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03 maggio, 2012

Riecco alla Scala la Toscaccia di Bondy, un pochino ricondizionata


Forse perché sono ancora da ammortizzare i costi dell’allestimento (altre serie ragioni non se ne vedrebbero, perlomeno…) la Scala ripropone anche in questa stagione la deplorevole Tosca di Luc Bondy, che già fece i suoi danni poco più di un anno fa. E, a differenza di allora, è pure inserita nel programma in abbonamento, così – avendola già pagata – un abbonato non può esimersi dal risorbirsela (d'altronde sarebbe azione quanto mai disdicevole, da parte dell’abbonato medesimo, deleteria per la promozione dell’opera lirica, nonchè punitiva verso un amico, prestargli la tessera d’abbonamento per l’occasione, smile!)

In realtà qualcosa di buono nel frattempo è accaduto poichè, essendo il regista svizzero contumace, in questa ripresa la brava Lorenza Cantini fa del suo meglio per smussare, se non proprio per cancellare del tutto (cosa impossibile) le sue principali efferatezze, in specie quelle del secondo atto. Insomma: una produzione che resta semplicemente sconcia, ma non più da codice penale (ri-smile!)

Per le prime due rappresentazioni si è ripetuto un copione ormai quasi obbligato al Piermarini: buh e grida di vergogna alla prima e poi quasi un trionfo alla seconda, oltretutto col cast alternativo. E anche certe reazioni sono state fedeli a quel copione: chi ha assistito alla seconda recita (e non alla prima) crede di aver la prova provata che l’insuccesso di quella fosse opera dei soliti sabotatori di professione; chi ha assistito alla prima (e non alla seconda) si dice certo che il successo di quest’ultima sia da ascriversi all’ignoranza del pubblico bue. Insomma: dispute da bar-sport, ma proprio di quelli che espongono il cartello vietato l’ingresso ai cani e alla logica

Insomma, eccomi puntuale in prima galleria a risentirmi (guardando il meno possibile…) questa straordinaria espressione del genio italico, una storia tutta fuoco e passioni come di più e meglio non potrebbe uscire dallo scenario della Roma papaloide di fine ‘700, mirabilmente descritta con gli strumenti musicali di fine ‘800.

Devo dire che, date le premesse, mi aspettavo di molto peggio. Invece devo ammettere che si è trattato di una prestazione complessiva tutto sommato sopra la sufficienza (certo non si parla né di dieci, né di lodi!)  

Di Luisotti si dice sia un esperto pucciniano: non so di preciso cosa significhi, ma devo dire che la sua direzione mi è parsa equilibrata (gli perdono qualche eccesso di fracasso in alcuni momenti topici) e rispettosa di chi sta sul palco a cantare. Con lui anche l’Orchestra mi è parsa suonare dignitosamente, inclusi i sempre criticati ottoni.

Martina Serafin è stata una Tosca per nulla disprezzabile (suo l’unico applausetto a scena aperta, dopo un Vissi d’arte peraltro non memorabile). Qualche problema, mi è parso, di intonazione sugli acuti, ma in complesso una prestazione onorevole.

Marcelo Álvarez non ha fatto rimpiangere per nulla – alle mie orecchie perlomeno – il bel Jonas della scorsa edizione: voce ancora sicura e soprattutto senza interventi di naso e gola, così caratteristici del commerciante crucco.

Su George Gagnidze (Scarpia) andrebbe stabilito se: a) lui canta male perché costretto dalla regìa a digrignare continuamente i denti e strabuzzare gli occhi, oppure se: b) lui digrigna i denti e strabuzza gli occhi perché non sa cantare (smile!)

Deyan Vatchkov era già stato un discreto Angelotti lo scorso anno, e mi pare abbia confermato quella prestazione.

Il sagrestano di Alessandro Paliaga ha fatto il suo dovere, facendosi almeno udire chiaramente fin su al loggione. Altrettanto non mi sentirei di dire per Massimiliano Chiarolla (uno Spoletta dimesso). Davide Pelissero (Sciarrone) ed Ernesto Panariello (carceriere) hanno ripetuto le loro oneste prestazioni, come nella precedente edizione. La voce in lontananza del pastore era di Elena Caccamo, che la locandina online del teatro ignora bellamente, insieme ai cori di Casoni.

Alla fine moderati applausi per tutti, con una punta (toh!) proprio per Gagnidze!

Insomma, mettiamola così: se non si fosse nell’indiscusso tempio della lirica (come recita con grande modestia la pubblicità Rolex e come ripete ogni giorno il modestissimo Lissner) si potrebbe persino tornare a casa soddisfatti.

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