Ieri terz’ultima delle 11 recite di
Norma al Regio torinese,
piacevolmente stracolmo. Trattasi di una ripresa dell’allestimento di Alberto Fassini di parecchi anni fa.
Che dire di un’opera sulla quale
sono state scritte enciclopedie? Allora la prendo alla larga, esaminando
qualche aspetto, come dire… etno-geografico-storico. Intanto, dove è ambientata l’opera? Qui dobbiamo subito
rilevare una grande incongruenza del libretto, che consiste nell’ubicare nelle
Gallie - quindi nel mondo celtico-druidico-francese - l’Irminsul, che è invece simbolo religioso e divinità tipicamente
sassone-germanica.
Questa operazione però non è farina
del sacco di Felice Romani, che già
dieci anni prima di Norma aveva scritto per Pacini La sacerdotessa d’Irminsul, coerentemente ambientata ad est del
Reno. Per il libretto di Norma, Romani si rifece alla tragedia – nuova di zecca
al tempo - di Alexandre Soumet, da
cui copiò anche questa (ma per fortuna soltanto questa!) incongruenza. Ma
Soumet era stato a sua volta convinto a compiere questa forzatura da François-René
de Chateaubriand,
che nei suoi Les Martyrs aveva deliberatamente importato l’Irminsul nel
mondo druidico, in base alla superficiale considerazione che anche i Galli
adoravano divinità arboree.
Per la cronaca, la foresta dove si
trovava l’Irminsul è posizionabile nella parte nord-orientale di quello che
oggi è il Land tedesco Nordrhein-Westfalen, all’interno di un
triangolo che ha come vertici Dortmund, Kassel e Hannover. Sulla sua
localizzazione precisa ci sono almeno due teorie. Secondo la prima, basata su
un fatto storico (la presa di Eresburg
nel 772 da parte di CarloMagno, che
vi fece distruggere i simboli delle religioni pagane) l’Irminsul si trovava
nelle vicinanze dell’odierna Obermarsberg, e precisamente sul vicino Priesterberg (monte dei sacerdoti). La
seconda supposizione (che fu avallata dalla propaganda nazista, e qui avanzare qualche sospetto è lecito…) ubica invece il
luogo sacro una sessantina di Km a nord, nei pressi dell’odierna Detmold, dove sono ancor oggi visibili
le Externsteinen,
gigantesche formazioni di pietra che recano delle incisioni e bassorilievi in
cui si riconoscerebbe anche l’Irminsul umiliato da CarloMagno.
Irminsul era
probabilmente una grande
quercia venerata come una
divinità, analogamente al frassino Yggdrasil
delle saghe nordiche di cui si occuperà – nel suo Ring - tale Richard Wagner.
Il quale, guarda caso, fu un grandissimo ammiratore di Bellini e di Norma in
particolare, arrivando al punto di scrivere una sua aria (alternativa a quella di Oroveso prima del finale) per una
rappresentazione (poi sfumata) a Parigi nel
1839! E come non riconoscere in Tannhäuser
e soprattutto in Lohengrin chiari
spunti presi proprio da Norma… per non parlare del Liebestod, il cui modello fu quel crescendo sempre e incalzando che accompagna Io più non chiedo, io son
felice che Norma canta
avviandosi al rogo.
Un’altra curiosità, più o
meno rilevante rispetto ai problemi di ambientazione dell’opera, riguarda il periodo storico in cui collocare la
vicenda. Il libretto di Romani, per fortuna, non ci lascia molti dubbi –
supponendo che il suo Pollione sia proprio il proconsole Gaio Asinio Pollione – nel collocare la vicenda ai tempi di Giulio
Cesare, quindi ben prima di Cristo (Pollione fu nominato proconsole nel 39 a.C.
e morì nel 4 d.C.)
Invece qui era stato
Soumet a fare una gran confusione, fornendoci un’indicazione della massima rilevanza,
nel definire Clotilde come una
nutrice cristiana, e nel metterle in
bocca, nei dialoghi con Norma e il di lei figlio Agenor, giudizi negativi sulle
religioni pagane e l’invito ad abbracciare il cristianesimo. Il che
comporterebbe di spostare in avanti le lancette dell’orologio come minimo di parecchie
decine d’anni, se non di un paio di secoli addirittura, a Pollione ampiamente
defunto!
Probabilmente Romani si
accorse dell’incongruenza ed evitò accuratamente di adeguarcisi, anche per non
introdurre nell’opera un ulteriore, pesantuccio - e, nella fattispecie,
fuorviante - aspetto quale il problema del conflitto
fra religioni. Nulla di ciò quindi nel libretto, dove Clotilde non solo è semplicemente
definita come confidente di Norma, ma
nelle sue fugaci esternazioni mostra di essere fedele osservante del culto pagano.
Non parliamo poi del finale di Soumet (Norma che ammazza i figlioletti e poi si
suicida!) che Romani letteralmente (e mirabilmente) reinventò.
Detto ciò, com’è
l’allestimento di Fassini, ripreso oggi da Vittorio
Borrelli? La vicenda ci viene presentata – toh! – precisamente come vien fuori dalla lettura del libretto. Peccato perché, proprio come Butterfly, anche Norma si presterebbe molto bene ad una proposizione in chiave di turismo sessuale (smile!) Vorrà dire che sarà per il prossimo regista-genio.
Sempre come da libretto, i movimenti di tutti i protagonisti e comparse sono ridotti quasi a zero e chi canta – salvo la povera Norma, sdraiata, ma per pochissime battute – lo fa stando sempre in posizione eretta e non da fachiro o contorsionista.
Le scene sono austere, proprio
minimaliste, in un’ambientazione cupa, con alte pareti di pietra granitica, impersonate
da quinte mobili che traslano parallelamente al proscenio, aprendo o chiudendo
di volta in volta la vista su panorami più ampi, rappresentati da fondali che
raffigurano cieli chiari con una grande luna piena (atto primo) o foreste
impenetrabili (atto secondo). L’altare del clandestino
Irminsul è sovrastato da due blocchi di granito che ricordano (in scala) la Garisenda e l'Asinelli, forse per far sentire Mariotti
a casa sua (smile!)
I costumi sono più o meno
plausibilmente (vedi gli stivaletti di Pollione e Flavio...) dell’epoca romana (repubblicana o imperiale, chi può dirlo?)
Insomma, una visione abbastanza
classica e nobile, che a qualche snob
saprà di museo, ma che al sottoscritto
non è per nulla dispiaciuta.
___
Sul fronte musicale, do senza
esitazioni un ottimo a Michele Mariotti: per come ha guidato
l’orchestra e soprattutto per come ha pilotato i cantanti, con un gesto sempre
essenziale e composto. Ha tenuto tempi comodi, ma mai slentati, né ha ecceduto
in enfasi o retorica. Meritatissimo l’autentico trionfo che il pubblico gli ha
tributato.
Subito appresso, il Coro di Claudio Fenoglio, che in quest’opera ha una parte determinante, e l’ha
sostenuta in modo eccellente.
Note meno entusiasmanti sul fronte interpreti.
Aspettavo un grande Marco Berti, e invece è arrivato sul palco il secondo, Aquiles Machado (che Berti aveva
sostituito la sera precedente…) Lui ce l’ha messa tutta, ma il suo è un
Pollione un pochino… approssimativo; ha anche provato a sparare il DO con corona puntata nell’aria di
esordio, con esiti non propriamente edificanti, e per il resto ha navigato sul
limite della sufficienza.
Le due protagoniste femminili, Dimitra Theodossiou e Kate Aldrich non mi sono dispiaciute nei
loro incontri-scontri-duetti, in atmosfere più intimiste, mentre nelle parti
squisitamente solistiche non hanno brillato particolarmente, la prima urlando
eccessivamente gli acuti e difettando spesso in intonazione, la seconda
mostrando qualche limite nella zona bassa e una certa freddezza nell’espressione.
Alla Dimitra il pubblico ha comunque riservato un clamoroso trionfo alla fine
di entrambi gli atti: buon per lei!
Bene invece Giacomo Prestia, che ha impersonato un più che degno Oroveso, gran
portamento e bella voce penetrante sull’intera gamma. Sì, la parte non sarà
tipo Filippo o simili, ma non è
proprio una cosuccia da nulla.
Gianluca Floris e Rachel Hauge hanno ben compitato le loro parti di comprimari.
Uno spettacolo tutto sommato più
che dignitoso, anche se non entrerà in guinness
o in annali delle meraviglie.
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