin su al loggione. Altrettanto non mi sentirei di dire per Massimiliano Chiarolla (uno Spoletta dimesso). Davide Pelissero (Sciarrone) ed Ernesto Panariello (carceriere) hanno ripetuto le loro oneste prestazioni, come nella precedente edizione. La voce in lontananza del pastore era di Elena Caccamo, che la locandina online del teatro ignora bellamente, insieme ai cori di Casoni.

Alla fine moderati applausi per tutti, con una punta (toh!) proprio per Gagnidze!

Insomma, mettiamola così: se non si fosse nell’indiscusso tempio della lirica (come recita con grande modestia la pubblicità Rolex e come ripete ogni giorno il modestissimo Lissner) si potrebbe persino tornare a casa soddisfatti.

14 dicembre, 2007

Di peggio in peggio...

Marcelo Alvarez e il regista Terry Gilliam rompono con La Scala.

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