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28 maggio, 2012

La Norma del Regio


Ieri terz’ultima delle 11 recite di Norma al Regio torinese, piacevolmente stracolmo. Trattasi di una ripresa dell’allestimento di Alberto Fassini di parecchi anni fa.

Che dire di un’opera sulla quale sono state scritte enciclopedie? Allora la prendo alla larga, esaminando qualche aspetto, come dire… etno-geografico-storico. Intanto, dove è ambientata l’opera? Qui dobbiamo subito rilevare una grande incongruenza del libretto, che consiste nell’ubicare nelle Gallie - quindi nel mondo celtico-druidico-francese - l’Irminsul, che è invece simbolo religioso e divinità tipicamente sassone-germanica.

Questa operazione però non è farina del sacco di Felice Romani, che già dieci anni prima di Norma aveva scritto per Pacini La sacerdotessa d’Irminsul, coerentemente ambientata ad est del Reno. Per il libretto di Norma, Romani si rifece alla tragedia – nuova di zecca al tempo - di Alexandre Soumet, da cui copiò anche questa (ma per fortuna soltanto questa!) incongruenza. Ma Soumet era stato a sua volta convinto a compiere questa forzatura da François-René de Chateaubriand, che nei suoi Les Martyrs aveva deliberatamente importato l’Irminsul nel mondo druidico, in base alla superficiale considerazione che anche i Galli adoravano divinità arboree.

Per la cronaca, la foresta dove si trovava l’Irminsul è posizionabile nella parte nord-orientale di quello che oggi è il Land tedesco Nordrhein-Westfalen, all’interno di un triangolo che ha come vertici Dortmund, Kassel e Hannover. Sulla sua localizzazione precisa ci sono almeno due teorie. Secondo la prima, basata su un fatto storico (la presa di Eresburg nel 772 da parte di CarloMagno, che vi fece distruggere i simboli delle religioni pagane) l’Irminsul si trovava nelle vicinanze dell’odierna Obermarsberg, e precisamente sul vicino Priesterberg (monte dei sacerdoti). La seconda supposizione (che fu avallata dalla propaganda nazista, e qui avanzare qualche sospetto è lecito…) ubica invece il luogo sacro una sessantina di Km a nord, nei pressi dell’odierna Detmold, dove sono ancor oggi visibili le Externsteinen, gigantesche formazioni di pietra che recano delle incisioni e bassorilievi in cui si riconoscerebbe anche l’Irminsul umiliato da CarloMagno.

Irminsul era probabilmente una grande quercia venerata come una divinità, analogamente al frassino Yggdrasil delle saghe nordiche di cui si occuperà – nel suo Ring - tale Richard Wagner. Il quale, guarda caso, fu un grandissimo ammiratore di Bellini e di Norma in particolare, arrivando al punto di scrivere una sua aria (alternativa a quella di Oroveso prima del finale) per una rappresentazione (poi sfumata) a Parigi nel 1839! E come non riconoscere in Tannhäuser e soprattutto in Lohengrin chiari spunti presi proprio da Norma… per non parlare del Liebestod, il cui modello fu quel crescendo sempre e incalzando che accompagna Io più non chiedo, io son felice che Norma canta avviandosi al rogo.

Un’altra curiosità, più o meno rilevante rispetto ai problemi di ambientazione dell’opera, riguarda il periodo storico in cui collocare la vicenda. Il libretto di Romani, per fortuna, non ci lascia molti dubbi – supponendo che il suo Pollione sia proprio il proconsole Gaio Asinio Pollione – nel collocare la vicenda ai tempi di Giulio Cesare, quindi ben prima di Cristo (Pollione fu nominato proconsole nel 39 a.C. e morì nel 4 d.C.)

Invece qui era stato Soumet a fare una gran confusione, fornendoci un’indicazione della massima rilevanza, nel definire Clotilde come una nutrice cristiana, e nel metterle in bocca, nei dialoghi con Norma e il di lei figlio Agenor, giudizi negativi sulle religioni pagane e l’invito ad abbracciare il cristianesimo. Il che comporterebbe di spostare in avanti le lancette dell’orologio come minimo di parecchie decine d’anni, se non di un paio di secoli addirittura, a Pollione ampiamente defunto!

Probabilmente Romani si accorse dell’incongruenza ed evitò accuratamente di adeguarcisi, anche per non introdurre nell’opera un ulteriore, pesantuccio - e, nella fattispecie, fuorviante - aspetto quale il problema del conflitto fra religioni. Nulla di ciò quindi nel libretto, dove Clotilde non solo è semplicemente definita come confidente di Norma, ma nelle sue fugaci esternazioni mostra di essere fedele osservante del culto pagano. Non parliamo poi del finale di Soumet (Norma che ammazza i figlioletti e poi si suicida!) che Romani letteralmente (e mirabilmente) reinventò.  

Detto ciò, com’è l’allestimento di Fassini, ripreso oggi da Vittorio BorrelliLa vicenda ci viene presentata – toh! – precisamente come vien fuori dalla lettura del libretto. Peccato perché, proprio come Butterfly, anche Norma si presterebbe molto bene ad una proposizione in chiave di turismo sessuale (smile!) Vorrà dire che sarà per il prossimo regista-genio.

Sempre come da libretto, i movimenti di tutti i protagonisti e comparse sono ridotti quasi a zero e chi canta – salvo la povera Norma, sdraiata, ma per pochissime battute – lo fa stando sempre in posizione eretta e non da fachiro o contorsionista.
   
Le scene sono austere, proprio minimaliste, in un’ambientazione cupa, con alte pareti di pietra granitica, impersonate da quinte mobili che traslano parallelamente al proscenio, aprendo o chiudendo di volta in volta la vista su panorami più ampi, rappresentati da fondali che raffigurano cieli chiari con una grande luna piena (atto primo) o foreste impenetrabili (atto secondo). L’altare del clandestino Irminsul è sovrastato da due blocchi di granito che ricordano (in scala) la Garisenda e l'Asinelli, forse per far sentire Mariotti a casa sua (smile!)  

I costumi sono più o meno plausibilmente (vedi gli stivaletti di Pollione e Flavio...) dell’epoca romana (repubblicana o imperiale, chi può dirlo?)  

Insomma, una visione abbastanza classica e nobile, che a qualche snob saprà di museo, ma che al sottoscritto non è per nulla dispiaciuta.
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Sul fronte musicale, do senza esitazioni un ottimo a Michele Mariotti: per come ha guidato l’orchestra e soprattutto per come ha pilotato i cantanti, con un gesto sempre essenziale e composto. Ha tenuto tempi comodi, ma mai slentati, né ha ecceduto in enfasi o retorica. Meritatissimo l’autentico trionfo che il pubblico gli ha tributato.

Subito appresso, il Coro di Claudio Fenoglio, che in quest’opera ha una parte determinante, e l’ha sostenuta in modo eccellente.

Note meno entusiasmanti sul fronte interpreti. Aspettavo un grande Marco Berti, e invece è arrivato sul palco il secondo, Aquiles Machado (che Berti aveva sostituito la sera precedente…) Lui ce l’ha messa tutta, ma il suo è un Pollione un pochino… approssimativo; ha anche provato a sparare il DO con corona puntata nell’aria di esordio, con esiti non propriamente edificanti, e per il resto ha navigato sul limite della sufficienza.

Le due protagoniste femminili, Dimitra Theodossiou e Kate Aldrich non mi sono dispiaciute nei loro incontri-scontri-duetti, in atmosfere più intimiste, mentre nelle parti squisitamente solistiche non hanno brillato particolarmente, la prima urlando eccessivamente gli acuti e difettando spesso in intonazione, la seconda mostrando qualche limite nella zona bassa e una certa freddezza nell’espressione. Alla Dimitra il pubblico ha comunque riservato un clamoroso trionfo alla fine di entrambi gli atti: buon per lei!

Bene invece Giacomo Prestia, che ha impersonato un più che degno Oroveso, gran portamento e bella voce penetrante sull’intera gamma. Sì, la parte non sarà tipo Filippo o simili, ma non è proprio una cosuccia da nulla.

Gianluca Floris e Rachel Hauge hanno ben compitato le loro parti di comprimari.
  
Uno spettacolo tutto sommato più che dignitoso, anche se non entrerà in guinness o in annali delle meraviglie.

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